Idee guida di Antonio D'Ovidio

“LA CASA”

Minimo assoluto

In un’epoca in cui il consumo eletto a “baricentro dell’economia e della politica” ha esasperato anche la casa come prodotto speculativo, un lusso accessibile solo a chi è in grado di sostenerne il prezzo di acquisto, la sollecitazione ad una riflessione sul senso dell’abitare (“l’uomo esiste come uomo, esiste in quanto uomo perché abita” - Hidegger) e del suo intimo legame con il luogo (“è soprattutto nella <<casa>> che il soggetto si prende cura della vita, <<coltiva e custodisce>>” - Silvano Petrosino) appaiono più che mai attuali per una nuova progettualità capace di generare risposte affinché “tutti possano disporre della base minima materiale e spirituale” Papa Francesco.

Papa Francesco di fronte all’Assemblea Generale dell’Onu ha sottolineato come: […]“Al tempo stesso, i governanti devono fare tutto il possibile affinché tutti possano disporre della base minima materiale e spirituale per rendere effettiva la loro dignità e per formare e mantenere una famiglia, che è la cellula primaria di qualsiasi sviluppo sociale. Questo minimo assoluto, a livello materiale ha tre nomi: casa, lavoro e terra;[…]”

Silvano Petrosino attraverso la sua  riflessione filosofica sul rapporto tra l’uomo, l’abitare e la casa ci aiuta ancora di più a comprendere il senso e le ragioni di questo minimo assoluto: […]“L’uomo abita nella <<casa>>; è nella <<casa>> che l’uomo può concretamente realizzare l’abitare che lo definisce in quanto uomo”… “E’ soprattutto nella <<casa>> che il soggetto si prende cura della vita cercando in ogni modo di governare l’equilibrio tra l’irriducibilità del <<qui>> e l’irriducibilità del <<la>> che attraversano la sua esperienza.”[…]” in una <<casa>> ci si ritira, ci si ripara, ci si rifugia, ci si rinchiude per difendersi dalla <<giungla>>”[…]” Un primo aspetto fondamentale della <<casa>> è già stato sottolineato: non c’è casa senza chiusura, senza riparo, senza muri e senza pareti che riparano e proteggono; ma ora, proprio in relazione al modo d’essere di quel vivente che è definito da un’esperienza che è strutturata/destrutturata dall’alterità, bisogna anche aggiungere: non c’è <<casa>> senza apertura o, in termini più rigorosi, senza accoglienza e senza ospitalità dell’altro”[…]” la <<casa>> è quella costruzione che opera sempre come accoglienza ed ospitalità di un’apertura." Petrosino S. (2008) Capovolgimenti, la casa non è una tana, l’economia non è il business, Jaca Book, Milano.

Il diritto all'abitazione nel diritto internazionale dei diritti umani, è considerato un diritto indipendente: è il diritto economico, sociale e culturale ad un adeguato alloggio e riparo. È presente in molte costituzioni nazionali, nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e nella Convenzione internazionale sui diritti economici, sociali e culturali

L'articolo 25 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e l'articolo 11 della Convenzione internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (ICESCR), riconoscono il diritto alla casa come parte del diritto ad un adeguato standard di vita.

Il diritto alla casa è altresì sancito nella Convenzione ONU per i diritti delle persone con disabilità, dalla Carta sociale europea e dalla Carta africana dei diritti dell'uomo e dei popoli.

Nella Costituzione italiana il diritto all'abitazione è richiamato all'art. 47 e in ripetute sentenze della Consulta

 

Una casa per ogni famiglia

Ancora Papa Francesco ai partecipanti all’incontro mondiale dei movimenti popolari: […]“L’ho già detto e lo ripeto: una casa per ogni famiglia… Oggi ci sono tante famiglie senza casa, o perché non l’hanno mai avuta o perché l’hanno persa per diversi motivi. Famiglia e casa vanno di pari passo! […].”  

In tanti guardano alla crisi iniziata nel 2008 come a un ciclo economico e sociale che ha avuto un inizio un percorso e avrà una fine. Un fenomeno primo o poi  destinato a concludersi salvo tornare tutto come prima. Non è così: niente sarà come prima. Non sarà così per la casa, per il lavoro, per il welfare, per l’economia, non sarà così per la comunità locale e tantomeno per il mondo globalizzato. Siamo dentro un processo di cambiamento che ha fatto esplodere in tutta la sua crudezza le fragilità e le disuguaglianze sociali fino a ridurre allo stato di povertà un numero sempre maggiore di famiglie, uomini e donne.

