Milioni di persone spaventate per le ricadute negative della crisi economica ancora in atto. Che guardano con aperta ostilità chi arriva da altri paesi, in fuga dalla guerra o dalla miseria. Che rimpiangono il passato perché hanno paura del futuro. Possiamo raccontarli così i britannici affascinati dalle bugie populiste di Nigel Farage o Boris Johnson, i paladini del “Leave” al referendum dello scorso giugno, e dalle parole della premier May che da settimane promette un’uscita dalla Ue con utopiche ricadute positive sul piano della crescita. Sono i sudditi di Elisabetta pronti a applaudire pochi giorni fa i tabloid con in prima pagina la foto dei tre giudici dell’Alta Corte, che con una sentenza imponevano al governo un passaggio parlamentare su Brexit, e sopra l’immagine un titolo a caratteri di scatola: “Ecco i nemici del popolo”. Sempre May, al congresso tory di Birmingham di fine settembre, ha strappato un lunghissimo applauso quando ha detto: “E’ tempo di spiegare in maniera chiara ai nostri connazionali che se credono di essere cittadini del mondo sono cittadini di nessun luogo. Devono imparare a essere patrioti orgogliosi”. Un’idea che dovrebbe suonare come una bestemmia nell’isola dove ha preso forma e si è tradotto in pratica concreta da decenni un multiculturalismo capace di far convivere in maniera pacifica centinaia di etnie e di fedi.
La campagna elettorale che ha preceduto il voto di giugno ha visto il volto peggiore del populismo utilizzato senza risparmio da parte dei sostenitori del divorzio dall’Europa. Il “Leave” si è imposto grazie al consenso maggioritario ottenuto tra gli elettori più anziani e con un basso livello di istruzione, tra i disoccupati o i lavoratori precari, nelle zone rurali, in quelle ancora ferite dall’arresto dello sviluppo. Liberarsi dai vincoli dei trattati Ue, garantivano Farage e Johnson, avrebbe permesso di riconquistare il controllo pieno della frontiere. May lo ha ripetuto più volte da quando si è insediata a Downing Street, nonostante sia ben consapevole che non può chiedere di continuare a godere dei vantaggi del libero mercato continentale senza consentire la libera circolazione delle persone. Ma gli slogan di facile presa su questo tema hanno permesso ai conservatori di veder crescere il favore di cui godono nei sondaggi. In epoca di populismo trionfante ovunque le campagne a favore dei confini blindati pagano. Non è una sorpresa poiché da un’indagine dell’istituto Ipsos Mori è emerso che due terzi dei britannici sono persuasi che il numero degli immigrati dalla Ue abbia superato il quindici per cento della popolazione totale (è il cinque per cento), che il venticinque per cento dei rifugiati politici provenienti dall’intero pianeta venga accolto nel Regno Unito (il dato vero è inferiore al due per cento) e che agli stessi rifugiati il governo offra un contributo settimanale per le loro spese di centocinquanta sterline invece delle trentasei che sono versate. Di fronte a questa confusione non meraviglia che un’altissima percentuale degli intervistati per l’indagine si dica favorevole a “chiudere le frontiere una volta per tutte” e giudichi le scelte degli esecutivi laburisti in questo ambito “troppo permissive”.
Difficile stupirsi se dopo mesi di comizi all’insegna della xenofobia dei leader politici di destra i crimini di origine razziale siano cresciuti in maniera esponenziale. In media del sessanta per cento su scala nazionale, con una punta del centoquaranta per cento nel Kent dove Nigel Farage ha il suo collegio alle europee: botte, agguati, incendi, ferite di coltello per gli islamici e gli inglesi di colore. La nostalgia del passato è l’altro aspetto del populismo che intossica il dibattito pubblico britannico. Su un nazionalismo d’altri tempi ha fatto poi leva il Sun, tabloid di proprietà di Rupert Murdoch con una tiratura di tre milioni di copie, per spingere i lettori verso un voto per l’uscita. L’intera prima pagina del quotidiano pochi giorni prima dell’apertura delle urne era occupata da un gioco di parole: “BeLeave in Britain” strillava il titolo a caratteri di scatola. Ovvero “Credete nella Gran Bretagna” con l’opzione dell’uscita (“Leave”, appunto) resa assai evidente grazie all’utilizzo dei colori della bandiera nazionale. In un editoriale si sosteneva che abbandonare la Ue avrebbe consentito “di riaffermare la sovranità che abbiamo purtroppo perduto, iniziare a costruire un futuro da potente nazione indipendente che sarà invidiata da tutti e rispettata ovunque”. Lo stesso Sun si era segnalato lo scorso anno fa per un altro titolo di analogo tenore non appena Farage, leader degli eurofobici dell’Ukip, aveva cominciato a chiedere a David Cameron un referendum nelle interviste e in tv durante la campagna elettorale per le politiche. Sotto lo slogan “Salviamo il paese”, con una grande Union Jack sventolante sullo sfondo, ecco cosa gridava il Sun: “1588: ci siamo sbarazzati degli spagnoli. 1805: ci siamo sbarazzati dei francesi. 1945: ci siamo sbarazzati dei tedeschi. 2016: con un referendum libereremo la Gran Bretagna dall’Europa”. Boris Johnson, dal canto suo, si era spinto ad affermare che “già Napoleone e Hitler avevano tentato di unificare l’Europa con risultati tragici, gli stessi che stiamo purtroppo sperimentando oggi”. Theresa May, dal canto suo, negli ultimi giorni ha tentato di accreditare la ripresa della “relazione speciale” con Washington dopo l’elezione di Trump, nonostante dal neoeletto con sia venuto alcun segnale in tal senso ma solo un generico invito a una visita in data non precisata.
Anche Jeremy Corbyn, leader del Labour, usa il populismo. Ma si tratta di un populismo vecchio, con parole d’ordine che riemergono dagli anni Ottanta o Novanta, quando i programmi del partito venivano definiti “i più lunghi biglietti suicidi della storia”. Come giudicare se non irrimediabilmente datati gli impegni a rinazionalizzare le azienda privatizzate da Margaret Thatcher? O a bandire i missili nucleari dal territorio del Regno Unito e a donare a spese del governo un pezzo di terra da coltivare a ogni famiglia, “in modo che ciascuno abbia la possibilità per sé e per la famiglia di piantare patate e pomodori”? Con queste priorità il Labour è condannato a una lunga opposizione. Secondo le ultime rilevazioni, in caso di elezioni anticipate i conservatori avrebbero poco meno di quattrocento seggi a Westminster e il Labour appena centosettanta, tra i peggiori risultati della storia ultracentenaria del partito. Nel Regno Unito è il populismo di destra a trionfare, il consenso per May resterà alto sino a quando gli elettori non si troveranno ad affrontare le ricadute negative dell’uscita dall’Europa. Senza che possano essere messi al riparo dalla improbabile ripresa della “relazione speciale” con l’America a guida repubblicana.