Le riforme istituzionali nell’Italia europea del XXI secolo
Quella delle riforme istituzionali è questione che accompagna da almeno quattro decenni il dibattito politico italiano. L’aggiornamento, la revisione o il profondo mutamento dell’assetto dell’architettura della Repubblica sono passati attraverso una serie di stagioni politiche riflettendo, come in uno specchio, esigenze molteplici. Parti rilevanti della classe dirigente del paese, politica e non solo, hanno più volte posto il problema di mettere la nostra democrazia in grado di operare con efficacia dentro un orizzonte storico segnato da mutamenti profondi che per l’Italia hanno significato la fine del sistema politico che era nato con la Repubblica. D’altro canto, la riforma dell’assetto dei poteri dello Stato è apparsa a molte dirigenze partitiche e politiche come il sigillo da porre su una esperienza politica o l’ambizione non nascosta di consacrare un ruolo di preminenza nella vita del paese. Così, sulle diverse proposte – dal premierato al presidenzialismo, dal federalismo all’autonomia – si sono spese energie di elaborazione e discussioni in commissioni parlamentari e non solo e si sono consumati crediti di autorevolezza politica.
L’autonomia differenziata da un lato e l’idea dell’avvio di un iter di riforma dell’assetto dello Stato in senso presidenziale – o di un premierato – collocano dunque anche questa legislatura nel solco di un itinerario articolato. E lo fanno con la novità che a guidare politicamente le istituzioni nazionali vi è una maggioranza imperniata su un partito marcatamente di destra, che non nasconda la sua volontà di rivedere l’ordinamento istituzionale dando all’istituto della Presidenza della Repubblica una caratura esecutiva assai marcata, avendo come paradigma l’istituzione che ha sede al palazzo dell’Eliseo, in Francia. Tuttavia, questo nuovo avvio di un iter di riforma costituzionale si interseca, in modo problematico, con la legge sull’autonomia differenziata fortemente voluta dalla Lega, che sulla carta si muove in una direzione opposta: quella di accentuare il regionalismo in un senso che va ben oltre il federalismo, perché tende a svincolare i governi regionali dalla cornice nazionale su materie, come istruzione e sanità, che hanno a che fare con i diritti universali.
A ben vedere il dibattito pubblico sul disegno di legge voluto dal ministro Calderoli e sulle ipotesi di riforma costituzionale ventilate dalla maggioranza appare per adesso molto superficiale, segnato anche da una sorta di distanza rispetto a queste tematiche che caratterizza la posizione delle forze di opposizione. Queste ultime lamentano che non siano queste le priorità che il paese attende in una fase delicata della sua vita, segnata dallo scenario di una guerra alle porte dell’Europa. E tuttavia occorre chiedersi se questo sia sufficiente nel momento in cui la maggioranza di governo, che ha il compito di definire l’agenda politica del paese, investe il tema delle riforme istituzionali di una così marcata priorità. Al di là di un dato identitario evidente – un regionalismo estremo per la Lega e il segno de “l’uomo forte” alla guida dello Stato per Fratelli d’Italia –, la questione delle riforme istituzionali resta uno dei grandi elementi incompiuti della storia politica recente del nostro paese ed è un’esigenza dettata dalle cose.
