Gli italiani hanno ripreso ad emigrare. È quanto ci dice anche il Rapporto sugli Italiani all’estero, presentato ieri dalla Fondazione Migrantes. Le iscrizioni all’AIRE (Anagrafe Italiana Residenti Estero) per emigrazione sono stati, nel 2015, quasi 108 mila, il 6% in più rispetto al 2014. La netta maggioranza di questi “nuovi emigranti” si sono stabiliti in un paese europeo, specialmente in Germania (17 mila), Regno Unito (16 mila), Svizzera (11 mila) e Francia (11 mila). Il 56% sono uomini, il 63% hanno fra 18 e 49 anni. Molti di loro vengono dal Sud, ma le due regioni con il maggior numero di nuovi emigranti sono la Lombardia e il Veneto.
Quali sono le trasformazioni sociali che stanno dietro a questi numeri? Riprendo alcuni ragionamenti dal libro “Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione”, che ho appena pubblicato per Laterza assieme a Stefano Allievi. Innanzitutto, le emigrazioni di giovani sono aumentate per una ragione – diciamo così – demografica. I giovani che si affacciano ora al mercato del lavoro sono molti di meno rispetto a quanti si apprestano ad andare in pensione: nel 2015 in Italia hanno compiuto 20 anni 567 mila giovani, mentre hanno compiuto 65 anni 732 mila giovani “di una volta”. Questo squilibrio dovrebbe favorire i giovani italiani, che dovrebbero trovare le porte spalancate per lavorare … In realtà questo non succede, perché il capitale umano (come lo chiamano gli economisti) dei nuovi aspiranti lavoratori è molto diverso rispetto a quello dei nuovi pensionati. Fra questi ultimi, nati nel 1950, appena il 30% ha studiato oltre le scuole medie inferiori, proporzione che supera invece l’80% fra i giovani ventenni, nati nel 1995. Durante la crisi è cambiato il mix “qualitativo” degli studenti, che oggi si iscrivono più di frequente a scuole e facoltà che permettono di trovare lavoro.
Naturalmente questi numeri sono troppo stilizzati. Molti giovani diplomati farebbero carte false per trovare un posto da operaio specializzato; inoltre, spesso (ma non sempre) un giovane operaio di oggi deve avere competenze ben diverse rispetto a un giovane operaio di 45 anni fa. Anche le imprese sono cambiate, così come è cambiata tutta la struttura produttiva. Infine, nel confrontare i 65enni del 2015 con i 20enni del 2015 bisognerebbe ricordare che l'obbligo scolastico/formativo è stato alzato: era a 14 anni di età per la coorte nata nel 1950 (mentre per la coorte del 1948 era ancora a 11 anni!) ed è ora fissato a 18 anni (16 per la scuola, 18 inclusa la formazione sul posto di lavoro). Semplificando, si può dire che la formazione di un ragioniere di una volta è forse ragionevolmente comparabile a quella di un laureato triennale in economia aziendale di oggi. Ma malgrado questo, gli squilibri sono enormi, tali da rendere problematica una sostituzione diretta e immediata dei nuovi pensionati con i nuovi lavoratori
In sintesi, in Italia per ogni cinque nuovi pensionati poco istruiti, solo un giovane poco istruito si affaccia sul mercato del lavoro. Per contro, per ogni nuovo pensionato istruito, due giovani sgomitano per prendere il suo posto. Ecco perché l’Italia continua ad attrarre nuovi immigrati dai paesi poveri, mentre molti giovani italiani diplomati e laureati vanno a cercare fortuna all’estero.
Ma non bisogna dimenticare altri due aspetti. In primo luogo L’incremento di 500 mila lavoratori fra il 2013 e l’inizio del 2016 è frutto della combinazione fra la diminuzione di 500 mila lavoratori in età 15-49 e l’incremento di un milione di lavoratori ultracinquantenni. Il tasso di occupazione di questi ultimi è aumentato rapidamente (15 punti percentuali in più dal 2004 al 2016!), mentre quello dei lavoratori più giovani è diminuito drammaticamente nel quinquennio 2008-13, restando poi costante negli anni successivi. La rapidità di questi mutamenti aiuta a comprendere come mai il notevole incremento di posti di lavoro dell’ultimo triennio è stato percepito, nel nostro paese, solo in misura parziale. Infatti, esso non si è tradotto in un incremento del tasso di occupazione dei giovani, mentre lavorare di più non è certo vissuto dagli adulti maturi come una conquista sociale…
Una lettura superficiale di questi dati potrebbe suggerire che l’unica strada per aumentare l’occupazione giovanile è agevolare, in qualche modo, la fuoruscita degli anziani dal mercato del lavoro. Le cose però non sono così semplici, e non solo a causa dell’inevitabile squilibrio che ciò genererebbe in un sistema pensionistico ancora in sofferenza, a causa delle scelte dissennate del passato. La vera questione – come abbiamo visto – è che la sostituibilità degli anziani con i giovani è assai problematica. Infatti, mentre gran parte dei nuovi pensionati fa lavori manuali, gran parte dei giovani che si affacciano sul mercato del lavoro vorrebbero fare lavori non manuali, visto che hanno acquisito un titolo di studio superiore.
Quindi non ci sono scorciatoie. L’occupazione dei giovani può aumentare solo se vengono creati ex-novo buoni posti di lavoro qualificati. Altrimenti, i giovani questi lavori andranno a cercarseli all’estero. Qualcosa si è mosso in questi ultimi anni, tanto che fra il maggio del 2015 e il maggio del 2016 i lavoratori in età 15-34 sono passati da 4 milioni e 900 mila a 5 milioni e 100 mila, aumentando per la prima volta dal 2004 (ossia da quando esistono le serie mensili degli occupati). La strada è quella giusta, ma la sfida è solo all’inizio.
Il ricambio del mercato del lavoro italiano: squilibrio quantitativo e qualitativo (dati Istat)
Senza diploma Con diploma Totale
superiore superiore
65enni nel 2015 512 mila 220 mila 732 mila
20enni nel 2015 113 mila 454 mila 567 mila
Gianpiero Dalla Zuanna – Professore di demografia all’Università di Padova e senatore PD