Giustizia e situazione carceraria (Rapporto 2015)

“Ero carcerato e siete venuti a trovarmi"
(Mt 25,36)

In occasione delle prossime festività, nei giorni da Natale a Capodanno, dopo la positiva esperienza dello scorso anno, alcuni parlamentari visiteranno gli istituti di pena di varie province italiane.
Un’iniziativa promossa da “Argomenti 2000”, Associazione di amicizia politica, per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica e degli stessi parlamentari sulla situazione carceraria, drammatica emergenza del Paese, per compiere un gesto di concreta vicinanza a quella parte della popolazione fatta di uomini e donne che, pur scontando una pena, rimangono a pieno titolo cittadini, conservano la dignità della condizione umana e chiedono di essere aiutati ad un reinserimento nella società così come previsto dalla Costituzione.

Ripensare il sistema penale e la funzione sanzionatoria

Dopo l’autorevole intervento del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano del 2014 e la sentenza della Corte europea, il Parlamento è intervenuto a più riprese sulla situazione carceraria e in particolare per risolvere il problema del sovraffollamento. Molto resta da fare, a fronte di una condizione di vera emergenza e alla necessità di un ripensamento profondo del sistema penale e detentivo.
Papa Francesco parlando nello scorso ottobre ad una delegazione dell’associazione internazionale di diritto penale, notava come si sia di fronte ad una sorta di populismo penale: “negli ultimi decenni si è diffusa la convinzione che attraverso la pena pubblica si possano risolvere i più disparati problemi sociali, come se per le più diverse malattie ci venisse raccomandata la medesima medicina. Non si tratta di fiducia in qualche funzione sociale tradizionalmente attribuita alla pena pubblica, quanto piuttosto della credenza che mediante tale pena si possano ottenere quei benefici che richiederebbero l’implementazione di un altro tipo di politica sociale, economica e di inclusione sociale”.
In quel contesto, papa Bergoglio notava inoltre come “il sistema penale va oltre la sua funzione propriamente sanzionatoria e si pone sul terreno delle libertà e dei diritti delle persone, soprattutto di quelle più vulnerabili, in nome di una finalità preventiva la cui efficacia, fino ad ora, non si è potuto verificare, neppure per le pene più gravi, come la pena di morte”; e denunciava come si corra “il rischio di non conservare neppure la proporzionalità delle pene, che storicamente riflette la scala di valori tutelati dallo Stato”. E questo perché “si è affievolita la concezione del diritto penale come ultima ratio, come ultimo ricorso alla sanzione, limitato ai fatti più gravi contro gli interessi individuali e collettivi più degni di protezione. Si è anche affievolito il dibattito sulla sostituzione del carcere con altre sanzioni penali alternative”.
Accanto alla necessità di affrontare le emergenze, si pongono con evidenza i temi della pena, delle condizioni del sistema detentivo e della sua possibile evoluzione, delle effettive condizioni che rendono possibile una dimensione educativa e di recupero, delle possibilità di lavoro all’interno e all’esterno delle strutture carcerarie. E questo senza trascurare le emergenze.