Affrontarla richiede però uno sforzo di intelligenza e contestualizzazione della cornice storica e politica nella quale ci troviamo. Rispetto al momento in cui emersero le proposte di andare verso una forma di premierato o di presidenzialismo, così come quelle relative al federalismo della Lega dei primi anni Novanta, lo scenario italiano è del tutto mutato nelle sue ragioni culturali e sociali e lo è perché parte di un orizzonte europeo e internazionale che oggi risponde ad equilibri del tutto nuovi e rispetto ai quali ancora si fatica a trovare efficaci chiavi di lettura. È forse utile richiamare alcuni elementi per poter cogliere la qualità del tutto diversa nella quale oggi si colloca il dibattito sulle riforme. Per quanto attiene alla questione del regionalismo e del federalismo, siamo a oltre venti anni dal varo della riforma del titolo V che già aveva attribuito un notevole rilievo alle regioni quali istituzioni dotate di specifiche competenze e con potestà legislativa. Soprattutto in materia di organizzazione dei servizi socio-sanitari, il nostro sistema regionale ha acquisito una funzione di primo piano, al punto che i bilanci delle nostre regioni sono legati, per circa il 70%, al comparto socio-sanitario. Eppure, l’esperienza di questi venti anni è segnata da numerose esperienze nelle quali si è dimostrata l’inefficienza amministrativa e di bilancio nella gestione di un insieme di servizi centrali, perché legati alla tutela del diritto alla salute che è diritto universale. Si può aggiungere come l’esperienza della pandemia di Covid-19 abbia messo in evidenza una serie di nodi problematici per un paese che ha una legislazione attuativa della Costituzione imperniata sul Servizio Sanitario Nazionale che però deve declinare la propria gestione in un quadro che si è parcellizzato, creando di fatto tanti sistemi sanitari quante sono le regioni del paese. Un quadro disomogeneo, che si riflette anche sulla diversa qualità dei servizi e che dunque di fatto crea già un problema di eguaglianza nella garanzia del diritto alla salute nel territorio nazionale.
Anche per quanto attiene la forma di governo del paese il contesto attuale è assai diverso da quello che, negli anni Novanta del secolo scorso, aveva visto emergere la proposta presidenziale e semipresidenziale. L’esigenza che veniva espressa in quel contesto e che si saldava, in certo senso, con l’introduzione di un sistema elettorale prevalentemente maggioritario per le due camere, era quella di superare l’instabilità degli esecutivi della Repubblica. L’idea di un’elezione diretta del Capo dello Stato o di un premierato forte, capaci di rafforzare il potere esecutivo, costituivano la risposta ad una domanda di democrazia decidente in un quadro internazionale che sembrava porre ai diversi assetti istituzionali la questione di una maggiore velocità nell’opera delle scelte e produrre provvedimenti.
Al netto della mancata riforma istituzionale e dei fallimenti della bicamerale e dei due referendum istituzionali, il riflesso di queste tendenze si è misurato anche sulla evoluzione della prassi politica del nostro sistema. L’aumento del ricorso allo strumento dei decreti legge e delle leggi delega, così come il costante ricorso all’istituto della fiducia parlamentare da parte dei vari governi, di centro destra come di centro sinistra, assieme ad una marcata contrazione delle leggi di iniziativa parlamentare, raccontano di una tendenza a spostare sull’esecutivo il pernio attorno a cui ruota la vita delle istituzioni Repubblicane.
Tutto questo, nel nostro presente, è però da collocare dentro l’orizzonte di un’Europa in cui si assiste a processi culturali e politici che mettono in discussione gli orientamenti che qualificano le proposte oggi discusse nel nostro paese. La democrazia europea, nel suo complesso, manifesta una serie di criticità connesse a mutamenti sociali e tensioni che le diverse forme istituzionali attualmente vigenti nei diversi stati faticano a incanalare dentro processi democratici. La scelta della Brexit, ad esempio, ha lasciato emergere le fragilità profonde della società del Regno Unito e le tensioni nazionaliste che lo attraversano. Uno scenario nel quale la più larga maggioranza parlamentare della storia recente, quella del partito conservatore oggi al governo, ha visto succedersi tre primi ministri nel volgere di appena due anni. Anche la Francia, considerata da sempre un modello di stabilità politica, vede emergere un problema profondo di rapporto fra il sentire dell’opinione pubblica e di parti rilevanti del tessuto sociale e le istituzioni della Repubblica, soprattutto l’esecutivo. Uno iato, quello fra esecutivo e paese, che si riflette sul piano politico con l’esistenza di un governo “di minoranza” – in un sistema che di per sé, con il meccanismo elettorale del doppio turno, dovrebbe tendere ad una forte stabilità – ed evidenzia quasi un’assenza di rappresentanza efficace in seno alle istituzioni. Queste fragilità si ritrovano anche in altri paesi europei: segnano in questi anni la vita politica della Germania e arrivano a toccare anche la Spagna.
