Franco Marini era un tipico figlio di quella generazione di giovani cattolici cresciuti negli anni del dopoguerra e della difficile ricostruzione , che trovavano nell’Azione cattolica e nelle ACLI il loro spazio formativo e nella Democrazia cristiana il loro orizzonte politico.
In particolare, Marini veniva da una realtà marginale e largamente sottosviluppata come quella abruzzese, che lo rendeva naturalmente sensibile alle sofferenze e ai bisogni dei ceti sociali più bassi. Laureato in legge con mille sacrifici suoi e della sua famiglia, ebbe modo di collaborare con Giulio Pastore, il fondatore della CISL, già diventato Ministro, e incominciò a muovere i primi passi nella vita sindacale.
Cresciuto rapidamente nella considerazione dei suoi colleghi, Marini assunse sempre maggiori responsabilità nella Federazione dei pubblici dipendenti , di cui divenne Segretario generale all’inizio degli anni Settanta, per poi assumere responsabilità a livello confederale giungendo ad essere il numero due della Segreteria accanto a Pierre Carniti.
Nella CISL Marini era il naturale referente del gruppo di sindacalisti che era più vicino alla tradizionale appartenenza alla DC – a cui Marini fu sempre iscritto collocandosi “naturalmente” nella componente di Forze Nuove accanto a Carlo Donat Cattin- anche se aveva manifestato la sua lealtà agli orientamenti prevalenti nella Confederazione dissociandosi dalla componente antiunitaria guidata da Vito Scalia, che pure era stato per lungo tempo il suo referente in Segreteria confederale.
Il suo approdo al ruolo di Segretario generale dopo il ritiro di Carniti rappresentò di fatto l’archiviazione della stagione della “sinistra CISL” basata sulla prevalenza dei dirigenti che provenivano dal settore metalmeccanico e un ritorno su posizioni tradizionali, che tuttavia non escludevano la ricerca di una forma di nuova unità con CGILe UIL all’indomani della pesante rottura determinata dal Decreto di San Valentino sulla scala mobile e dal successivo referendum voluto e perso dal PCI.
Nel 1991, alla morte di Donat Cattin, Giulio Andreotti, che stava formando il suo settimo ed ultimo Governo, chiese a Marini di lasciare il sindacato e approdare alla vita istituzionale come Ministro del Lavoro: l’anno successivo il “lupo marsicano”, come veniva definito negli ambienti cislini, entrò in Parlamento ed assunse un ruolo sempre più rilevante nella DC scossa dalle vicende di Tangentopoli e prossima, sotto la guida di Mino Martinazzoli, a tentare la carta della rifondazione del Partito popolare italiano. Marini in quella circostanza ebbe il ruolo complicato di guidare ciò che rimaneva dell’organizzazione di un partito scosso da spinte centrifughe sempre più forti. Al primo Congresso, svoltosi dopo le disastrose elezioni del 1994, egli diede fiducia a Rocco Buttiglione, revocandogliela qualche mese dopo quando il Segretario si alleò inopinatamente con la destra berlusconiana e post fascista.
Insieme a Giovanni Bianchi, Gerardo Bianco ed altri Marini fu decisivo per il posizionamento del PPI sul versante del centrosinistra partecipando alla costituzione dell’ Ulivo sotto la guida di Romano Prodi, e fu sostenitore critico del primo Governo guidato dal Professore reggiano anche dopo la sua elezione a Segretario del Partito nel gennaio 1997. La caduta del Governo Prodi, l’avvento a Palazzo Chigi di Massimo D’Alema, il tentativo neocentrista di Francesco Cossiga resero tormentata la gestione mariniana del PD, e lui stesso, dopo la clamorosa sconfitta elettorale alle elezioni europee del 1999 favorì il ricambio alla guida del partito favorendo l’elezione alla Segreteria di Pierluigi Castagnetti.
Successivamente Marini si dichiarò a favore della confluenza del PD nella Margherita accanto a soggetti politici non provenienti dall’area popolare e cattolico democratica, ricordando, in un memorabile intervento congressuale, che la CISL stessa era nata dalla confluenza fra filoni sindacali diversi uniti dalla volontà di dar vita ad un sindacato libero, riformista, aconfessionale.
Eletto alla presidenza del Senato nel 2006 dopo una serie di votazioni contrastate, presiedette con autorevolezza l’assemblea di Palazzo Madama in un contesto difficile visti gli scarsi numeri di cui godeva il secondo Governo Prodi, che infatti proprio al Senato cadde nel gennaio 2008 aprendo la strada ad elezioni anticipate. Contemporaneamente partecipò con grande convinzione alla fondazione del Partito Democratico .
Nel 2013, in seguito ad un accordo fra Bersani e Berlusconi, fu il candidato di PD e Forza Italia alla presidenza della Repubblica, ma una serie di incertezze, di veti incrociati e di incapacità gestionali resero impossibile la sua elezione, anche per l’eccessiva permeabilità di alcuni parlamentari alle suggestioni che venivano dai social media, scambiati per la voce del popolo.
Marini accettò con molta dignità quello sgarbo, e da allora si distaccç progressivamente dalla politica attiva mantenendo una vigile attenzione ai cambiamenti in corso e non lesinando il suo consiglio agli amici che ne facevano richiesta.
Ora che il suo viaggio terreno si è compiuto è giusto ricordarlo come l’esponente di una generazione credenti che ha dato il suo contributo alla crescita dei valori della democrazia e della giustizia sociale lavorando fattivamente in quegli indispensabili strumenti di partecipazione sociale che sono i sindacati ed i partiti.
di Lorenzo Gaiani