Il sovraffollamento carcerario e i provvedimenti attuati

Il sovraffollamento carcerario nel nostro Paese non è solo un problema morale e sociale ma è, nella sua sostanza, anche strettamente interconnesso alla tematica della legalità; è, infatti, una contraddizione far vivere chi non ha recepito il senso di legalità in una situazione di evidente non corrispondenza tra quanto normativamente definito e quanto attuato e vissuto, spesso, in condizione di palese violazione dei diritti umani.
Il problema carcerario aveva assunto (e in parte ancora assume) dimensioni preoccupanti, con istituti penitenziari sovraffollati e condizioni detentive sempre meno degne di un paese civile: i numeri forniti in audizione dall’allora Ministro ai tempi del primo decreto legge in materia carceraria – al 14 ottobre 2013, a fronte di una capienza regolamentare degli istituti di pena di 47.599 unità il numero di detenuti era di 64.564 – segnalavano una situazione drammatica, con un’eccedenza di più di ventimila unità pari a un rapporto fra detenuti e posti disponibili del 135%: la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato il nostro paese per violazione dell’ art. 3 CEDU circa il divieto di trattamento inumani e degradanti (IIa sezione, casi Sulejmanovic c. Italia, 16 luglio 2009, n. 22635/03 e, recentemente, Torreggiani c. Italia, 8 gennaio 2013, nn. 43517/09, 46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10, 37818/10). L’intervento deciso della Corte Europea, specie nella seconda delle menzionate decisioni, ha reso dunque, se possibile, ancor più indifferibile un’azione correttiva in tempi brevi. In pratica, alla già pressante questione umanitaria si era aggiunto l’incentivo politico e  diplomatico di evitare condanne a ripetizione. La condizione di sovraffollamento estremo è di per sé un vulnus ai diritti dei detenuti, poiché, come ha affermato la Corte europea, l’avere a disposizione uno spazio eccessivamente ridotto costituisce trattamento disumano e degradante a prescindere da altri fattori: condizioni igieniche, luce, acqua, accesso a servizi sanitari, ecc. Nel caso italiano, peraltro, non era infrequente che, alla ridotta disponibilità di spazio si affiancassero deficienze ulteriori, legate alle precarie condizioni di alcune delle nostre carceri.
Nell’ultimo decennio, l’aumento della popolazione carceraria italiana e il conseguente sovraffollamento degli istituti di pena ha contribuito ad un notevole deterioramento delle qualità della vita dei detenuti, già provati per le condizioni di limitata libertà. In una cella, dove sarebbe previsto il soggiorno di soli due detenuti, ve ne alloggiano normalmente sei e, nel peggiore dei casi, otto. Questa condizione ha favorito, oltre evidenti disagi per i detenuti e per lo stesso personale, il proliferare di malattie, una vera e propria emergenza sanitaria anche per tutti coloro che vivono e lavorano in carcere. Infatti, secondo la “Simpse”, la Società italiana di medicina penitenziaria, i tossicodipendenti sono il 32 per cento, a questi va aggiunto che il 27 per cento dei detenuti ha un problema psichiatrico, il 17 per cento ha malattie osteoarticolari, il 16 per cento cardiovascolari e circa il 10 per cento problemi metabolici e dermatologici. Tra le malattie infettive, è l'Epatite C la più frequente (32,8 per cento), seguita da Tbc (21,8 per cento), Epatite B (5,3 per cento), Hiv (3,8 per cento) e sifilide (2,3 per cento). L’invivibilità del carcere acutizza o provoca anche patologie psicofisiche, insonnia, depressione e anoressia.
Va inoltre notato come in Italia, alla base dell’attuale condizione carceraria, vi siano anche fattori di distorsione a livello legislativo e giudiziario (troppi reati, troppe pene detentive e insufficienti meccanismi sanzionatori alternativi, troppe cautele) che richiedono correttivi, a diversi livelli e in diversi settori dell’ordinamento. Non può essere sufficiente il solo ampliamento della capienza carceraria di 11.500 posti (come previsto nel piano carceri approvato), posto che gli interventi di edilizia penitenziaria richiedono comunque tempi attuativi che vanno al di là dei limiti temporali imposti dalle esigenze umanitarie dei detenuti e comunque fissati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
A fronte di questa situazione va riconosciuto come il nostro Paese si sia, nel corso del 2014, impegnato con interventi mirati a ridurre il sovraffollamento, evitando le sanzioni europee. Interventi certo non sufficienti, ma che almeno vanno nella giusta direzione. In particolare, si è intervenuti attraverso la conversione di tre decreti legge: il Parlamento ha adottato una serie di misure legislative volte a ridurre il numero dei reclusi in carcere, attraverso interventi tanto di diritto penale quanto di diritto processuale penale e relativi all’ordinamento penitenziario. Il Parlamento ha anche approvato una legge in tema di pene detentive non carcerarie, depenalizzazione e messa alla prova.

