Il cosiddetto “Governo del cambiamento” si sta imponendo come espressione di cinismo politico. La gestione completamente irresponsabile del più importante atto politico che il governo è chiamato ad elaborare ogni anno, cioè la legge di stabilità, è stata piegata alla raccolta del consenso a breve, a tutti i costi, un orizzonte che non ha come obiettivo il futuro del Paese e le riforme necessarie, ma le elezioni di domani.
Non importa se le risorse non ci sono per coprire le modifiche pensionistiche. Non importa se per avviare un efficace reddito di cittadinanza occorrerebbero, oltre alle risorse finanziarie, anche quelle strutturali come i centri di impiego adeguatamente riformati e rafforzati e persone formate per gestirli. Non importa se si restituiscono i soldi ai truffati dalle banche facendoli pagare agli altri cittadini creando debito. Non importa: “l’abbiamo promesso”, ci si giustifica. Ritorna così, prepotente, il peggio dell’Italia cialtrona come quella della campagna di Russia: non importa se i soldati sono mal equipaggiati e peggio riforniti. Non importa se sarà una carneficina. Non importa.
Dietro il rispetto delle promesse purtroppo non vi è altro che il deterioramento della coscienza politica del paese che, sofferente ma disillusa dal passato, confluisce come un’enorme fiumana verso i nuovi pifferai. Se infatti le forze della maggioranza non hanno scrupolo a trascinare le istituzioni della Repubblica in un gioco di puro potere dettato dall’idolatria del consenso, è forse ancor più significativo l’atteggiamento della maggioranza dei nostri concittadini, che non solo confermano ma accrescono il loro favore verso il governo di 5 Stelle e Lega.
Tutto questo è il frutto di un cambio d’epoca radicale, di una mutazione genetica della società e dell’economia, rispetto alla quale si misurano in modo drammatico i limiti di una politica che non ha saputo continuare a pensare la realtà, ma ha preferito inseguirla nella incapacità di darle gerarchie di valori credibili e di risposte efficaci. Troppe volte autoreferente, saccente. In un mondo in cui la rivoluzione comunicativa ha mutato i criteri con cui si riconosce l’autorevolezza di un interlocutore e più ancora la verità di una rappresentazione della realtà, la politica non ha avuto la forza di rifondare la nozione di democrazia rappresentativa e gli strumenti di partecipazione al governo della cosa pubblica. La crisi del centro sinistra e del PD in Italia, è il riflesso più evidente di questa fatica culturale della classe politica, che negli ultimi anni si sta allargando anche ai grandi partiti conservatori, come quelli che fanno parte della famiglia Popolare in Europa o come il Partito Repubblicano negli Stati Uniti, sempre più “tentati” da opzioni estreme e illiberali.
Aver scelto di rispondere a tutto questo con lo strumento della guida forte, con la logica del “capo”, ha aggravato la fragilità del sistema politico, perché ha impoverito i processi di dialettica democratica attraverso cui si forma la coscienza politica con cui si compiono le scelte fondamentali e perché si sono progressivamente deresponsabilizzate le strutture sociali, le forme di rappresentanza diffusa e tutto il corpo politico, fino ai singoli cittadini. Si è affermata l’idea che la leadership non è la capacità di guidare un gruppo ed in senso più ampio un paese attraverso il gioco di squadra, la capacità di ascolto e di sintesi, quanto solo l’investitura del “capo”, espressione di un “sì” o un “no” dove non occorre mediazione perché non serve riflessione, ma conta far vincere il proprio interesse particolare rispetto alla fatica di costruire assieme un interesse superiore e comune, da democrazia evoluta. Lo stesso concetto di partito va rivisitato alla luce della costituzione e va detto che, se la politica vuole tornare ad essere protagonista e non subordinata alla finanza o ad interessi economici, occorre ripensare le forme del finanziamento dei partiti motivando il sostegno della collettività e rendendo conto in modo trasparente.
