La dignità della persona e i diritti da tutelare:note laiche sul DDL Zan

Lunedì, 10 Maggio, 2021

Consegnare la valutazione su un disegno di legge alla semplificazione di un sì o di un no alla tutela di diritti porta con sé il rischio di ignorare i contenuti del testo, i suoi pregi e i suoi limiti strutturali. È questo quello che sembra prendere forma negli ultimi giorni attorno al DDL Zan, in discussione al Senato della Repubblica dopo l’approvazione da parte della Camera dei Deputati. L’oggetto della legge proposta dal deputato del PD è di grande rilievo e rappresenta una risposta a quella che è un’esigenza non solo individuale ma sociale: il rafforzamento della tutela dei diritti, inasprendo le pene per chi si rende responsabile di qualsiasi forma di discriminazione, si colloca nel quadro di un contesto sociale e culturale divenuto estremamente fluido. L’evolversi delle dinamiche relazionali, ad esempio a seguito dell’imporsi dell’ambiente digitale come spazio tanto democratico da non avere specifiche regolamentazioni o richiami alla responsabilità nella presa di parola pubblica, chiama il legislatore ad interrogarsi ancora una volta sul limite che vi è fra libertà di espressione e offesa o istigazione alla violenza, sul confine che separa il libero giudizio espresso in pubblico dalla discriminazione che lede i diritti dell’altro. Un terreno simile è squisitamente politico proprio perché profondamente umano: richiedo lo sforzo di comprendere le cose nella loro verità, nel loro essere parte di processi che col tempo portano ad affinare la coscienza di quanto ricca e complessa sia la persona e di come la sua dignità sia una realtà fragile e però densa di possibilità, che richiede riconoscimento e cura. Per questo occorre un approccio che sia pienamente laico, cioè, letteralmente, “popolare”: che sappia come tale restituire la dignità di ciascuno a quella rete di relazioni e quella progettualità comune e condivisa che è il popolo.

Il DDL Zan intende modificare le norme del codice penale e di procedura penale legate alla discriminazione in base al sesso, per ampliare le tutele legali nei confronti di coloro che subiscono discriminazioni in ragione della loro “identità di genere”. La questione non ha una consistenza solo terminologica, ma sottende una certa intelligenza delle cose e nello specifico di cosa si debba intendere per sesso, genere, identità di genere e come queste tre nozioni siano in relazione fra loro. Già questo suggerisce prudenza – cioè esercizio di sapienza, che è cosa diversa dal timore – perché dietro a questi termini si nasconde il vissuto di persone, la dimensione più intima e personale di ciascuno di noi, quella identità che è costitutivamente non un elemento chiuso ma ciò che mette un essere umano in relazione con l’altro. Introdurre, come fa il DDL all’art. 1, uno specifico glossario dei termini chiave è in questo senso un’operazione estremamente delicata, nella misura in cui rischia di schiacciare nozioni strutturalmente complesse, su un unico piano. Allorché si spiega che, nel rivedere la legislazione penale sulla discriminazione, “per sesso si intende il sesso biologico o anagrafico” (art. 1, a) e che “per identità di genere si intende l’identificazione percepita e manifesta di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un processo di transizione” (art. 1, d), si sceglie di utilizzare accezioni molto specifiche e certo riduttive di questi lemmi.  

La dimensione del sesso e della sessualità, infatti, viene presa in considerazione solo nella sua qualificazione biologica, omettendo invece tutta la ricchezza della fisicità e della corporeità che investe anche la dimensione psicologica dell’essere umano. Un dato, questo, che proprio il Novecento e le battaglie politiche e civili dei movimenti femministi e per i diritti hanno messo in evidenza: non una negazione del corpo, ma al contrario la sua valorizzazione, il suo pieno riconoscimento come pilastro imprescindibile per la persona umana e per la sua dignità. Il sesso e la sessualità, in questo senso, rappresentano esattamente una parte essenziale del nostro essere “corpo”: non sono semplicemente un dato biologico, bensì qualcosa che ci consente la relazionalità, a cominciare da quella affettiva con noi stessi e con gli altri.