Al netto del funzionamento dei meccanismi costituzionali, quello che prende forma non è tanto il problema della “libertà” nell’esercizio del potere da parte di chi riveste cariche di governo, quanto piuttosto l’ampliarsi di una distanza fra una società che si è fa ogni giorno più plurale e cornici istituzionali che invece tendono alla semplificazione, quasi alla riduzione dei processi decisionali in una direzione sempre più monocratica. A fronte di un dato di allontanamento dei cittadini dalle urne, che vale per tutti i paesi europei e che oggi è il dato politico più rilevante in un paese come l’Italia – da sempre caratterizzato da una forte partecipazione democratica – occorre interrogarsi se davvero riforme presidenziali o di fortissima autonomia sia quanto è capace di rispondere con efficacia a questi processi.
I sistemi democratici hanno di per sé un elemento che li qualifica rispetto ad altri ordinamenti istituzionali. Si pongono infatti il problema della gestione e dell’esercizio del potere in ragione di un equilibrio: da qui la divisione dei poteri come strumento che evita pericolosi accentramenti. E tuttavia, al fondo di queste caratteristiche, vi è un elemento che attiene al carattere, per così dire, profondamente “repubblicano” della democrazia per come si è configurata nell’Europa post 1945. La democrazia ha cioè l’esigenza di diffondere il potere e con esso la responsabilità all’interno del corpo sociale, affidandola ai cittadini, certo attraverso l’istituto delle elezioni ma anche mediante una serie di meccanismi – da quelli di tutela dei diritti e di determinazione dei doveri fino al dibattito pubblico come sede di confronto ed elaborazione – che hanno una natura strutturalmente inclusiva. Questi elementi suggeriscono il carattere “pedagogico” della democrazia, in ragione del quale mediante la partecipazione alla vita pubblica, che comincia già con l’esercizio di una qualsiasi professione e con la consapevolezza della valenza sociale che questo comporta, ogni cittadina e cittadino impara a condividere la responsabilità verso gli altri, ad esercitare il dovere della solidarietà.
A fronte di società che si atomizzano, i processi di accentramento del potere e di riduzione degli spazi di solidarietà che si ritrovano nelle proposte presidenziali o di regionalismi eccessivi rischiano di assecondare un processo nelle sue derive più pericolose, anziché valorizzarne le potenzialità. Occorrerebbe cioè andare verso un incremento dei processi partecipativi, verso l’elaborazione di soluzioni costituzionali in grado di dare piena visibilità istituzionale, piena rappresentanza, a un tessuto sociale così diversificato e dunque includerlo nei processi decisionali. La questione è cioè, prima ancora che quella di quale sistema di equilibri fra istituzioni e poteri, quella dell’orientamento che si intende seguire: se si vuol accentuare cioè accettare una frantumazione del tessuto sociale e culturale come un dato di fatto e dunque assecondarlo cercando il solo bilanciamento dell’uomo forte, oppure se si intende dare a questa diversificazione sociale e culturale lo strumento per maturare in termini di cittadinanza e dunque esprimere una soggettività politica come “popolo”.
Si tratta di nodi che non possono essere affrontati in una chiave meramente nazionale. Le istituzioni della democrazia, siano esse parlamentari o presidenziali o caratterizzata da esecutivi forti, conoscono oggi una crisi profonda. È la crisi di intere classi dirigenti che necessitano di ritessere un legame con la realtà per darle voce e dunque anche strumenti adeguati al mondo nuovo nel quale siamo entrati. E questo non può essere fatto, per quel che attiene all’Italia, pensando iniziative di riforma istituzionale al di fuori dell’orizzonte dell’Unione Europea. E questo perché quest’ultima rappresenta la cornice storico-politica imprescindibile a cui apparteniamo e che abbiamo concorso a determinare. Non si tratta infatti di un semplice spazio economico o monetario: per quanto l’Unione abbia anch’essa profondi problemi di natura istituzionale irrisolti, essa resta l’unico luogo nel quale è possibile elaborare le scelte cruciali sulle grandi questioni di ordine economico, sociale, culturale di un mondo irreversibilmente planetario. La questione della democrazia e delle sue traduzioni istituzionali deve allora essere proiettata tanto sul terreno delle dinamiche storiche e sociali quanto su quello della loro rilevanza europea. Pensare di portare avanti le riforme istituzionali in Italia come il semplice soddisfacimento di istanze e ambizioni figlie di un tempo e di un mondo ormai consegnati alla storia, significa destinarle ad un rapido fallimento.