Astensionismo, partiti e democrazia

Venerdì, 29 Luglio, 2022

Nelle recenti elezioni amministrative molti italiani (circa la metà) non hanno esercitato il loro diritto/dovere di voto. Nelle prossime politiche si teme un’astensione ancor più alta. Lo stesso si è verificato in Francia nelle recenti elezioni legislative e presidenziali. Si tratta di un fenomeno che tende ad aumentare da un’elezione all’altra, segnando un allontanamento tra sistema politico e cittadini, che hanno perso interesse per la politica, per indifferenza o perché ritengono che la politica non sia in grado di affrontare i problemi sociali (o almeno quelli che stanno loro a cuore).  La nostra Costituzione indica nei partiti i soggetti che hanno il compito di elaborare programmi per governare la società e rappresentare così le diverse condizioni ed esigenze dei cittadini. Ma questa capacità dei partiti di rappresentare il Paese sembra venir meno: non a caso nel Parlamento si sono registrati moltissimi passaggi dal partito in cui il deputato/senatore è stato eletto ad altri partiti o al “gruppo misto” o a piccole formazioni, che non rispondono ad una domanda sociale di rappresentanza ma a interessi personali.  Risulta così che, mentre i cittadini paiono disinteressarsi alla politica, i partiti e il sistema politico rischiano di diventare autoreferenziali, ossia attenti ai rapporti interni di potere più che alle complesse esigenze della società, ai rapporti internazionali in cui lo stato è inserito, alla salute e funzionamento delle istituzioni stesse (confermando così che governare un sistema complesso è assai più difficile che fare propaganda con facili slogan).

Tale micidiale combinazione (disinteresse cittadini + autoreferenzialità dei partiti) conduce alla crisi della democrazia. Potremmo dire che “fa il gioco” di quanti scommettono su un sistema tecnocratico (formato dai cosiddetti ‘esperti’) e autoritario (nel mondo, nella stessa Europa, gli esempi non mancano), che punta su piccoli gruppi di potere (ora va di moda la parola “oligarchi”), in barba all’ideale della partecipazione popolare alla vita politica e alla stessa coscienza civile, a quei “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” indicati dall’art.2 della nostra Costituzione.

Per questo la democrazia politica non può essere disgiunta dalla democrazia economica (pena la totale sudditanza della politica all’economia). Ed entrambe dipendono dalla forza e dalla affidabilità delle istituzioni nazionali e internazionali (come ben si è palesato in occasione della pandemia e dell’aggressione russa all’Ucraina).

C’è chi attribuisce la responsabilità dell’astensionismo alla legge elettorale in vigore. Per alcuni giustificati motivi. Anzitutto la scelta dei candidati è strettamente controllata dalle segreterie dei partiti, che tendono a selezionare più i “fedeli” ai vari capi-corrente, che non i “competenti autorevoli” in grado di rappresentare in modo adeguato cittadini e territori. In secondo luogo, l’attuale legge elettorale “premia” le coalizioni, in cui partiti con progetti diversi (anche piccoli) si mettono insieme per vincere le elezioni, trovando poi difficile governare insieme. Il cittadino fatica a individuare con precisione chi è e cosa propone la coalizione che sceglie, quali interessi rappresenta. Non a caso i dibattiti registrano più scontri e accuse, che non confronti tra idee, progetti e programmi diversi. Questo porta molti, giovani in particolare ma anche adulti e anziani, a sentirsi incapaci di elaborare un vero giudizio politico, a non costruirsi una appartenenza politica e ideale: le inchieste confermano che tanti cittadini decidono all’ultimo momento il voto, in base all’ultima impressione raccolta dalla propaganda, alla simpatia per il “capo” (diversi partiti sono diventati “personali”, inserendo nel loro stesso simbolo il nome del leader), o alla antipatia per il partito avverso (il voto “contro”). E ciò spiega perché i flussi elettorali da un partito all’altro sono diventati così veloci e consistenti, con scelte basate sovente su illusioni, ostilità create ad arte, ‘bufale’ propagandistiche. Basti pensare a come la questione migranti (e la loro presunta invasione dell’Italia) abbia alimentato la propaganda e la fortuna elettorale di alcuni partiti ormai da decenni.

E’ ovvio che se l’identità dei partiti viene sostituita da facili slogan, che sottintendono anche una ostilità (“prima il nord”, “prima gli italiani”, “prima l’Italia”, “no ai gay”, “no allo ius scholae”, …), il discorso politico reale resta oscurato e i partiti vengono meno alla loro funzione educativa rispetto ai cittadini: la ricerca immediata del consenso, magari facendo leva su rabbie e rancori (il cosiddetto “populismo”), si sostituisce a quell’azione di orientamento verso il tipo di società che vorremmo e che – realisticamente – potremmo avere.