Linee di intervento su cui ci si muove


Vale la pena richiamare alcuni provvedimenti adottati dal Parlamento e le linee che hanno orientato le scelte. Queste possono essere indicate nella deflazione carceraria e ripristino di condizioni detentive adeguate alla dignità delle persone ospitate; nella efficienza della giustizia penale e civile tramite meccanismi di snellimento, semplificazione; nella protezione adeguata ai diritti delle persone, specie di quelle più vulnerabili (minori, donne, detenuti, ecc.) tramite misure di carattere civile, penale e amministrativo.
Il decreto legge n.78/2013 (convertito con legge n.94/2013), ha “smontato” gli automatismi introdotti in campo penitenziario dalla legge ex Cirielli.
Il decreto legge n. 92/2014 ha modificato l'art. 275 del codice di procedura penale, sui criteri  di  scelta  delle misure   cautelari,   in   modo  da   limitare  il   ricorso  alla custodia cautelare in carcere. In particolare, in base al nuovo comma 2-bis: è esteso anche agli arresti   domiciliari   il   divieto   di  disporre   la custodia cautelare in carcere nel caso in cui il giudice ritenga che con la sentenza possa essere concessa la sospensione condizionale della pena; è introdotto il divieto   di   applicazione   della   custodia   cautelare   in   carcere   se il giudice   ritiene   che,   all'esito   del   giudizio,   la   pena   detentiva   irrogata non sarà superiore  a  3  anni. Alcune modifiche legislative approvate nell'attuale legislatura hanno interessato le pene previste per i reati di produzione, traffico e detenzione illecita di stupefacenti: un'elevata percentuale della popolazione carceraria è infatti detenuta in relazione a quel tipo di reati.
 Il decreto legge n. 78/2013, in particolare, è intervenuto   sull'articolo  73 del TU stupefacenti (Dpr n. 309 del 1990), per consentire al condannato tossicodipendente o assuntore di sostanze   stupefacenti o psicotrope di essere   ammesso al lavoro   di pubblica utilità, anche in caso di commissione di reati diversi da quelli di produzione, traffico e detenzione illecita di sostanze stupefacenti o psicotrope.
Il decreto legge n. 146/2013 ha poi trasformato in autonoma fattispecie  di   reato  la circostanza attenuante del delitto di detenzione e cessione illecita di stupefacenti (cd. attenuante di lieve entità , art. 73 del testo unico stupefacenti).
Sulla materia è intervenuto poi il decreto legge n. 36 del 2014, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale, che ha previsto: un abbassamento delle pene previste per il c.d. piccolo spaccio; il ripristino della disposizione (comma 5 -bis dell'art. 73) che consente al giudice, in caso di condanna per un fatto di lieve entità, di applicare al tossicodipendente, in luogo della pena detentiva, il lavoro di pubblica utilità.
Il decreto legge 78/2013 (misure sulla esecuzione della pena), in particolare,
ha previsto la possibilità per   i detenuti e gli   internati di partecipare, a titolo volontario e gratuito, all'esecuzione di progetti di pubblica utilità; ha soppresso il divieto di concessione della detenzione domiciliare tra i 3 e i 4 anni di pena (anche residua) nei confronti dei condannati recidivi reiterati; ha, inoltre, eliminato le preclusioni di natura oggettiva all'accesso a misure alternative alla detenzione in caso di denuncia o condanna per evasione  e ha abrogato le disposizioni che limitavano la concessione ai recidivi reiterati della semilibertà.
Con il decreto legge 146/2013 (diritti dei  detenuti  e  sovraffollamento  carcerario)  sono  state introdotte ulteriori modifiche: in particolare è  stato abrogato il divieto di disporre per più di due volte l'affidamento terapeutico al servizio sociale; è stato portato da tre a quattro anni il limite di pena, anche residua, per l'applicazione dell'affidamento in prova al servizio sociale, con più ampi poteri del magistrato di sorveglianza per la sua applicazione; è stata stabilizzata – venendone meno il carattere transitorio – la disposizione che consente di scontare presso il domicilio la pena detentiva non superiore a 18 mesi, anche  se parte residua di maggior pena; è stato esteso l'ambito applicativo dell'espulsione come misura alternativa alla detenzione, prevista dal testo unico immigrazione.

Sul fronte dei diritti dei detenuti, il decreto legge 78/2013 (misure sulla esecuzione della pena) ha favorito il reinserimento lavorativo degli ex detenuti, con l'ampliamento del periodo successivo allo stato di detenzione nel quale sono concessi gli sgravi contributivi (l'aumento è di 18 mesi per i detenuti che hanno usufruito di misure alternative o del lavoro esterno; di 24 mesi per quelli che non ne hanno beneficiato) e con la concessione alle imprese che assumono detenuti di un credito d'imposta (350 euro per ogni assunto).
Il decreto legge 146/2013 (diritti dei detenuti e sovraffollamento carcerario) ha invece previsto maggiori garanzie per i soggetti reclusi nel procedimento di reclamo in via amministrativa e in quello giurisdizionale davanti alla magistratura di sorveglianza, presso la quale è previsto anche un giudizio per assicurare l'ottemperanza dell'amministrazione penitenziaria alle prescrizioni del giudice. Lo stesso decreto ha istituito, presso il Ministero della giustizia del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà  personale, una procedura semplificata nella trattazione di alcune materie di competenza della magistratura di sorveglianza.

Da ultimo, il decreto legge n. 92/2014 ha inserito nell'ordinamento penitenziario (legge n. 354 del 1975) l'articolo  35 - ter   attraverso   il   quale   si   attivano,   a   favore   di   detenuti   e internati ,rimedi  risarcitori   per la violazione dell'art. 3 della Convenzione EDU, disposizione che, sotto la rubrica "proibizione della tortura", stabilisce che "nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti".

Misure alternative pre-sentenza

Accanto agli interventi ora richiamati, vanno considerati per la loro efficacia provvedimenti alternativi pre-sentenza, anche se sull’istituto della messa alla prova, strumento alternativo al processo penale, introdotto dal legislatore (con la legge 67/2014), non disponiamo ancora di sufficienti dati applicativi (al 30 settembre 2014 solo 18 applicazioni a fronte di 3.237 indagini per messa alla prova). Indubbiamente affinché la messa alla prova con affidamento ai servizi sociali funzioni è necessario disporre di convenzioni che rendano utile agli enti l’impiego di questa particolare forza lavoro. Nei limitati casi in cui l’istituto è stato sinora applicato, si sono infatti rilevate forti differenze territoriali: se in alcuni circondari di tribunale, penso soprattutto a Torino, l’istituto ha funzionato perfettamente, in gran parte del Paese l’assenza di convenzioni per il lavoro di pubblica utilità ha reso pressoché impossibile offrire all’indagato questa possibile alternativa al processo e alla condanna.

