INTERROGATIVI E RESPONSABILITÀ DELLA POLITICA
AL TEMPO DEL CORONAVIRUS
La crisi che segna queste settimane così difficili per il paese e per l’Europa interroga non solo la dimensione esistenziale di ogni cittadina e di ogni cittadino. La portata e la profondità dell’esperienza che abbiamo iniziato a vivere e della quale non riusciamo a vedere il termine pone anche la politica di fronte a interrogativi e responsabilità. Non solo per la condizione di emergenza che chiede di essere governata: è come se la crisi sanitaria (e quella economico-sociale che ad essa è connessa) abbiano accelerato i mutamenti profondi del nostro tempo, lacerando in modo netto il corso della storia. Il trauma di questa discontinuità segna la fine di certezze e paradigmi, sancisce la rottura di ogni schema politico che fino ad oggi abbiamo utilizzato e rende quanto mai urgente provare a individuare, se possibile, alcune coordinate. Lo facciamo nell’ottica cattolico-democratica che esprime la nostra intelligenza delle cose e da senso al nostro impegno politico nella ricerca del bene della comunità cittadina, regionale, nazionale, europea e internazionale a cui apparteniamo.
Servizio Sanitario Nazionale, spesa pubblica e diritto alla salute
Pur nella fatica e nella drammaticità di questi giorni, il nostro paese scopre l’importanza e la lungimiranza di alcune scelte “epocali”. Il riconoscimento del diritto alla salute in Costituzione e la sua attuazione mediante la costituzione del Servizio Sanitario Nazionale hanno fatto sì che l’Italia si trovasse ad affrontare questa gravissima crisi sanitaria sapendo mettere davanti a tutto la cura delle donne e degli uomini in gravi condizioni di salute a prescindere dalla loro condizione sociale o economica. Una condizione, questa, che ci pone fra i paesi più sviluppati a livello internazionale. Dall’Osservatorio dei Conti Pubblici dell'Università Cattolica guidata da Carlo Cottarelli si evincono questi dati: «Dal 2000 al 2018 questo aggregato è cresciuto del 69%, da 68,3 miliardi a 115,4. L’aumento è stato rilevante – pari al 22% – anche se valutato in termini reali, ossia al netto dell’inflazione. Per effetto di questi andamenti, l’incidenza della spesa sanitaria sul Pil è aumentata di un punto, dal 5,5% del 2000 al 6,5% del 2018. Ulteriori incrementi fino a 120 miliardi erano previsti sino al 2021, anche prima delle recenti decisioni relative alla crisi del coronavirus, per effetto dei maggiori stanziamenti per il Servizio Sanitario Nazionale». Sono tuttavia numeri che vanno letti prendendo in considerazione il modificarsi al rialzo delle spese per la formazione e qualificazione del personale medico e ospedaliero, così come delle apparecchiature e delle terapie farmacologiche. Una crescita di costi che solo in minima parte è stata coperta dai nuovi stanziamenti. A questo si sono sommate le difficoltà prodotte dall’aver sviluppato, negli ultimi decenni, un approccio forse eccessivamente “aziendalistico” alla organizzazione di quella rete di servizi che devono garantire il diritto alla salute. Se dunque il nostro sistema qualitativamente ha standard altissimi, mostra tuttavia la necessità di ripensare il modo in cui la sanità è stata delegata alle Regioni e ha conosciuto uno sviluppo fortemente disomogeneo nel paese e forse non sufficientemente adeguato alla realtà di una società che con l’accrescersi dell’età media vede aumentare patologie diffuse. Occorre allora che la spesa pubblica in questo settore strategico venga sempre pensata in funzione della tutela del diritto alla salute come diritto universale, da garantire a tutte le donne e gli uomini che si trovano in Italia e questo rende necessario pensare in questa chiave tanto la dimensione organizzativa, quanto quella economica del sistema della sanità e del Welfare.
La solidarietà e la tutela degli ultimi
È emersa una solidarietà di popolo: in un contesto in cui persino abbracciarsi è vietato, sono stati compiuti gesti di vicinanza verso i farmacisti, verso i medici e gli infermieri, verso le cassiere del supermercato. Persone alle quali non si è mai mostrata tanta gratitudine da parte di sconosciuti, medagliette religiose regalate in segno di protezione, persone che fanno la spesa per i propri condomini, magari anziani. Tutto ciò non senza fatica: la fatica di lavorare da casa con i figli piccoli, la fatica di comprendere il lavoro dell'insegnante, l’attenzione degli insegnanti a raggiungere soprattutto i più deboli (che magari nemmeno dispongono di un pc, quando altri genitori vorrebbero le videoconferenze). «Camminare insieme, col passo degli ultimi», come diceva don Tonino Bello, significa per qualcuno avere l'impressione di star fermo. Eppure, anche questa è attenzione! A questo riguardo è essenziale sviluppare anche immediate azioni che si prendano cura degli ultimi delle nostre città. Alcune forze politiche, come Demos a Torino, hanno chiesto che l’amministrazione cittadina apra giorno e notte i dormitori e i ricoveri per i senza tetto. Si tratta di una misura che deve essere estesa a livello nazionale, per proteggere coloro che più di altri, in questo momento, non hanno protezione.