Quale conclusione possiamo trarre? Solo se i partiti hanno una identità definita, un “progetto di società”, un cittadino può sentirsene parte e parte attiva. Solo così i cittadini finiscono per cogliere il valore e l’importanza dei partiti, apprezzando il sistema democratico, così da sopportarne i limiti e le fragilità, ponendosi in una posizione attiva rispetto al sistema politico (che sarebbe poi il vero senso della democrazia partecipativa). In caso contrario i partiti divengono strumenti per affermare interessi particolari, “inseguendo” gli elettori piuttosto che fornire loro dati realistici, proposte praticabili, riferimenti ideali comprensibili; le coalizioni si trasformano in comitati elettorali che durano per la breve fase pre-elettorale; i cittadini si riducono a ‘elettori’ frettolosi, ansiosi di tornare alle proprie faccende, dubbiosi circa la propria presenza nel sistema, propensi a pensare che “tanto son tutti uguali”, quindi facili a convincersi si tratti di una farsa (pure costosa). Quando tale meccanismo si genera - magari incentivato da una informazione scarsa e fuorviante, che di rado mette in luce i risultati della politica, per evidenziarne solo magagne e sconfitte – l’astensionismo è conseguente. Ed allora è piuttosto inutile lamentarsi. Intervenire sugli effetti ha ben pochi margini di successo, se non si riesce a incidere sulle cause.

Rispetto all’astensionismo alcuni sostengono la necessità di adottare di nuovo il sistema elettorale proporzionale (tanti voti, tanti seggi in Parlamento), senza premi per le coalizioni tra partiti diversi: ciascuno si presenti agli elettori con la propria identità e programma; questo potrebbe aiutare il cittadino a entrare meglio in relazione col sistema politico, ritrovando la possibilità di incidere col proprio voto e di essere rappresentato. Altri invece sono contrari a questo orientamento, in quanto il sistema maggioritario (che premia chi prende più voti con un maggior numero di seggi) dovrebbe garantire maggior stabilità ai governi; una stabilità che però non è stata molto garantita da quando – nel 1994 – è stata introdotta una legge elettorale maggioritaria (ovviamente non abbiamo la controprova se col sistema proporzionale le cose sarebbero andate meglio).  

Nelle prossime elezioni avremo inoltre l’importante novità della riduzione dei parlamentari, approvata con l’ultimo referendum costituzionale, che renderà ancora più difficile la scelta dei candidati. L’interruzione della legislatura ha troncato ogni dibattito circa le modifiche all’attuale legge elettorale, che pure erano state messe in conto. Anche in questo caso, la combinazione tra l’attuale legge elettorale con premio di coalizione e riduzione dei parlamentari può risultare micidiale, consegnando alla coalizione vincente la possibilità di modificare direttamente la Costituzione. Un rischio reale?

Pur nell’ampia serie di sigle che affollano il panorama politico, si sta profilando una partita bipolare tra destra e centro-sinistra (o “campo largo progressista”), con buona pace di chi sosteneva che ormai “destra” e “sinistra” fossero parole prive di significato: si tratta solo di capire meglio intenzioni e progetti, senza farsi trascinare dalle “distrazioni di massa” che social e media probabilmente ci proporranno nelle prossime settimane. Già parecchie cose sono piuttosto evidenti, sia sul versante interno, a proposito di politiche del lavoro, tasse, integrazione migranti, sostegno alla sanità e alla scuola pubbliche, debito pubblico, pensioni, contrasto alle mafie, ambiente … sia su quello della collocazione internazionale e dei rapporti con l’Unione Europea, versante spesso trascurato nelle scelte elettorali, ma cruciale per il futuro. In proposito, stando ai sondaggi, la vittoria andrebbe ad una coalizione destra-centro dominata da Fratelli d’Italia e Lega (peraltro in competizione tra loro per chi dovrebbe guidare il futuro governo) e con i resti di Forza Italia (vista anche l’uscita dal partito di Berlusconi di esponenti di spicco). Si tratta di partiti che hanno in più occasioni espresso la loro ostilità al processo di unificazione europea, puntando sul “sovranismo” (che fa rima con nazionalismo), guardando a modelli autoritari come quello dell’ungherese Orban e del russo Putin, alla destra francese della Le Pen, alla destra americana di Trump e Bannon, senza trascurare i contatti con le formazioni neofasciste italiane ed i movimenti cattolici tradizionalisti, in aperto contrasto con papa Francesco.

Resta dunque il nodo di fondo che già Giovanni Amendola nella discussione sulla legge elettorale condotta all’Assemblea Costituente aveva indicato: “È evidente che una democrazia deve riuscire ad avere una sua stabilità se vuole governare e realizzare il suo programma; ma non è possibile ricercare questa stabilità in accorgimenti legislativi... Oggi la disciplina, la stabilità è data dalla coscienza politica, affidata all'azione dei partiti politici"[1]. Tale coscienza politica è la consapevolezza della responsabilità di ciascun partito nei confronti dei cittadini. Ma è anche la responsabilità di ciascun cittadino rispetto al sistema democratico ed al suo futuro, la responsabilità personale rispetto alla casa comune. Una responsabilità che riguarda anche le forme associate, quei ‘corpi intermedi’, civili e religiosi, che tanta parte hanno avuto nella costruzione della democrazia italiana[2]. Aldilà degli appelli, concretamente c’è da chiedersi chi starà in mezzo ai cittadini, chi li aiuterà in questo non facile (e rapidissimo) percorso di partecipazione responsabile verso le prossime elezioni? Parafrasando l’invocazione biblica: “In chi pone la fiducia il mio popolo?” “E chi ha cura del mio popolo?”




[2]  Cfr. a es. l’intervista di M.Muolo al presidente dell’ACI, Giuseppe  Notarstefano “Per una politica coniugata al futuro”, dello scorso 24 luglio v. https://azionecattolica.it/politica-coniugata-al-futuro. Nella stessa prospettiva gi interventi del card. Zuppi, presidente della CEI.