Altre considerazioni merita l’istituto degli arresti domiciliari. Con la finalità di ridurre la presenza nelle carceri, infatti, il parlamento in questa legislatura ha potenziato l’istituto, alternativo alla custodia cautelare in carcere, accompagnando la misura con particolari modalità di controllo, mezzi elettronici o altri strumenti tecnici. Si tratta, in particolare, del c.d. braccialetto elettronico, ovvero di uno strumento che consente alle autorità di localizzare il soggetto sottoposto a misura, per verificare che effettivamente non si allontani dal proprio domicilio. La misura, prevista dall’art. 275-bis del codice di procedura penale, presuppone il consenso dell’interessato e la disponibilità di un numero adeguato di dispositivi elettronici. La disposizione del codice prevede infatti che il giudice debba preliminarmente accertare la disponibilità dello strumento da parte della polizia giudiziaria. Laddove tali dispositivi fossero effettivamente disponibili in numero adeguato (e a costi ragionevoli), la misura degli arresti domiciliari potrebbe essere efficacemente utilizzata in sostituzione delle custodia cautelare in carcere.

Misure alternative alla detenzione

Altro campo di intervento dell’azione parlamentare riguarda la progettazione delle misure alternative alla detenzione alle quali, da ultimo con la recente legge n. 67 del 2014, è stato aggiunto l’istituto della sospensione del processo penale con messa alla prova.
La legge 67/2014, ora richiamata per la messa alla prova riferita agli adulti, ha nella sua prima parte delegato il governo circa la reclusione domiciliare come nuova pena principale e indicati i casi in cui può essere dichiarata l'irrilevanza del fatto (su questa materia proprio in questi giorni ha  concluso i suoi lavori la commissione Palazzo). La reclusione domiciliare non può considerarsi una soluzione ottimale, se non vengono previsti strumenti che permettono  anche in questa modalità di esecuzione della pena un fine rieducativo e la possibilità di un reinserimento nella società, in tal senso, c è da augurarsi che la delega venga interpretata nel modo migliore possibile cercando ad esempio di prevedere modulabilità da parte del giudice nel superamento di  un ottica  puramente custodalistica.
A seguito della sentenza e della condanna definitiva sono previsti i seguenti istituti:

L’affidamento in prova al servizio sociale. Disciplinato dall'art. 47 O.P., consiste nell'affidamento del condannato ad un servizio sociale fuori dall'istituto, per un periodo corrispondente alla pena da scontare. La misura può essere concessa soltanto ai condannati a pena detentiva non superiore a 3 anni. Il recente decreto-legge n. 146 del 2013 ha stabilito che l’affidamento in prova può essere concesso al condannato che deve espiare una pena, anche residua, non superiore a 4 anni di detenzione, quando abbia serbato, quantomeno nell'anno precedente alla presentazione della richiesta, un comportamento tale da consentire di esprimere un giudizio positivo sul buon esito dell’affidamento. Alla data del 30 giugno 2014, risultano affidati in prova ai servizi sociali 3.371 condannati tossicodipendenti (circa il 27% di coloro che accedono all’affidamento in prova). Più in generale, alla data del 30 giugno 2014, risultano affidati ai servizi sociali 12.305 condannati - circa il 53% di coloro che accedono alle misure alternative alla detenzione.

La detenzione domiciliare. Una modalità di esecuzione extracarceraria della pena detentiva: essa consente, a determinate categorie di soggetti, se non è già stato disposto l'affidamento in prova al servizio sociale, di espiare la reclusione non superiore a 4 anni (ovvero non superiore a 3 anni in caso di recidiva reiterata ex art. 99, co. 4, c.p.).

La detenzione domiciliare speciale e l’assistenza all’esterno dei figli minori. La detenzione domiciliare speciale è volta a permettere l’assistenza familiare ai figli di età non superiore a 10 anni da parte delle madri condannate quando non sia possibile l’applicazione della detenzione domiciliare di cui all’art. 47-ter O.P. (v. sopra).

L’esecuzione domiciliare. Con il decreto-legge n. 146 del 2013 è stata stabilizzata nell’ordinamento la disposizione che consente di scontare presso il domicilio la pena detentiva non superiore a 18 mesi, anche se parte residua di maggior pena.

La semilibertà. In base all’art. 48 O.P., consiste nella concessione all'internato o al condannato di trascorrere fuori dall'istituto carcerario parte del giorno per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale. Tali soggetti sono assegnati ad appositi istituti carcerari o sezioni di essi e indossano abiti civili.

