Qualche settimana fa, un amico mi ha rivelato la sua preoccupazione per il fatto che il cosiddetto “mondo cattolico” (iniziative, attività, organizzazioni, Enti, ecc.) pare essersi appartato rispetto ai progetti che verranno finanziati anche grazie al PNRR. Concludendo con questa sentenza: “Non vogliamo mica che succeda come nell’ottocento dove, pur avendo dato vita a Banche, Giornali, Cooperative, Opere di Mutuo soccorso, abbiamo lasciato che l’Italia la facessero i massoni, gli anticlericali, i liberali, gli altri?”.
Confesso che del Piano per accedere ai fondi del Next Generation EU conosco molto poco; ma le affermazioni e preoccupazioni dell’amico, mi hanno preso in contropiede. Anzi hanno provocato un moto di rigetto. Ma come! A sessant’anni dal Concilio pensiamo ancora in termini di <noi e loro>, di <altri>? Poi ci ho riflettuto e mi sono accorto che, in fondo, quelle provocazioni possono essere l’occasione per approfondire ruoli e presenze all’interno dello Stato democratico e costituzionale, nel rispetto del Concilio e dei limiti richiesti dal Concordato rinnovato alla luce dei valori repubblicani nel 1984.
Mi sono tornate utili le parole (che ho già utilizzato in Ampie Schiarite 4) di Giorgio Merlo quando pone il tema, legato al 1 maggio 2021 legandolo al ritorno della “questione sociale”. Egli, ricordando come l’azione e “la preoccupazione costante di Donat-Cattin e di Marini di porre la <questione sociale> al centro di ogni indirizzo politico non si risolveva solo nello sforzo di condizionare le scelte di politica economica e salariale ponendosi dal punto di vista dei ceti subalterni. La loro ambizione comune è sempre stata più grande. Entrambi volevano che nell’architettura amministrativa dello Stato democratico quei ceti e quelle istanze non avessero un ruolo residuale nè meramente aggiuntivo. [..]Insomma, questa precisa concezione riguardante la centralità della “questione sociale” era semplicemente riconducibile al fatto che l’istanza sociale “doveva farsi Stato”. Trovare, cioè, piena ed irreversibile cittadinanza ad ogni livello dell’organizzazione amministrativa e della gestione della cosa pubblica”.
Cosa intendo nel richiamare quelle affermazioni? Non solo che riproporre la questione sociale, metterla al centro dell’azione di Governo, è essenziale e deve appartenere alle priorità; ma che l’ambizione di portare i ceti e le istanze popolari ad essere centrali nella vita democratica,significa anche dare spazio e ruolo a tutto ciò che rappresenta l’attività della Società in tutte le sue forme e articolazioni, il Terzo Settore, la Cultura, i sindacati, i gruppi e gli enti legati anche a realtà religiose, e così via .
Ritorna prepotentemente tutto il discorso legato alle autonomie sociali, economiche e locali per frenare e togliere la tentazione di pensare ad uno Stato accentratore e totalitario. Ritorna la fondamentale necessità di avere corpi intermedi (altro che disintermediazione!!), di puntare sulla famiglia, di riconoscere il pluralismo, di applicare nel modo corretto la sussidiarietà, di ripensare il discorso sulla partecipazione popolare oggi ritenuta ornamentale, di formare alla cittadinanza attiva.
Per tornare al PNRR è ovvio che devono restare la visione generale e le scelte di fondo che caratterizzano gli interventi; che la regia debba essere svolta da un centro “pubblico”; ma va evitato che lo Stato e le sue articolazioni da una parte, e i poteri economici e finanziari dall’altro non solo si accaparrino i fondi anelati, ma che “costruiscano” tutta l’impalcatura di vita delle persone e delle imprese e delle riforme necessarie per modernizzare società e Stato.
Ecco che quel <loro> e quel <noi>, da cui sono partito e che mi sembravano “eresie” possono riconquistare senso e portarci verso prospettive veramente nuove. La nuova Italia (e la nuova Europa) la dobbiamo costruire, decidere, progettare, noi cittadini non la burocrazia e i tecnici di turno. Burocrazia e tecnici hanno, devono avere, un compito importante ma non esclusivo né sostitutivo di quello che compete alla <società> e a quello che compete alla politica sana (cioè cittadini associati liberamente per concorrere con metodo democratico a determinare le scelte che interessano la collettività).
Perciò, per concludere, proprio in quanto Stato democratico e pluralista, è normale e non ha nulla di scandaloso che anche Enti e organizzazioni legate a Diocesi o Parrocchie, o storicamente fondate da Istituti religiosi, oppure realizzate grazie all’impegno di cittadini credenti (di ogni religione) partecipino, in quanto “società civile” o Terzo settore/volontariato/Onlus al rafforzamento e miglioramento di ciò che sarà necessario soprattutto nel campo dell’assistenza, della salute, dell’istruzione, di tutela del territorio e di educazione ambientale, culturale e ai valori sportivi.
Il noi e loro non deve essere più, come nel passato, lotta fra cattolici e laici/non credenti/diversamente credenti; fra organizzazioni “della “Chiesa” e del mondo cattolico organizzato in alternativa a istituzioni statali. Soprattutto non deve essere ricerca o rivendicazione di potere o conquista di posizioni. Deve essere separazione tra ciò che è libertà e autonomia della società e ciò che è visione accentratrice e statalistica.
Ce lo ricorda anche un articolo su La Stampa del 18 giugno del filosofo Roberto Esposito: “Innanzitutto è necessario evitare di identificare le istituzioni con lo Stato” perché lo Stato “è preceduto da istituzioni storicamente assai più antiche” ed “esistono istituzioni dentro ma anche fuori dello Stato, e alcune anche in competizione con esso – basti pensare alle ONG, agli ordini professionali, alle istituzioni di volontariato –“ inoltre se “sono istituzioni i partiti, i Parlamenti, i sindacati” lo sono anche “chiese, scuole, università, carceri, ospedali”.
Se ci fosse tuttora difficoltà a capire questi concetti sarebbe un ulteriore elemento per dire che il popolarismo sturziano non è ancora entrato pienamente nella mentalità comune e che una qualche espressione politica può essere ancora necessaria. Perché restare in panchina a guardare gli altri “giocare” succede nello sport, ma non deve succedere nella vita civile e politica di una nazione: tutti devono (dobbiamo) partecipare, al di là del colore della casacca o delle appartenenze religiose o filosofiche.