Anche nel nuovo parlamento, si è costituito un “intergruppo per la sussidiarietà” che ha sfornato un documento sottoscritto da 200 parlamentari di ogni colore. Una parte di esso è stata pubblicata dal Corriere dell’8 agosto. Come in passato, per iniziativa dei politici espressione di CL, ieri Roberto Formigoni, oggi Maurizio Lupi, il meeting di Rimini darà risonanza a quel documento. Non da oggi, nutro scetticismo al riguardo. Per tre ragioni: perché la parola-concetto sussidiarietà, densa e polisemica, cara al magistero sociale della chiesa (la si rinviene in tutte le encicliche sociali dal 1931, con la “Quadragesimo Anno” di Pio XI), è diventata un passe-partout, ciascuno la interpreta a modo suo; per ché ho imparato a diffidare delle convergenze troppo facili e troppo estese in sede politico-parlamentare; perla circostanza che a fare da cassa di risonanza alla cosa sia il meeting ciellino.
Sussidiarietà allude a una concezione dello Stato che riconosce il primato della persona e della società, che rispetta e valorizza le formazioni sociali e i corpi intermedi (sussidiarietà orizzontale), nonché l’autonomia degli enti territoriali (sussidiarietà verticale). In coerenza con l’articolo 2 e 5 della Costituzione. E questo un tempo nel quale la sussidiarietà ben intesa gode di buona salute presso le forze politiche? Non mi pare.
Nella nostra architettura costituzionale la sede più alta deputata alla mediazione e alla sintesi del pluralismo sociale e territoriale è il Parlamento. Come si concilia con la suggestione del superamento di esso e con enfasi sulla democrazia diretta (decisamente subordinata alla centralità del parlamento) che sembra fare breccia nei 5 stelle? Che, per inciso, apprezzabilmente, avevano contrastato la riforma Renzi-Boschi in quanto alterava l’equilibrio costituzionale a tutto vantaggio del governo? Si pensi alla metamorfosi della visione dello Stato da parte della Lega, passata dalla retorica federalista-autonomista al centralismo e al sovranismo. Proprio da Rimini, ci si è messo anche Giorgetti ad adombrare l’idea di un ridimensionamento del Parlamento. Per il Pd parla la riforma costituzionale bocciata, il cui impianto era tutto men che ispirato a una cultura delle autonomie: sia nella verticalizzazione del potere nei rami alti dello Stato, sia nella netta ricentralizzazione nei rapporto tra Stato e regioni.
Infine, si pensi alla concezione e alla pratica dei rispettivi partiti. Tutti ridotti a comitati a supporto del leader. Nel citato documento si stigmatizza il leaderismo, ma poi scorrendo le firme si ha l’impressione che il “mea culpa” sia battuto sul petto degli altri. Tutti e 200 dovrebbero essere oppositori del leaderismo in casa propria.
Infine, la sede del meeting riminese. Per circa venti anni, abbiamo conosciuto una certa versione pratica della sussidiarietà (un rapporto malato tra ente pubblico e soggetti privati) da parte di un attore protagonista di quel movimento e di quell’appuntamento estivo. Intendo Roberto Formigoni, che della sussidiarietà (malintesa) aveva fatto la sua bandiera. Ma sarebbe lecito domandare se la costante filogovernativa dei meeting sia corrente con una ben intesa sussidiarietà, che semmai evocherebbe autonomia. Verso i governi centrali e quelli locali. La novità del mancato invito ai 5 stelle oggi al governo può essere letta persino come una buona notizia per entrambi, un raro segno di chiarezza nelle distinzioni. Reggerà?
Sempre il documento pone enfasi sul metodo, condensato nelle parole incontro, dialogo, patto, coesione sociale e nazionale Potremmo contentarci di molto meno: quello dell’impegno alla civiltà nel confronto tra differenze lealmente enunciate. Rispettarsi e rispettare il senso e il peso delle parole, da non “manomettere” (Gianrico Carofiglio), compresa la parola sussidiarietà, è la precondizione di un proficuo confronto.