Nella società sono riconoscibili anche fermenti nuovi che presentano aspetti positivi. Vorremmo condividere la nostra elaborazione con quanti vogliono fare un pezzo di strada insieme in ragione di ideali e obiettivi comuni, senza pretesa di egemonia o strumentalità. Vogliamo contribuire ad abbassare la montagna dell’indifferenza, della crescente diseguaglianza sociale, che si è accumulata in questi anni. L’abbattimento delle diseguaglianze non può essere perseguito con le politiche dei condoni fiscali o immobiliari, che premiano un’Italietta furba ma senza futuro, così come non può passare attraverso flat tax che premiano solo i più ricchi, spingendo la società verso progressive privatizzazioni, dalla sanità ai servizi sociali. Nel sovranismo c’è solo il baratro del passato!
Crediamo che alla preoccupazione che questo scenario comprensibilmente solleva, la risposta non possa essere la paura. Chi oggi, coscientemente, sceglie questa strada guadagna forse nelle percentuali elettorali del momento ma condanna il paese ad essere vittima di timori destinati ad auto avverarsi. Piuttosto, la “crisi”, il cambiamento storico che viviamo, in tutte queste forme diverse, rappresenta un insieme di segni del nostro tempo storico che apre possibilità nuove, dischiude un orizzonte di speranza.
Vogliamo qui ringraziare il presidente Mattarella, per l’impegno a garanzia delle istituzioni e del bene comune, per la costante e vigile testimonianza dei valori della democrazia e del senso di comunità sociale. A lui esprimiamo la nostra più viva solidarietà: grazie presidente.
E’ possibile, dunque, individuare una strada che ci faccia uscire da questa deriva populista. Pensiamo che occorra partire dalle persone reali, senza farsi schiacciare dal contingente, avendo in mente un nuovo parametro economico e sociale, coltivando il progetto di un’Italia nuova che va costruita.
Pensiamo che l’Italia abbia solo nell’Europa la possibilità di un futuro positivo: un’Unione Europea che riscopra i motivi che l’hanno fatta nascere e riprenda la lunga marcia verso gli Stati Uniti d’Europa.
Pensiamo che il tema delle migrazioni, come gli ultimi episodi in Sud America dimostrano, non sia un tema affrontabile da un solo stato: nemmeno gli Stati Uniti possono pensare di fare da sé. Perché da sé ci si può solo mettere l’elmetto e trincerarsi dietro il filo spinato, Ma il problema resta in tutta la sua drammaticità.
Molte volte si è parlato di nuovo Piano Marshall o di “new deal globale” (Kofi Annan). L’Occidente non è certo la causa di tutte le povertà del mondo, ma di sicuro ha una responsabilità rispetto a ciò che accade e dunque non può e non deve girare la testa da un’altra parte. È ormai urgente che l’Unione Europea prenda la guida di un intervento di investimenti europei che veda nell’Africa un suo riferimento privilegiato e che crei un’istituzione che li promuova, li governi in partnership con gli stati africani e ne controlli la destinazione, l’efficienza e l’efficacia.
Non si tratta di imporre a questo nostro tempo un nuovo ordine, ma di scoprire quella novità che arriva nella realtà stessa: perché la speculazione che oggi il lavoro subisce in tante forme racconta anche il bisogno di dare all’economia la sua anima più profonda e cioè la dignità della persona; perché la tragedia dei migranti che fuggono dalla guerra e da una povertà scandalosa dice anche l’inevitabilità di ripensare i rapporti fra i popoli sotto il segno dei diritti; perché la retorica diffusa di un’Europa matrigna cela l’esigenza di una Unione pienamente democratica e per questo autorevole strumento di costruzione della pace.
Crediamo che queste forze e queste tensioni siano già vive nel nostro tempo e nella nostra società italiana e che sia compito della politica riconoscerle, dar loro voce e ordinarle perché contribuiscano a far nascere quel mondo di domani i cui semi sono già nell’oggi. Questo il senso della Costituente delle idee, che sceglie di accettare la realtà e di non averne paura, perché è nella realtà pur contraddittoria di oggi che vive già il nostro domani.
Roma, 27 ottobre 2018