Libertà vigilata. Non è una vera e propria misura alternativa alla detenzione, quanto una misura di sicurezza personale non detentiva e consiste nella limitazione della libertà personale del soggetto posta in essere dall’autorità giudiziaria attraverso una serie di prescrizioni tese a impedire la commissione di nuovi reati e favorire il reinserimento sociale.

Infine un ultimo istituto su cui vorremmo soffermarci maggiormente è il lavoro, è un tema su cui torneremo :
Lavoro di pubblica utilità. È una sanzione penale consistente nella prestazione di un’attività non retribuita a favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti e organizzazioni di assistenza sociale o volontariato. La prestazione di lavoro viene svolta a favore di persone affette da HIV, portatori di handicap, malati, anziani, minori, ex detenuti o extracomunitari; oppure nel settore della protezione civile, della tutela del patrimonio pubblico e ambientale o in altre attività pertinenti alla specifica professionalità del condannato. L’attività viene svolta presso gli Enti che hanno sottoscritto con il Ministro, o con i Presidenti dei Tribunali delegati, le convenzioni previste dall’art. 1 comma 1 del D.M. 26 marzo 2001, che disciplinano le modalità di svolgimento del lavoro, nonché le modalità di raccordo con le autorità incaricate di svolgere le attività di verifica. Originariamente, la sanzione era prevista nei procedimenti di competenza del giudice di pace; lo spettro di applicazione della sanzione è stato successivamente allargato a numerose e diverse fattispecie penali, che hanno configurato il lavoro di pubblica utilità come una modalità di riparazione del danno collegata all’esecuzione di diverse sanzioni e misure penali, che vengono eseguite nella comunità.  Attualmente trova applicazione anche:
•    nei casi di violazione del Codice della strada;
•    nei casi di violazione della legge sugli stupefacenti;
•    come obbligo dell’imputato in stato di sospensione del processo e messa alla prova (v. sopra);
•    come obbligo del condannato ammesso alla sospensione condizionale della pena;
•    come modalità di attuazione del programma di trattamento del detenuto ammesso al lavoro all’esterno.
Quando il lavoro è comminato come sanzione, l’Ufficio di esecuzione penale esterna può essere incaricato dal giudice, di verificare l’effettivo svolgimento dell’attività lavorativa a favore della collettività, eseguita presso gli Enti convenzionati. Più specifici sono i compiti dell’Ufficio di esecuzione penale esterna nei casi di sospensione del procedimento e messa alla prova. L’Ufficio concorda con l’imputato la modalità di svolgimento dell’attività riparativa, tenendo conto delle sue attitudini lavorative e delle specifiche esigenze personali e familiari, e raccordandosi con l’ente presso cui sarà svolta la prestazione gratuita. Il lavoro di pubblica utilità diventa parte integrante e obbligatoria del programma di trattamento per l’esecuzione della prova che è sottoposto alla valutazione del giudice nel corso dell’udienza.

Il processo civile telematico

Va colto il segnale positivo introdotto dal processo civile telematico, in termini di funzionamento della macchina della giustizia, che registra una drastica riduzione dei tempi per alcune tipologie di cause e di effettive economie. La normativa introdotta, ultimo in ordine di tempo il d.l. 24 giugno 2014, indica una linea di tendenza che potrà comportare a breve ulteriori norme rivolte all’accelerazione processuale.
Ulteriori provvedimenti sono contenuti nella recente Legge di stabilità, tra questi ricordiamo il Fondo per il recupero di efficienza del sistema giudiziario e il potenziamento dei relativi servizi, oltre al completamento del processo telematico (art. 10). Da segnalare anche il trasferimento allo Stato, a partire dal 1° settembre 2015, dell’obbligo di corrispondere le spese per gli uffici giudiziari, al presente a carico dei comuni (art. 38). Nell’insieme si tratta di alcuni passi che vanno verso un disegno complessivo che passa per aspetti funzionali e processuali e per aspetti amministrativi e organizzativi, tutti rivolti a promuovere una maggiore efficienza del sistema giudiziario.
Vorremmo infine mettere in evidenza due temi tra i molti che segnano una situazione di emergenza.

