La recente pubblicazione del Rapporto Italiani nel Mondo 2016, della Fondazione Migrantes, ha sollevato commenti preoccupati da parte dei decisori politici del nostro Paese ed articoli nei quali si esaminano i numeri dell’emigrazione italiana nel 2015, che si attesta a 107.529 unità. Ben pochi hanno provato ad analizzare le cause vicine e lontane che portano a questo flusso migratorio, con un impatto negativo sull’Italia che la Fondazione Migrantes sottolinea bene, il cosiddetto brain exchange, cioè l’incapacità di trattenere i talenti ma anche di attrarli, in un flusso che deve essere bidirezionale, per realizzare un brain circulation, cioè unavalorizzazione dei soggetti talentuosi che dovrebbero essere coinvolti in questo flusso bidirezionale.La conseguenza è l‘impoverimento della forza lavoro talentuosa del nostro Paese.
Dai dati raccolti risulta che la fascia anagrafica compresa tra i 18 ed i 34 anni è quella più soggetta all'emigrazione, arrivando a comprendere oltre un terzo degli italiani residenti all'estero, a cui segue la fascia anagrafica compresa tra i 35 ed i 49 anni. Quindi, insieme, queste due fasce anagrafiche costituiscono la metà degli italiani che si sono trasferiti all’estero nel 2015. Negli ultimi 10 anni, la mobilità italiana è aumentata del 54,9%, nel 2015 il 3,7% in più del 2014, portando la quota degli italiani residenti all'estero a 4.811.163 (questo significa che poco più di un italiano su 12 è emigrato), mentre negli ultimi cinque anni diminuisce anche la percentuale di quegli italiani che decidono di fare ritorno nel nostro Paese. Circa il 50% degli italiani che emigrano provengono dal Sud, ma ci sono gli emblematici casi della Lombardia e del Veneto che sono le principali regioni dalle quali si emigra. Tra le destinazioni scelte dagli italiani prevalgono Germania e Regno Unito, seguite dalla Svizzera, dalla Francia e dal Brasile.
I motivi sono senz’altro svariati, complessi, spesso interrelati e non si ha certo la pretesa di affrontarli tutti e pienamente in questo articolo. Indubbiamente, però, il tema ricorrente è che quanti emigrano lo fanno perchè non c’è lavoro, ma è una interpretazione semplicistica che non considera la realtà delle condizioni lavorative del nostro Paese, così come quelle sociali e culturali. Innazitutto, il lavoro in Italia c’è, però molti di coloro che lo offrono vogliono pagarlo il meno possibile, pagarlo a nero o non pagarlo affatto. Sicuramente la tassazione elevata è un problema, ma non è l’unica causa. L’approccio è innazitutto culturale, laddove datori di lavoro miopi non pensano al benessere del proprio lavoratore, facendo sì che egli lavori dignitosamente, possibilmente sia felice e, quindi, più produttivo, ma desiderano solo pagare il meno possibile e intascare quanto più possibile.
Inutile sottolineare che l’evasione fiscale continua ad essere una piaga del nostro Paese, della quale tutti apparentemente si lamentano, ma che, quando si prova ad affrontarla, incontra molte resistenze. Si pensi alla limitazione all’uso del contante a favore di bancomat e carte di credito, che ha sempre sollevato audaci proteste da parte di svariati segmenti della società italiana, mentre all’estero è un fatto normale.
La differenza, poi, tra i diritti garantiti a chi ha un contratto indeterminato rispetto a chi subisce altre tipologie contrattuali è sconfortante. Per fare qualche esempio, si pensi alla difficoltà di ottenere un mutuo per l’acquisto di una casa, alla quantità delle garanzie richieste, alla discrezionalità nell’applicare anche la legge italiana che consentirebbe la garanzia dello Stato per gli under 35, i prezzi esorbitanti degli immobili per i quali manca una politica statale volta a calmierarli, mentre l’Italia è piena di edifici vuoti o abbandonati. Pensiamo ad aziende, anche grandi, che permettono l’accesso all’asilo aziendale (dove disponibile) solo ai figli dei dipendenti a tempo indeterminato, laddove non si spiega, dal punto di vista dei diritti fondamentali, una differenza di trattamento con chi ha un contratto a tempo determinato.