Similmente, la nozione di “identità di genere”, per come assunta dal DDL, sembra ridursi ad una sorta di autodeterminazione psicologica di cosa si è, prescindendo non tanto dal sesso biologico ma più profondamente proprio dalla dimensione corporea. Eppure, l’identità, anche quella che ha a che fare con l’orientamento sessuale, non è limitabile ad un semplice atto di volontà. Come ogni essere umano sa dalla propria esperienza, non solo ciò che si è in termini di orientamento sessuale ma anche il come si è, è qualcosa che si determina dentro la relazione, soprattutto dentro il rapporto affettivo, che si rivela come la dimensione ulteriore a cui è legata anche la cura e la protezione dei diritti individuali. Limitare l’identità ad una sorta di scelta del singolo, per altro mutevole nel tempo, rischia di lasciare al di fuori della tutela della legge la dimensione relazionale nella quale soltanto i diritti, anche e soprattutto quelli di ciascun individuo, possono trovare il loro compimento.

Quelle proposte sopra non sono semplici osservazioni linguistiche, ma valutazioni che trovano un riscontro anche in un appello per la modifica della proposta di legge sottoscritto da figure che si riconoscono nell’area di centro sinistra e hanno molteplici estrazioni culturali. Più nello specifico, quello che solleva perplessità è un certo riduzionismo della realtà umana a una dimensione univoca operato attraverso un testo legislativo: la caratteristica di una legge è quella di fare delle parole un elemento dotato della forza di incidere sulla realtà, di porre limiti ai comportamenti o di indirizzarli, di stabilire il confine fra lecito e illecito. Il valore della parola diviene ancor più pesante quando la legge ha per oggetto diritti e doveri dei cittadini, ossia qualcosa che essa, costitutivamente, non è chiamata a creare ma a riconoscere, promuovere e tutelare. Tale criterio vale anche per i diritti delle persone omosessuali, i quali non possono essere creati da una normativa e dal suo lessico, ma debbono essere riconosciuti come già esistenti, cioè come i diritti di persone che, come tali, debbono essere tutelate nella loro dignità. Una dignità che è psicologica e fisica e che come tale si esprime e si riconosce nella relazionalità, perché l’identità di ciascuno non è un fatto riducibile alla sola decisione volontaristica. In questo senso, appaiono di particolare valore le proposte di revisione, soprattutto dell’art. 1, che vengono da realtà come “Arcilesbica” e altre associazioni che si occupano della tutela dei diritti.

La deriva che il dibattitto attorno alla proposta Zan sembra assumere, soprattutto dopo la dura polemica riguardo alle parole di Fedez contro l’atteggiamento della Lega sulla calendarizzazione del DDL al Senato, rischia di spostare il discorso verso una presa di posizione manichea fra sostenitori e oppositori dei diritti civili. Una lettura, questa, che appare scollata da una realtà nella quale il legislatore è chiamato a stendere una legge che, in questo contesto storico e culturale, sappia dare cura e promozione alla dignità di tutti, soprattutto di chi rischia discriminazioni e violenze. Intervenire su questo significa anche legiferare in modo da garantire al paese la possibilità di cambiare i propri costumi e dunque di dare un sempre maggiore e più compiuto riconoscimento sociale ai diritti che fanno la dignità della persona. Sostenere l’approvazione sic et simpliciter del DDL Zan dentro il quadro di una polemica, pur legittima e seria, sulla libertà di espressione di un cantante che denuncia tentativi di censura da parte del servizio pubblico radio televisivo rischia trasformare la questione in una semplificazione che alla superficialità associa un preoccupante riduzionismo della funzione politica del discorso pubblico. Che il DDL Zan sia oggetto di pubblico confronto, di critiche come di approvazioni e di richieste di modifica – ad esempio da parte di molte realtà del femminismo italiano e associazioni che promuovono la tutela dei diritti di persone omosessuali – è un fatto essenziale proprio per il raggiungimento di quello che è il fine ultimo di una proposta come quella in discussione. Portare il paese e il suo tessuto sociale e culturale a vivere con maggiore maturità le implicazioni che comporta il tentativo di dare piena tutela alla dignità della persona e al rispetto dei suoi diritti, rifiutando ogni forma di discriminazione, è un processo che fa parte di quella funzione pedagogica del confronto politico democratico che matura attraverso il dialogo e il dibattito. Per questo discutere, misurare proposte e suggerimenti di miglioramento della legge non è un atto di debolezza, ma un omaggio reso alla democrazia come pratica di cura dei diritti e dei doveri. Anche su questo DDL vi è l’esigenza che tutti, a cominciare dai promotori della legge, accettino il confronto delle idee e delle argomentazioni, ricordando che l’autentica democrazia suppone la consapevolezza che ogni essere umano è portatore di un frammento di verità.