Equità e giustizia o massimizzazione dei profitti?
Oggi questa crisi ci rivela, fra le altre, una cosa: l’urgenza di un re-shoring. L’ubriacatura di off-shoring e di delocalizzazione in Paesi dove la manodopera costa meno, proprio in tempi di calamità, si sta rivelando un tremendo boomerang. Non è sovranismo, è capacità di compiere scelte di equità e giustizia invece che scelte di massimizzazione del profitto che, alla lunga, non pagano. Si tratta piuttosto di riconoscere settori economici e di produzione strategici, legati alla garanzia dei diritti individuali e sociali fondamentali (dall’energia ai trasporti, dalla sanità alla comunicazione) rispetto ai quali serve fissare limiti precisi a ogni forma di delocalizzazione in modo da garantire che il paese abbia sempre una “riserva” di dotazioni che ne salvaguardino autonomia e libertà di azione. Questa crisi focalizza bene, ancora una volta, come l’Italia, essendo un Paese trasformatore, sia dipendente dalle interconnessioni produttive e commerciali globali grazie alle nostre specializzazioni produttive verticali, dalla meccanica, all’alimentare, alla moda, che sono apprezzate ogni qualvolta sono conosciute e presentate in modo opportuno dal punto di vista della comunicazione e della dimensione dell’offerta. Indubbiamente la presa di coscienza che questa pandemia sta facendo emergere non può limitarsi ad evidenziare solo la corsa al profitto da parte delle aziende che hanno dislocato unità produttive in aree del mondo in cui i costi sono più bassi, ma è necessaria una forte iniziativa politica internazionale che regoli gli scambi e che faccia della tutela sanitaria, previdenziale e di sicurezza dei lavoratori l’elemento necessario per effettuare scambi commerciali internazionali. Il re-shoring dovrebbe essere un fenomeno limitato e guidato, come lo è, da logiche di filiera produttiva di prossimità con conseguente creazione di valore aggiunto grazie anche all’unicità di chi lavora in Italia che, come il proprio datore di lavoro, sa essere creativo, innovativo e legato a quella comunità che è l’impresa.
Ripensare l’Europa nel contesto globale
Con l’acuirsi dell’emergenza si è rivelata tutta la fragilità dei “populismi”, italiani, europei e internazionali. Emerge con chiarezza la povertà di spessore culturale di un modo di fare politica tutto schiacciato sul presente e più in particolare sulle paure e sugli istinti del presente ma privo di una lettura e di una intelligenza della realtà, che deve sempre giocarsi su orizzonti temporali più lunghi e articolati. Eppure, il nuovo Coronavirus non segna il frantumarsi solo di ogni schema sovranista. Anche l’Europa che abbiamo conosciuto fino ad oggi, costruita in una logica intergovernativa, come lo spazio di un mero equilibrio fra interessi nazionali esemplificato nella centralità politica del Consiglio dei Capi di Stato e di Governo, nella centralità degli equilibri di bilancio, nella limitazione alle capacità di spesa pubblica, passa velocemente di fronte alla rapidità del contagio. Le parole della presidente della BCE appartengono ad una logica e ad un tempo oramai tramontato e stridono non solo con la situazione italiana ma con la totale inversione di marcia della politica economica tedesca che nel volgere di una notte ha accantonato decenni di riduzione della funzione economico-sociale dello Stato per varare un impianto di fortissimo impegno pubblico. Tutto questo ci dice che quella che abbiamo conosciuto negli ultimi decenni non era e non può essere l’Europa come realtà politica, come soggetto dotato di autorevolezza e dunque di adeguati poteri per poter garantire ad un livello più alto e compiuto i diritti e i doveri di 400 milioni di persone. Quello che la crisi ci consegna non è però il vuoto politico ma un’opportunità storica: quella di riprendere le fila di quel progetto che era nella mente dei padri fondatori. Dopo le settimane e i mesi della crisi il mondo che avremo sarà molto più simile all’esito di un conflitto mondiale e questo richiederà per la scelta coraggiosa di un’Europa che non sia la fine degli stati e delle nazioni, ma al contrario il loro pieno compimento dentro un’unione politica che sappia curare il bene di tutti.
La Consulta Nazionale di Argomenti2000