Altro problema atavico è quello della considerazione del merito e delle competenze. In Italia, sia nel pubblico che nel privato, vi sono persone che non sono in grado di svolgere il lavoro al quale sono stati assegnati per i motivi più svariati, persone che non possono essere rimosse, affiancate da lavoratori volenterosi e competenti che spesso si sobbarcano il lavoro di altri e vivono con frustrazione il contesto lavorativo nel quale sono calati, decidendo talvolta di abbandonarlo sperando in una migliore realizzazione all’estero.
Inoltre, mancano una vera cultura del lavoro e percorsi di educazione alla laboriosità nella fase scolare e post-scolare. In Italia ci sono persone che non vogliono lavorare per bene, che fanno il minimo indispensabile, che si assentano dal posto di lavoro per malattia quando gioca la propria squadra del cuore, causando danni significativi alle rispettive aziende. Aziende che, c’è da dire, nel corso degli ultimi anni utilizzano forme di lavoro atipico che permettono risparmi nel breve periodo, ma che sviliscono l’essenza stessa del lavoro e del rapporto tra dipendente e proprietari. A questo si collega la questione della formazione lavorativa che un’azienda dovrebbe svolgere ad un neoassunto, mentre il Paese è pieno di stagisti che lavorano gratis per mesi, persino nelle profumerie. Questo dramma coinvolge anche grandi aziende e marchi del lusso, che talvolta hanno la sfrontatezza di pagare i propri stagisti con un semplice buono pasto.
Chi lascia l’Italia lo fa perchè ricerca una vita nel complesso migliore, perchè desidera un equilibrio tra lavoro, famiglia e tempo libero. Chi parte spesso non si accontenta più di trascorrere i pomeriggi seduti al solito bar, è stanco di trascorrere ore in mezzi pubblici inefficienti, è stanco di avere una sanitò che non funziona. Chi lascia l’Italia lo fa perchè vuole mettere su famiglia, fare dei figli e prospettargli un futuro migliore di quelo che si pensa avrebbero qui. Un fantomatico Fertility Day serve a poco perchè, oltre a svilire il ruolo della donna nella società, vista ancora come uno strumento per sviluppare la nostra specie, non è inserito in un contesto favorevole alla famiglia: mancano sufficienti asili nido pubblici o aziendali, scuole buone oltre che belle, equi permessi parentali, continua la pratica delle lettere di licenziamento in bianco (che impedisce alle donne di fare dei figli quando vorrebbero), possibilità reale di chiedere il part-time, rispetto degli orari di lavoro e, perchè no, riduzione dell’orario di lavoro (è risaputo che dopo le 14.00 la produttività dei lavoratori cala fisiologicamente), rispetto dei giorni di festa nei quali tutta una comunità si riposa e si incontra per stare assieme.
Ovviamente, all’estero non sono tutte rose e fiori. I talenti degli italiani che lavorano all’estero sono intellettuali e manuali. Il rapporto con i datori di lavoro è anche lì talvolta problematico e, spesso, chi ha un datore di lavoro italiano all’estero (e magari non parla la lingua del paese di accoglienza) è sfruttato come o peggio che in Italia, con lavoro nero, forme contrattuali non rispettate, ecc. Talvolta i lavoratori italiani (così come quelli di altre nazionalità) vengono visti dai lavoratori dei paesi ospitanti come coloro che rubano il lavoro ai nativi. Talvolta il perosnale dei centri per l’impiego si ostina a parlare nella propria lingua nazionale pur sapendo che l’emigrato non la parla. Talvolta il livello dell’istruzione e della sanità è inferiore dal punto di vista del personale, ma migliore dal punto di vista tecnico ed infrastrutturale.
Quindi, guardando in modo realistico alla situazione economico-sociale del nostro paese, ed avendo qui solo accennato ad alcuni fattori, forse quei 107.529 espatriati non sono poi tanti. Molti di più, soprattutto giovani, potrebbero pensare di lasciare l’Italia se nel nostro Paese non ci sarà una decisa sterzata verso meritocrazia e diritti.