Dall’inizio del luglio 2017 sino a dicembre sarà la Gran Bretagna a guidare la Ue, succedendo a Malta secondo un principio di turnazione semestrale stabilito nei trattati europei. E’ uno dei tanti paradossi che si sono venuti a creare con il voto referendario in un paese nel quale gli over 65 hanno determinato il destino degli under 35 scegliendo a larga maggioranza l’opzione Brexit a differenza di quanto hanno fatto i loro figli e nipoti. Impedire a Londra di guidare per metà dell’anno un’istituzione dalla quale ha scelto di uscire è impossibile. Le modalità del divorzio sono stabilite nell’articolo 50 del Trattato sul funzionamento della Ue, il quale prevede tre ipotesi. La prima è un recesso entro un tempo massimo di due anni a far data dalla notifica della volontà di recedere al Consiglio europeo da parte dello Stato interessato. L’accordo di recesso è negoziato dalla Commissione e chiuso dal Consiglio europeo, previa approvazione del Parlamento. La seconda ipotesi è che, entro il termine di due anni, non si concluda – nonostante i negoziati – alcun accordo di recesso. In tal caso i trattati cessano automaticamente di essere applicabili allo Stato recedente. Infine la terza ipotesi, è che il Consiglio europeo, d’intesa con lo Stato recedente, decida all’unanimità di prorogare il termine dei due anni.
Quindi nel 2017 ci sarà obbligatoriamente una Ue pilotata dagli inglesi. Una tra le tante contraddizioni che balzano agli occhi a urne chiuse e che segnalano l’esistenza (e la difficile convivenza) di anime molto diverse tra loro entro i confini nazionali. Da una parte, ad esempio, c’è la Londra cosmopolita, dove poco meno di trecento etnie convivono in maniera abbastanza pacifica, dove i matrimoni misti sono ormai da tempo la norma, motore finanziario dell’economia inglese e non soltanto (la City è la seconda piazza al mondo per importanza dopo Wall Street), centro di innovazione tecnologica e culturale, ancora in grado come accade dai Sessanta di imporre gusti, modi e tendenze, di attrarre giovani da ogni parte del pianeta, molti dei quali erano in lacrime ieri mattina nella metropolitana e negli uffici per il risultati referendari. Ma tra i sudditi di Elisabetta ci sono anche milioni di individui con un basso livello di scolarità, che hanno timore di tutto ciò che ai loro occhi appare straniero, spesso feriti dalle conseguenze della crisi economica, che si sentono minacciati in quella che ritengono essere una immaginaria “identità nazionale” costruita in maniera immutabile molto tempo fa. Per questi uomini e donne, spesso residenti in zone rurali o in piccole cittadine di provincia, la parola “back”, ovvero “indietro”, usata senza risparmio da chi voleva andarsene dalle Ue ha avuto un suono incantevole, un significato magico. A loro pensava il Sun , tabloid più letto e influente del paese quando pochi giorni fa ha proposto una prima pagina occupata da un gioco di parole: “BeLeave in Britain” strillava il titolo a caratteri di scatola. Ovvero “Credete nella Gran Bretagna” con l’opzione dell’uscita (“Leave”, appunto) resa assai evidente grazie all’utilizzo dei colori della bandiera nazionale. In un editoriale si sosteneva che abbandonare la Ue "consentirebbe di riaffermare la sovranità che abbiamo purtroppo perduto, iniziare a costruire un futuro da potente nazione indipendente che sarà invidiata da tutti e rispettata ovunque”. Slogan ad affetto che hanno convinto gli elettori di destra o di sinistra di estrazione working class nostalgici dell’antico passato imperiale, a disagio con i processi di globalizzazione, ossessionati dagli immigrati.
C’è poi l’Inghilterra del nord, che comprende soprattutto lo Yorkshire (terra della parlamentare Jo Cox, assassinata da un fanatico di destra la scorsa settimana) e le contee dove a inizio Ottocento ebbe origine la rivoluzione industriale. Aree a saldissima maggioranza laburista nelle elezioni politiche, che questa volta hanno scelto contro le indicazioni del partito. I motivi non sono ardui da comprendere: zona di rapida espansione economica in epoca di crescita durante la parte iniziale dei governi Blair sul finire del secolo scorso, hanno subito in seguito le conseguenze dei processi di fusione in ambito planetario quando le fabbriche un tempo di proprietà britannica sono passate agli asiatici e hanno ridotto gli organici o addirittura chiuso i battenti. I numeri degli occupati nel manifatturiero sono in caduta libera in queste zone e i lavoratori si sono vendicati sposando in maniera irrazionale la causa Brexit, indifferenti agli inviti provenienti dalla debole campagna di un partito che vede in Jeremy Corbyn un leader eurotiepido e incapace di scaldare gli animi.
L’ultima, e forse più spinosa questione in prospettiva futura, riguarda la Scozia e le contee dell’Irlanda del Nord. Qui ha prevalso a larghissima maggioranza il favore nei confronti di Bruxelles e ora si sta rafforzando la rabbia verso chi li ha spinti fuori dall’Europa. In Scozia nel 2014, al referendum indipendentista lanciato dall'allora premier Alex Salmond, avevano prevalso sia pur di stretta misura i contrari all'addio a Londra. Ora, nonostante tutte le circoscrizioni abbiano scelto in blocco di opporsi al divorzio con Bruxelles, la Scozia si ritrova fuori dall'Unione. Dopo lo spoglio nel Regno Unito, Salmond in un'intervista ha subito accennato un nuovo referendum per l’ indipendenza da Londra , la cui richiesta scatterà non appena il successore di Cameron inizierà i negoziati previsti dai trattati per uscire definitivamente dall'Unione. “Noi vogliamo rimanere in Europa”, ha detto, “anche se questo non significherà che adotteremo l'euro". Dello stesso avviso Nicola Sturgeon, la donna che gli è succeduta alla testa del governo e dello Scottish National Party. Sturgeon ha poi rincarato la dose: "il paese ha votato in modo chiaro, senza equivoci, per la permanenza nella Ue e accolgo con favore questo sostegno al nostro status europeo che appoggerò in ogni maniera". Animi accesi contro gli inglesi anche in Irlanda del Nord. Qui si invoca un altro referendum, stavolta per la riunificazione delle contee dell’Ulster con una Dublino che deve la rinascita dalla crisi ai fondi dell'Unione. “Con l'uscita della Gran Bretagna , l'Irlanda dovrebbe esprimersi per la propria riunificazione e restare per intero europea", ha detto il vicepremier dell'Irlanda del Nord, Martin McGuinness, leader del partito nazionalista. Il Regno Unito, insomma, potrebbe a breve polverizzarsi, cancellando una storia plurisecolare. Un’ulteriore responsabilità che gli studiosi in futuro attribuirebbero a David Cameron, premier dimissionario la cui imbarazzante debolezza di visione politica si è manifestata negli ultimi mesi in tutta evidenza agli occhi del mondo intero.