Lavoro in carcere e percorso educativo

Il tema del lavoro in carcere, che abbiamo già introdotto, può essere considerato da varie angolature e in primo luogo va difeso dicendo con chiarezza che  le vicende romane, che hanno riguardato un ex-detenuto e una cooperativa sociale che dà lavoro a molti ex-detenuti, non possono mettere in discussione una politica trentennale tesa al recupero e al reinserimento dei carcerati, tanti dei quali stanno davvero cogliendo questa opportunità. Altrimenti sarebbe un terribile passo indietro.
 Ciò su cui dobbiamo concentrare l’attenzione è l’effetto che il lavoro può portare sui carcerati, sulla qualità quotidiana della loro vita e nel far nascere e crescere le possibilità di un reinserimento al termine della pena. Così come andrà maggiormente considerata la possibilità di un’economia complessiva della struttura carceraria grazie al lavoro volontario che può favorire non pochi aspetti di autogestione della struttura.
Vi è infatti una notevole sproporzione tra la cifra complessiva spesa per i costi del personale e della struttura e quanto speso per il singolo detenuto, non solo per i pasti ma per il trattamento della personalità e l’assistenza psicologica. È una sproporzione su cui è urgente intervenire anche in assenza di nuovi investimenti, puntando in prospettiva ad una diversa distribuzione delle risorse attuali grazie anche al lavoro volontario in carcere. È un tema di cui deve sentirsi investito il DAP.
L’esperienza di questi anni fatta attraverso le molte reti di volontariato che operano accanto e all’interno della struttura carceraria, sottolinea un’evidenza:  il lavoro è educativo se contestualizzato all'interno di un percorso educativo ove, oltre al lavoro, c'è da parte di qualcuno la presa in carico del detenuto. Ancora l’esperienza segnala come, in una prima fase di questo percorso, un'attività ergoterapica gratuita sia necessaria per far riconoscere al detenuto la necessità di risarcire la società che attraverso il suo reato ha ferito. In un secondo momento, però, è necessario che vicino alla data del fine pena  la persona venga posta nelle condizioni concrete che la portino a non delinquere più. A questo punto si rende necessario anche un lavoro retribuito.
In alcune strutture, si sperimenta una prima fase gratuita, professionalizzante e con lo scopo risarcitorio, e successivamente si offre la possibilità di cercare lavoro, consentendo di abitare presso la struttura per qualche mese. Anche alla luce di questa esperienza ci si può chiedere se non vi sia uno squilibrio tra gli sgravi fiscali per il lavoro all'interno del carcere e quelli all'esterno; ad esempio, il credito d'imposta del 35% solo a chi lavora dentro il carcere o a chi è in semilibertà o articolo 21, escludendo gli affidamenti. Questo alza certamente la recidiva, rendendo inutile ogni sforzo. Inoltre questi sgravi sono previsti per le cooperative sociali, ma vengono escluse dal beneficio imprese che non abbiano quella natura, in tal modo si esclude una parte consistente del mondo imprenditoriale, restringendo le possibilità per il detenuto che da  libero cerca lavoro.
In alcune realtà carcerarie, specie in presenza di pene che comportano una lunga detenzione, può essere importante creare, garantire e mantenere un lavoro continuativo e retribuito, affinché il detenuto possa dare senso alla pena e costruire all’interno delle mura del carcere relazioni umane,  attraverso il lavoro, anche con il mondo esterno.
Più in generale, alla luce di quanto detto, si evidenzia la necessità di superare una mentalità ancora carcerocentrica e di operare scelte legislative che favoriscano per le pene alternative la valorizzazione, per il loro potenziale educativo, di strutture e comunità educanti.
A tal proposito andrebbe affrontato il capitolo, che qui possiamo solo accennare, del riconoscimento amministrativo e istituzionale delle comunità educanti per detenuti comuni, sparse nel territorio nazionale; capitolo che non viene sostenuto né valorizzato a sufficienza e spesso relegato in una generale indifferenza. Sarà opportuno intervenire in proposito sui decreti attuativi così da permettere alle varie comunità  di sopravvivere e di diffondersi come chiede , tra l'altro,   la rete  “certezza del recupero”.