Come dimostrano i rapporti (2015) di Nomisma e Caritas Italiana, il disagio abitativo, appare ancora oggi di dimensioni straordinariamente rilevanti. Secondo Nomisma, sono circa 1,8 milioni le famiglie in locazione, in condizione di disagio abitativo che rischiano forme di morosità e di possibile marginalizzazione sociale , distribuite in modo omogeneo lungo tutta la penisola.

Caritas e Sicet/Cisl a loro volta hanno sviluppato un’indagine su un campione rappresentativo di utenti dei Centri di Ascolto Caritas e degli sportelli Sicet, nelle principali aree metropolitane del paese. I dati raccolti confermano la drammaticità del fenomeno: il 53,6% degli utenti Caritas vive in abitazioni “strutturalmente danneggiate”; il 68,9% ha grandi difficoltà nel pagare l’affitto, la rata di mutuo o le spese condominiali di mantenimento dell’abitazione, il 15% è sotto sfratto/pignoramento giudiziario, e di questi il 40% vive con minorenni.

Nella mappa del disagio risultano maggiormente colpite le famiglie di immigrati.

In Italia, l’abitazione di residenza risulta di proprietà per il 67,2% delle famiglie, a fronte del 21,8% per l’affitto, con quote residuali per l’uso gratuito (7,4%), l’usufrutto (3,3%) e il riscatto (0,3%). Nel corso degli ultimi anni, in concomitanza con il manifestarsi della crisi economico-finanziaria, l’incidenza della proprietà sul totale si è ridotta di 1,2 p.p., in favore di un incremento delle famiglie in affitto (+0,7 p.p.) e in usufrutto (+0,5 p.p.), interrompendo un andamento espansivo che durava da circa 30 anni.  (fonte CDP)

 

Casa tra pubblico e privato sociale

[…] Quanto”. alle denunce che furono sporte in quella occasione (tutte peraltro successivamente archiviate perché giudicate infondate), La Pira così si espresse in una lettera aperta ad Ettore Bernabei direttore del “Giornale del Mattino”: “Devo lasciarmi impaurire da queste denunce penali che non hanno nessun fondamento giuridico –e tanto meno morale- o devo continuare, e anzi con energia maggiore, a difender come posso la povera gente senza casa e senza lavoro? (…) Un sindaco che per paura dei ricchi e dei potenti abbandona i poveri –sfrattati, licenziati, disoccupati e così via- è come un pastore che, per paura del lupo, abbandona il suo gregge”. - Giorgio La Pira

A partire dal 1903 (Legge Luzzatti) lo Stato riconosce per la prima volta la funzione pubblica della casa, pur senza adottare forme di intervento diretto nell’edilizia popolare, preferendo optare per un ruolo regolatorio.

La “Legge Fanfani” o Piano Ina-Casa – del 1949 finanziato con un sistema misto che comprende Stato, datori di lavoro e lavoratori ai quali viene trattenuta una parte di salario mensile - si propone essenzialmente di creare occupazione e manodopera costruendo case. Le abitazioni realizzate vengono poi messe sul mercato parte in proprietà e parte in affitto attraverso graduatorie di assegnazione (circa 25.000 alloggi/anno) .

Le modalità di intervento pubblico/privato vanno via via modificandosi sia nella forma che nei contenuti.

Nel 1977/78 le funzioni amministrative statali relative all’edilizia residenziale pubblica passa alle Regioni mentre le competenze riguardo alle assegnazioni degli alloggi in locazione passa ai Comuni.  

Dal 2000 attraverso le leggi finanziarie vengono stanziati fondi per il comparto dell’edilizia residenziale, e allo stesso tempo viene pianificata  la riduzione del disagio abitativo e l’aumento dell’offerta di alloggi in locazione permanente a canoni non di mercato (20.000 alloggi in affitto) in cui il ruolo centrale viene assunto dalle Regioni.

