Le ragioni del No e la necessità delle riforme

Il referendum confermativo della riforma costituzionale su cui i cittadini sono chiamati ad esprimersi il prossimo 20-21 settembre ci obbliga non solo a rendere ragione del nostro dissenso rispetto al merito della riforma ma anche a non lasciare che questo passaggio nella vita politica del paese venga vissuto con la superficialità di un giudizio sulla classe politica. Affrontare una riforma della Carta Costituzionale obbliga tutti i cittadini ad un atto di responsabilità, ad una valutazione del merito e del peso delle modifiche proposte, delle loro conseguenze e degli esiti che possono produrre sulla qualità della vita democratica delle istituzioni repubblicane.

La proposta di un taglio del numero dei senatori e dei deputati è stata elaborata e presentata dal partito di maggioranza relativa come un atto volto a ridurre i “costi” della politica e al tempo stesso a rendere più “efficiente” l’istituzione parlamentare. Due argomenti debolissimi sul piano costituzionale e politico:

(1)   perché la democrazia è un sistema in sé stesso “costoso”, per il fatto che si fonda su una diffusione del potere attraverso lo strumento di una rappresentanza politica diffusa, articolata, capace di dare voce ai cittadini e di mettere chi è investito di una funzione politica in condizione di poter svolgere questo compito nell’interesse di tutti;

(2)   perché l’efficienza delle istituzioni repubblicane non dipende dal numero dei componenti ma dalle procedure e ancor più ed essenzialmente dalla qualità democratica e politica della classe dirigente che è chiamata a farle funzionare; un punto, questo, su cui la vera riforma sarebbe forse la piena attuazione dell’articolo 49 della Costituzione, che definisce i partiti come gli strumenti con cui i cittadini possono “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.

La proposta quindi porta con sé una serie di criticità, dovute prima di tutto al suo carattere parziale e al suo essere del tutto svincolata da una complessiva proposta di riforma dell’architettura istituzionale della Repubblica. Il rischio è quello di procedere ad un intervento limitato, dettato da ragioni politicamente fragili, senza un preciso indirizzo di riforma complessiva e che nell’immediato produce effetti sugli equilibri costituzionali: ad esempio, rimodella il collegio elettorale del Presidente della Repubblica aumentando moltissimo il peso dei delegati regionali e avvicina numericamente la maggioranza necessaria per modificare la Costituzione alla possibile maggioranza parlamentare. A questo si aggiungano una serie di problemi dovuti alla redistribuzione dei collegi elettorali, soprattutto per il Senato, nelle regioni del Centro e del Sud Italia. Risulta poi assai fragile l'argomentazione che sostiene che la riforma rappresenti un allineamento del nostro Parlamento a quello dei grandi paesi europei. È superficiale e sbagliato omologare il giudizio sulle istituzioni democratiche fra paesi diversi per storia e tradizione politica, che certo condividono un patrimonio comune che fonda la costruzione dell'Europa come spazio di diritti e democrazia ma sono anche la ragione di un pluralismo di forme che è un valore e ancor più una parte ineludibile della realtà politica europea.

Vi è infine un ulteriore argomento, più profondo, che riguarda la rappresentanza politica. La nostra vita politica si fonda sull’idea che la democrazia sia una prassi che deve essere diffusa nelle strutture istituzionali e sociali del paese, in modo da informare di sé il paese e le sue dinamiche e renderlo capace di dare piena attuazione alla carta dei diritti e dei doveri che disegna, nella prima parte della Costituzione, il volto della Repubblica. Significativi sono al riguardo i dati che indicano come la riforma riduca la capacità rappresentativa del Parlamento che significa anche un aumento della distanza fra Roma e i cittadini. Con la trasformazione delle province in istituzioni non elette direttamente, abbiamo già assistito ad una contrazione di questa “diffusione” della democrazia, che sarebbe fortemente accentuata da una contrazione della capacità di rappresentanza del Parlamento.

Queste ragioni del nostro no alla proposta di riforma non sono tuttavia un segno del rifiuto di ogni revisione della Costituzione. Fra gli argomenti a favore della riforma vi è quello che invita a vedere questa proposta come il primo passo di un processo più ampio che dunque occorre compiere per avviare la stagione delle riforme. Si dovrebbe però spiegare ai cittadini in quale direzione va questo passo: una repubblica presidenziale? Un rafforzamento del Parlamento? Un assetto più federale? Inoltre, quali garanzie ci sono della reale volontà delle diverse forze politiche di aprire, con questo voto, una stagione autenticamente Costituente, libera dalle contingenze politiche di un consenso che si vuol conquistare anziché costruire con l'intelligenza di un'argomentazione politica?

L’esigenza di rivedere la forma istituzionale della nostra Repubblica è un tema da decenni al centro delle attese e del dibattito pubblico, che tuttavia non è ancora riuscito a trovare una soluzione efficace e stabile. La via parlamentare, fino ad ora adottata come unico strumento possibile di revisione della Costituzione, ha in realtà mostrato i limiti profondi. Se questa è certo efficace per modifiche specifiche e puntuali diviene assai più complessa quando si tratta di discutere dell’assetto complessivo delle istituzioni. Il superamento del bicameralismo, la ridefinizione del rapporto fra Governo e Parlamento, un riequilibrio del rapporto fra Stato e Regioni, la riforma della composizione della Corte Costituzionale, l’inserimento fra i principi fondanti dello stato della cura del patrimonio socio-ambientale: tutta questa serie di problemi richiede una riflessione complessiva che negli ultimi decenni si è arenata sui bassi fondali degli equilibri politici interni alle maggioranze parlamentari, subordinando l’esigenza delle riforme istituzionali alle contingenze politiche di governi e partiti.

È allora necessario un salto di qualità che passa per l’individuazione di un altro strumento, quale potrebbe essere un’Assemblea Costituente, o comunque un accordo ampio che coinvolga la maggioranza dei partiti, delle forze sociali e culturali del paese, ossia dei soggetti "politici" che fanno la nostra casa comune che è la Repubblica. È questo strumento che dovrebbe avere un mandato limitato ad intervenire sulla seconda parte della Costituzione e a specifici interventi di aggiornamento della prima parte (ad esempio in materia socio-ambientale) e che potrebbe liberare i partiti dal peso di riforme costituzionali che non sembrano in grado di gestire in modo autonomo dalla vicenda politica di singoli governi e maggioranze parlamentari pro tempore. Al tempo stesso questa via libererebbe anche le riforme costituzionali da una dimensione esclusivamente partitica, troppo angusta per poter dare loro il respiro di realtà di cui necessitano. Sarebbe questa una via che affida un mandato specifico, non sovrapposta al Parlamento e all’azione del Governo, eletta con un metodo proporzionale puro che la renda aperta al contributo non solo dei partiti ma anche di altre realtà sociali e culturali capaci di esprimere proposte efficaci in grado di dare all’Italia una Repubblica per il XXI secolo, fedele allo spirito della Carta del 1948 e pienamente inserito in quel processo di costruzione democratica che è l’Unione Europea.

 

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Data: 
Mercoledì, 14 Ottobre, 2020