Alcune riflessioni sulla “autonomia differenziata” con riferimento alle ricadute sul “sistema integrato di interventi e servizi sociali”

Mercoledì, 11 Settembre, 2024
Mi permetto di intervenire sulla questione “autonomia differenziata” prendendolo dal punto di vista di chi,
come me, opera nel sistema delle politiche sociali riportando esperienze personali e professionali vissute in
questi anni.
 
La creazione di un sistema nazionale
 
La legge 328 del 2000 istituiva per la prima volta in Italia, a trent’anni dall’approvazione della riforma
sanitaria, un “sistema nazionale integrato di interventi e servizi sociali” a carattere universalista con
l’obiettivo di garantire a tutti i cittadini i livelli essenziali di Prestazioni Sociali (leps) evitando in tal modo
discriminazioni o diseguaglianze nell’accesso ai servizi e alle prestazioni. A tale scopo prevedeva un sistema
nazionale di finanziamento delle politiche sociali e una serie di servizi da finanziare con i fondi messi a
disposizione dalla legge definiti ed elencati come Livelli Essenziali delle Prestazioni (Leps) erogabili sotto
forma di beni e servizi secondo le caratteristiche ed i requisiti fissati però dalla pianificazione nazionale,
regionale e zonale. Ad integrazione e completamento di questi elementi venivano definite anche specifiche
competenze di carattere organizzativo attribuite al livello nazionale, al livello regionale e ai comuni
invitando questi ultimi ad aggregarsi in ambiti territoriali sociali intercomunali e ad individuare modalità e
strumenti per la gestione associata dei servizi.
 
Un sistema quindi in grado di garantire, da una parte un governo nazionale impegnato a garantire una
crescita omogenea del sistema sociale in tutte le regioni, ma dall’altra un’autonomia territoriale basata sui
livelli istituzionali locali (Comuni/ATS) in collaborazione con il complesso mondo dell’associazionismo
sociale e sindacale.
 
La riforma del Titolo V
 
L’anno successivo avveniva però un fatto che avrebbe messo in discussione il disegno istituzionale appena
descritto dalla legge 328/000 (e che c’entra con il tema dell’autonomia differenziata); si tratta della riforma
del Titolo V della seconda parte della Costituzione del 2001, figlia per altro di un lungo precedente lavoro di
decentramento amministrativo relizzatosi attraverso le numerose leggi Bassanini che agivano in stretto
collegamento con il dato Costituzionale, ma che avrebbero forse richiesto una maggiore attenzione rispetto
alla connotazione Costituzionale a forte “centratura periferica” di un “sistema Italia” tutt’altro che
federalista.
 
L’errore consisteva nel non aver fatto i conti con la legge 328/00 dell’anno precedente, con l’estrema
frammentazione di un sistema sociale gestito fino a quel momento dagli oltre 8 mila comuni italiani privi,
fino alla legge 328/2000, di un sistema nazionale e con la insufficiente definizione dei Livelli Essenziali
Sociali e dei relativi costi standard. Per questo forse poteva essere il caso di mantenere una connotazione
costituzionale “concorrente” e non “esclusiva” (o peggio “residuale”) al sistema sociale come era stato
previsto invece per il sistema sanitario e procedere nel frattempo con un rafforzamento organizzativo
territoriale che ancora ad oggi fatica a dare risultati decenti.
 
Le ricadute sul territorio negli anni successivi fino ad oggi sono state profondamente negative a causa della
mancanza di un adeguata governance nazionale in grado di garantire omogeneità ai sistemi regionali
attraverso percorsi di rafforzamento organizzativo territoriale in grado non solo di gestire i servizi in forma
associata intercomunale, ma anche di sostenere un piano di spesa delle oltre trenta fonti di finanziamento che
in maniera fortemente diversificata vengono trasferiti dal livello europeo (FSE plus e PN), dal Livello
nazionale e dalle stesse regioni agli Ambiti Sociali ormai costituitivi negli anni.
 
Alcuni dati
 
Le conseguenze sono state che ad oggi: Al Nord-est le risorse per il welfare territoriale (197 euro pro-capite)
sono ben al di sopra della media nazionale (142 euro) e quasi tre volte superiori rispetto al Sud (72 euro).
Riportate al livello di spesa pro-capite impegnata in media dai comuni nel corso di questi anni abbiamo la
seguente situazione (confronto nord-sud) (dati Istat sulla spesa sociale):
Nord:
Comuni del Piemonte: € 154,00; Comuni della Valle d’Aosta: € 231,00; Comuni provincia autonoma di
Trento: € 429; Comuni della Provincia autonoma di Bolzano: € 592,00; Comuni del Friuli Venezia Giulia: €
286.
Centro:
Comuni delle Marche: € 131,00; Comuni dell’Emilia Romagna: € 202; Comuni della Toscana: € 156;
Sud:
Comuni dell’Abruzzo: € 73; Comuni del Molise € 78; Comuni Campania € 66,00; Comuni Basilicata €
65,00; Comuni Calabria € 27,00; Comuni della Puglia: € 97
 
Pensiero conclusivo
 
Se una legge di riforma della Costituzione Italiana (quella del 2001) pur pensata in termini di rispetto della
Costituzione nei suoi specifici obiettivi di decentramento ancora incompleti e a conclusione di un processo
normativo condiviso con Comuni e Regioni (leggi Bassanini) ha creato importanti situazioni di
ineguaglianza nell’accesso dei cittadini italiani ai servizi e nel diritto alle prestazioni figuriamoci quali
potranno essere le conseguenze di una ipotesi di riforma basata sul principio: “considerato che al nord si
lavora di più che al sud è giusto che il ritorno della capacità produttiva dei cittadini ricada in termini di
servizi e di prestazioni più al nord che al sud” quale sembra essere quella “propagandata” dall’attuale
governo Meloni.