A fronte di una media europea di alloggi sociali sul totale dello stock degli alloggi in affitto pari a circa il 25% nel 2008, l’Italia si collocava al di sotto del 5% con un fabbisogno abitativo in crescita.

Gli anni recenti, specialmente a seguito dell’introduzione dell’articolo 11 del D. L. 25 giugno 2008, n. 112 (c.d. “Piano Casa”), hanno visto il fiorire di una copiosa letteratura – professionale, giuridica ed economica – sul social housing (o Edilizia Privata Sociale – EPS) e sull’opportunità di un’estesa implementazione di un modello parallelo rispetto all’attuale ERP nel nostro Paese.

Il Piano nazionale di edilizia abitativa prevede il coinvolgimento di capitali pubblici e privati per la realizzazione, con una particolare attenzione all’efficienza energetica e alla compatibilità ambientale, di abitazioni residenziali, principalmente rivolte a nuclei familiari in posizione di fragilità economicosociale (ad esempio: giovani coppie a basso reddito, anziani in condizioni sociali o economiche svantaggiate, immigrati regolari a basso reddito residenti da dieci anni nel territorio nazionale o da almeno cinque anni nella medesima Regione), attraverso la costruzione di nuove abitazioni e/o la valorizzazione dell’esistente.

Nel 2014 per dare nuova linfa al mercato immobiliare, ancora stretto nella morsa della crisi economica, il Governo ha adottato una serie di misure, oggi contenute nel D.L. n. 47/2014 (c.d. decreto Lupi), dal valore di circa 1,8 miliardi di euro. Si tratta di un piano che interviene su più fronti dell’edilizia residenziale nell’ottica di sostenere e rilanciare l’affitto, incrementare l’offerta di ERP e agevolare lo sviluppo del social housing. (fonte CDP)

Contestualmente all’iniziativa pubblica, numerose cooperative e imprese private con la loro attività progettuale e associativa hanno fornito agli italiani abitazioni e prezzi agevolati.

Tutto è in relazione

“[…]Ma un tetto, perché sia una casa, deve anche avere una dimensione comunitaria: il quartiere ed è proprio nel quartiere che s’inizia a costruire questa grande famiglia dell’umanità, a partire da ciò che è più immediato, dalla convivenza col vicinato[…].” (Papa Francesco ai partecipanti all’incontro mondiale dei movimenti popolari 2014)

“Data l’interrelazione tra gli spazi urbani e il comportamento umano, coloro che progettano edifici, quartieri spazi pubblici e città, hanno bisogno del contributo di diverse discipline che permettono di comprendere i processi, il simbolismo e i comportamenti delle persone” (Papa Francesco – Laudato si – 150)

L’abitare nel suo significato più ampio non si esaurisce nell’oggetto della casa, ma è una esperienza, un processo che ci riporta ai soggetti, agli “abitanti”, alle loro storie, alle loro biografie, così spesso ignorate e rimosse dai fautori del libero mercato urbano, dalle politiche e dai piani urbanistici, sempre più focalizzate sul confronto tra pubblica amministrazione e promotori immobiliari. L’abitare, tuttavia, non si esaurisce neppure nella “vita” che attraversa la casa, nella relazione mutevole tra questo interno e i suoi abitanti, che spesso sovvertono ordinamenti tipologici, funzionali, sociali. Si abita pertanto non solo la casa, ma anche un vario insieme di spazi esterni prossimi all’abitazione, il cortile, la panchina sotto casa, la strada, e una pluralità di “spazi di vita” variamente ubicati e diffusi (il supermercato, il treno e la metropolitana dei movimenti ripetuti quotidiani, il marciapiede all’uscita della scuola dei figli, il grande parco metropolitano, la rete discontinua di luoghi condivisa da una comunità di pratiche sportive, culturali). Nell’esperienza dell’abitare si incontra così non solo lo spazio della casa, ma anche quello più ampio, aperto e relazionale del paesaggio e del territorio.