Il tema delicato degli OPG

Il prossimo 31 marzo gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari dovranno essere chiusi. Non sono giustificabili altre proroghe alla chiusura di luoghi “indegni per un Paese appena civile”, come li ha definiti il Presidente Napolitano. Le dichiarazioni di Governo e Regioni (Vedi http://www.stopopg.it/node/1036) sembrano confortare. Le ultime Relazioni dei Ministri della Salute e della Giustizia al Parlamento – e il confronto tenuto ad esempio da stopOPG con il Governo e le Regioni – confermano che la maggioranza delle persone internate può essere dimessa, che le misure alternative all’Opg sono realizzabili se c’è una buona collaborazione tra le Magistrature e i Servizi delle Asl. E che dunque non servono le Rems, le strutture per l’esecuzione della misura di sicurezza che furono chiamate subito – e a ragion veduta – mini Opg. Peraltro, la diminuzione delle presenze negli Opg  è impressionante: quasi dimezzate in tre anni, passando dalle 1.419 presenze ad aprile 2011 alle 793 presenze a settembre 2014 .
Il cerchio della Riforma Basaglia sta chiudendosi, tuttavia bisogna essere consapevoli che la strada per porre fine alla stagione manicomiale, che ha nell’Opg l’ultimo baluardo giuridico e operativo, è ancora irta di ostacoli.
Aiuta in proposito l’ultima legge: la Legge n. 81 del 31 maggio 2014 “Disposizioni urgenti in materia di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari”. Questa nuova legge ha finalmente considerato l’Opg, come era il manicomio, luogo inadatto alla cura e ha fornito strumenti concreti a tutti gli attori impegnati in questa dolorosa vicenda: Governo, Regioni e Asl, operatori dei servizi, magistratura, camere penali/avvocati, associazioni utenti e familiari, sindacato. Ha tradotto in norme le due sentenze della Corte Costituzionale (la n. 253 del 2003 e  la n. 367 del 2004), che hanno segnato la strada verso il superamento degli Opg a codice penale invariato.
Come spesso accade, non basta una buona legge, occorre attuarla, superando ritardi, ostacoli e resistenze.
La legge 81 contiene innovazioni molto impegnative per chi deve attuarle. Una difficoltà è data dal fatto che le regioni agiscono a diverse “velocità” nell’organizzare le risposte necessarie con i progetti di cura; i servizi socio sanitari e le stesse magistrature operano in condizioni problematiche; vi sono contraddizioni e carenze normative da superare.
Spesso i servizi di salute mentale sono in sofferenza: trascuratezza e tagli hanno colpito duramente, spesso demotivando gli operatori, lasciati da soli nella trincea più esposta del welfare. A fronte delle difficoltà, non mancano buone pratiche ed esperienze eccellenti, e voglia di lottare.
Per la chiusura degli Opg molto dipende da come funzionano (o non funzionano) i servizi socio sanitari e di salute mentale nel territorio. È per questa ragione che la battaglia per la chiusura degli Opg si accompagna a quella per il rafforzamento delle reti territoriali e alla riconsiderazione dei compiti, ancora più delicati, degli operatori. Di qui la necessità, per molte associazioni che operano sul campo, di chiedere l'apertura dei Centri di Salute Mentale h24.
La nuova legge, in definitiva, prevede disposizioni impegnative e innovative. Che hanno bisogno di essere “sostenute”, da parte di Governo e Regioni: con precisi atti di indirizzo, usando bene i finanziamenti, con un monitoraggio e una valutazione costanti. Serve per questo la vigilanza del Parlamento e occorre mantenere la “pressione sociale”.
Il primo obiettivo concreto è quello di dimettere gli internati. Attuando i progetti terapeutico/riabilitativi di dimissione che sono stati presentati, grazie all’obbligo fissato dalla legge 81, per ciascuna delle persone presente negli Opg al 31 maggio scorso. È un obiettivo raggiungibile. Infatti, la Relazione sugli Opg che il Governo ha presentato al Parlamento è chiarissima e incoraggiante, e dice che la Legge 81 sta producendo primi effetti positivi.
Sono stati presentati dalle Regioni, tramite i DSM (Dipartimenti di Salute Mentale), n. 826 Progetti Individuali (su 846 internati). Per la prima volta da decenni ogni persona internata è titolare di progetti individuali, in base ai quali sono stati giudicati “dimissibili” n. 476 persone, cioè oltre il 50% degli attuali internati. Solo questo dato dimezza il fabbisogno di Rems. Le regioni hanno presentato progetti per oltre 900 posti, che sono evidentemente spropositati.
Secondo la Relazione del Governo al Parlamento (ottobre 2014), sarebbero non immediatamente dimissibili poco più di 300 persone (314 più 36 persone non valutate), di cui  solo un’esigua minoranza sarebbe nelle condizioni di “dover restare” in OPG (o in seguito nelle REMS).
In sostanza appena il 17% dei “non dimissibili” conserva la condizione di pericolosità sociale, come ridefinita dalla Legge 81 . Si tratta di 70 persone. Un dato che solleva dubbi sull’utilità delle Rems.
Vi è poi l’altra priorità che riguarda la prevenzione dei nuovi ingressi per la quale andranno sfruttate  le innovazioni della nuova legge. Un impegno di non poco conto che riguarda un compito di conoscenza delle nuove norme e la loro attuazione, con una particolare insistenza sulla necessità che il giudice o il magistrato di sorveglianza adotti misure alternative rispetto a quelle dell’internamento in OPG.
Il tratto più interessante della nuova legge 81 è aver spostato il baricentro dal binomio malattia mentale/pericolosità sociale e cura/custodia (in Opg o in Rems poco importa) alle persone, con progetti di cura e riabilitazione individuali, e nel territorio. Cambiando la vecchia normativa (la legge n. 9 del 2012) si è aperta una nuova fase per applicare le nuove norme nello spirito della riforma Basaglia.
Tuttavia, sappiamo che per rimuovere alla radice la logica manicomiale insita nell’Opg,  bisogna modificare quelle parti dei codici penale e di procedura penale che mantengono in vita il binario speciale per i folli rei. La logica chiamata del doppio binario, uno per i sani e l’altro per i matti, apparentemente misericordiosa (la non imputabilità del matto) ha prodotto, per le persone internate, molte più sofferenze e ingiustizie di quante se ne volevano evitare (non dimenticando che gli articoli dei codici sugli Opg sono figli del Codice Rocco).

