
Il 27 gennaio 1945 vennero aperti i cancelli di Auschwitz e fu la scoperta del “male assoluto”. Un’espressione che connoterà potentemente e pesantemente la storia dell'umanità del Novecento.
La legge 20 luglio 2000, n. 211 ha decretato che nella stessa data si celebri il Giorno della Memoria.
La Legge si propone di ricordare “coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati”. Molte di queste persone sono state riconosciute come Giusti tra le Nazioni dal Governo di Israele e a loro memoria è dedicato un albero nel Giardino dei Giusti a Gerusalemme, nel quale sono ricordati circa 20.000 Giusti, 300 dei quali sono italiani.
Il 27 gennaio ci parla di ieri, ma parla anche di oggi, perché indica un risveglio tangibile dello spettro antisemita. Un che ha attraversato i secoli, un odio lordo di sangue innocente che continua a riemergere nelle anse del fiume della storia.
Il termine “memoria” deriva dal greco mimnesco e dal latino memini, e indica quell'attività della mente collegata a una precisa esigenza di ogni uomo e a un valore etico universale: la facoltà di tenere in vita i ricordi e i contenuti del passato, che formano l'identità di ognuno, e la coscienza collettiva che in qualche modo ognuno concorre a formare.
Per quanto riguarda la Shoah, ricordiamoci che quella dimensione soggettiva chiamata memoria è qualcosa che sta svanendo, perché i testimoni diretti ormai non ci sono quasi più.
Resta il lavoro dello storico, che per costruire le sue sintesi deve sentire il peso della responsabilità per tradurre quanto le singole memorie e la coscienza collettiva gli hanno consegnato.
Innanzitutto il concetto di identità, l’identità di ognuno: dell'ebreo, del cristiano, del musulmano, dell’apolide, dello zingaro…
La memoria di ognuno è una fonte per lo storico, e va trattata criticamente come ogni altro documento. Così come la memoria collettiva, più complicata, frutto dei mille intrecci e dei condizionamenti reciproci delle memorie individuali.
Nella tradizione classica greco-latina la musa della memoria si chiamava Mnemosune, nota per essere la madre delle altre nove muse, come intendere che le arti impersonate delle muse hanno il compito primario di perpetuare la memoria. Senza distinzione tra la dimensione della cultura “alta” e della cultura popolare.
Nella cultura contemporanea, così connotata dai linguaggi della tecnologia dell’informazione che rimandano spessissimo al termine “memoria”, pensiamo al termine “file” (= filo). Rimanda al filo con cui una volta i notai e i cancellieri infilzavano i documenti, formando quel complesso di testimonianze scritte dotate di “publica fides” chiamate filze. Ma rimanda anche all’espressione “filo della memoria”. Un filo importante per ogni individuo e per ogni comunità, senza il quale sarebbero privati della propria identità più intima. Senza memoria una persona non si riconosce più e si disperde cessando di esistere; analogo discorso vale per le comunità, che scompare senza la trasmissione della memoria. Un elemento essenziale e necessario per la vita individuale e collettiva. Il diritto alla memoria fa parte del novero dei diritti umani, anche se uno dei più misconosciuti.
Spesso si ha la sensazione che non si voglia veramente conoscere, anche per non dover scoprire la nostra intolleranza e razzismo. La testimonianza della Shoah rappresentata dai Lager costituisce un assillo continuo: quello dell'entrata nel male, dove i campi sono prima di ogni altra cosa un camposanto dove è seppellita l'umanità, dove l’”Arbeit macht frei” rappresenta anche il dominio della produzione e la consunzione dell'individuo spersonalizzato, dove l'odio e l'intolleranza prendono il sopravvento sulla ragione.
E la vacanza della ragione spiega come dottrina e propaganda abbiano una funzione essenziale nella trasformazione degli individui, così come avviene oggi con il dominio dell’informazione e delle "fake-news".
Ricordiamo Primo Levi, che non ha mai voluto essere qualificato come storico, pur avendo descritto e lasciato le più profonde descrizioni di quello che è stata la Shoah. Voleva essere chiamato testimone. Testimone della “banalità del male”.
Accanto a questa espressione, un’altra, sempre coniata da Hannah Arendt: “Nessuno ha il diritto di
obbedire”. Questa frase è stata usata recentemente a Bolzano, per una installazione artistica sulla facciata della ex Casa del fascio, con l'intento di controbilanciare i contenuti ideologici fascisti che avevano portato alla decorazione originale con Mussolini a cavallo e i vari motti del tipo “credere, obbedire, combattere”.
“Nessuno ha il diritto di obbedire” è espressione di origine kantiana, usata dalla Arendt a commento del processo di Gerusalemme contro Adolf Eichmann, contestando la giustificazione adotta da quasi tutti i nazisti di aver agito solamente per ordine superiore, e il tentativo – forse il più becero – del ragioniere dello sterminio, di rifarsi addirittura all'imperativo etico categorico di Kant a giustificazione del proprio agire. Stravolgendo completamente il senso di quello che voleva dire il filosofo, che invece insisteva sul dovere etico individuale di resistere alle tentazioni totalitarie, di rifiutare gli ordini ingiusti e di rendersi consapevoli del significato delle proprie azioni e del significato del male.
Da qui, la necessità di intelligenza e coraggio per riconoscere e mantenere i significati e il valore etico e civile della memoria, anche e soprattutto perché stiamo attraversando un cambio d'epoca.
Quindi, dire no alla “banalità del male”, ma anche rifiutare la “banalità della memoria”, soprattutto quella che coincide con l’indifferenza.