“<<Come sono belle le città che superano la sfiducia malsana e integrano i differenti e che fanno di tale integrazione un nuovo fattore di sviluppo! Come sono belle le città che, anche nel loro disegno architettonico, sono piene di spazi che collegano, mettono in relazione, favoriscono il riconoscimento dell’altro!>>”- Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 210; AAS 105 (2013)

 

Nuove forme dell’abitare

L’oggi è sempre più frutto di un processo degenerativo di legami personali e sociali che hanno inesorabilmente portato alla solitudine umana. “Lo slegamento di tutti i legami sociali – da quelli affettivi a quelli istituzionali – è diretta conseguenza dell’idea che, in presenza di più opportunità, essere liberi significhi inseguire nuove possibilità in assenza di vincoli. […] L’altro a mia disposizione è un programma che distrugge il mondo, lo strumentalizza, lo violenta. Alla fine l’altro rischia di non esserci più, semplicemente perché lo abbiamo ucciso nella sua alterità. […] Se l’altro è costitutivamente estraneo al mio mondo, se il legame sociale è impossibile dato che ciascuno è perso “dietro i fatti suoi”, allora possiamo incontrare l’altro solo furtivamente, per un utile, forse piacevole, ma necessariamente scambio funzionale o per un’intensa quanto fugace fusione emozionale.” (Mauro Magatti – Chiara Gaccardi  - Generativi di tutto il mondo unitevi – Feltrinelli)  

E’ di tutta evidenza che la conseguenza di questa solitudine incide negativamente su molteplici condizioni dell’esistenza stessa: la salute, l’istruzione, la casa, il lavoro, il welfare: se assumiamo il presupposto che la componente fondamentale sia il legame sociale. “Welfare non è un servizio, ma è una relazione. Avere cura degli altri è agire un modo di stare al mondo, è una dimensione umana che tocca alcuni snodi significativi: ospitalità, autorità, dovere, responsabilità.” (Johnny Dotti – Maurizio Ragosa – Buono è giusto – Luca Sassella Editore)

Il Cohousing nasce proprio dalla necessità di dare risposta innovativa di base a bisogni specifici delle società nord-occidentali, non supportate dalla fragilità del welfare, dove l’individualismo dilagante ha comportato la dissoluzione delle reti parentali tradizionali. La prima esperienza sorge in Danimarca nel 1972. Nel tempo assume forme e dimensioni diversi in funzione dei territori, delle culture e degli obiettivi degli abitanti. Si prefigura dunque come una forma di welfare di comunità basata sulla collaborazione tra persone e famiglie.

Così come il cohousing i condomini solidali si organizzano attorno alla dimensione relazionale dei partecipanti, orientati a condividere il più possibile spazi comuni, acquisti (GAS), progetti solidali, buone pratiche di sostenibilità ambientale, economica e sociale.

Anche gli ecovillaggi nascono e si sviluppano negli anni ’90. Si tratta di insediamenti di piccole e media dimensioni in territori rurali. Spesso nascono con l’obiettivo di rigenerare vecchi borghi abbandonati, nel pieno rispetto delle presistenze architettonico ambientali e dall’idea di sperimentare modelli di convivenza alternativi basati sui principi della solidarietà e della nonviolenza. Diversi ecovillaggi sono strutturati su forme economiche autosufficienti e sulla gestione della terra. Spesso la proprietà dei beni è comune e indivisa. Riguardo al lavoro, alcuni membri lavorano all’interno (coltivazioni, agriturismo, formazione, artigianato) altri svolgono lavori professionali convenzionali fuori dalla comunità.

Le prime esperienze di housing sociale (almeno nella forma contemporanea: progettazione integrata, promozione dal basso, partecipazione, mix funzionale, eventi socio-culturali) nascono intorno agli anni ‘70/80. La casa nell’ambito delle iniziative di Housing Sociale è destinata a quella fascia di utenti che a causa del reddito medio basso, hanno difficoltà a soddisfare il proprio bisogno abitativo sul mercato e non sono sufficientemente fragili da poter accedere alle case popolari. Gli operatori coinvolti nei progetti di housing sociale insieme al settore pubblico (CDP, Regioni, Enti locali ecc.) sono anche le Fondazioni (es. Fondazione Housing Sociale, Fondazione Cariplo) , il mondo cooperativo e le società di sviluppo immobiliare con finalità etico-sociali.

L’housing socile tende a sviluppare in forma integrata progetto urbanistico, architettonico e progetto sociale tendenzialmente coinvolgendo i futuri abitanti in percorsi di co-progettazione. 

Antonio D’Ovidio