Conclusione

L’occasione del Natale può costituire un momento in cui riflettere anche sulle problematiche che, nel campo della giustizia così come in quello carcerario, toccano la vita di tante persone e la pacifica convivenza della società.
Di fronte alla complessa situazione richiamata e tornando ancora alle parole rivolte dal Papa all’associazione dei penalisti, in cui si trova anche un riferimento all’ergastolo, definito “una pena di morte nascosta”, vorremmo in conclusione dire almeno una parola circa il superamento dell'ergastolo c.d. ostativo, e all'urgenza di riattribuire  ai tribunali di sorveglianza - come proposto nel 2013 dalla prima commissione Palazzo - la possibilità di valutare se la non collaborazione sia o meno sintomo di non avvenuta rieducazione (spesso non è così: si pensi al rischio concreto per i parenti o alla indisponibilità a scambiare la propria libertà con la reclusione di gregari da tempo non più implicati in attività criminose). Il Papa, inoltre, esprime la contrarietà della Chiesa per la pena di morte e definisce la carcerazione preventiva come una “forma contemporanea di pena illecita occulta”, concludendo che “le deplorevoli condizioni detentive che si verificano in diverse parti del pianeta, costituiscono spesso un autentico tratto inumano e degradante, molte volte prodotto delle deficienze del sistema penale, altre volte della carenza di infrastrutture e di pianificazione, mentre in non pochi casi non sono altro che il risultato dell’esercizio arbitrario e spietato del potere sulle persone private della libertà”.
Alla luce di questi aspetti ci impegniamo, personalmente e nell’attività parlamentare, in collaborazione con tante realtà, dal mondo scientifico a quello del volontariato, ad affrontare questo ambito delicato e complesso, accogliendo l’invito rivolto dal papa a tutti i cristiani e agli uomini di buona volontà a “migliorare le condizioni carcerarie, nel rispetto della dignità umana delle persone private della libertà”.

 

Per quanto richiamato, i sottoscritti parlamentari si impegnano in prima persona a sostenere nelle aule parlamentari le soluzioni possibili della questione carceraria e come gesto simbolico, per esprimere pubblicamente la loro vicinanza, si recheranno nei giorni delle festività natalizie in visita in un carcere presente nel luogo di elezione o di residenza.

1.    On. Maria Amato
2.    On. Sofia Amoddio
3.    On. Alfredo Bazoli
4.    On. Eleonora Bechis
5.    On. Marina Berlinghieri
6.    On. Paola Binetti
7.    On. Gianpiero Bocci
8.    On.  Vincenza Bruno Bossio
9.    On. Renzo Carella
10.    On. Maria Chiara Carrozza
11.    On. Franco Cassano
12.    On. Ezio Casati
13.    On. Nicola Ciracì
14.    Sen. Roberto Cociancich
15.    On. Paolo Cova
16.    Sen. Mauro Del Barba
17.    On. Carlo Dell’Aringa
18.    Sen. Nerina Dirindin
19.    D’Incecco Vittoria
20.    Sen. Emma Fattorini
21.    On. Francesco Garofani
22.    On. Gregorio Gitti
23.    On. Gian Luigi Gigli
24.    On. Gero Grassi
25.    On. Lorenzo Guerini
26.    On. Vanna Iori
27.    On. Emanuele Lodolini
28.    On. Patrizia Maestri
29.    On. Irene Manzi
30.    On. Giovanna Martelli
31.    On. Franco Monaco
32.    On. Romina Mura
33.    On. Flavia Nardelli
34.    On. Michele Nicoletti
35.    On. Fuksia Nissoli
36.    On. Nicodemo Oliviero
37.    On. Edo Patriarca
38.    On. Serena Pellegrino
39.    On. Emma Petitti
40.    Sen. Stefania Pezzopane
41.    On. Gaetano Piepoli
42.    On. Fabio Porta
43.    On. Ernesto Preziosi
44.    On. Francesco Prina
45.    Sen. Laura Puppato
46.    On. Lia Quartapelle
47.    On. Fausto Raciti
48.    On. Giuseppe Romanini
49.    On. Simonetta Rubinato
50.    Sen. Francesco Russo
51.    On. Milena Santerini
52.    Sen. Giorgio Santini
53.    On. Mario Sberna
54.    On. Gian Piero Scanu
55.    On. Gea Schirò
56.    On. Angelo Senaldi
57.    On. Roberto Speranza
58.    On. Guglielmo Vaccaro
59.    On. Sandra Zampa
60.    On. Giorgio Zanin