Una nuova cultura politica per superare le fragilità

Martedì, 23 Settembre, 2025

Intervista a Ernesto Maria Ruffini a cura di E. Preziosi

Continuano le “Interviste di Argomenti”, con l’intento di offrire elementi di valutazione di quanto si muove nel panorama politico specie in riferimento alla presenza dei cattolici. Qui di seguito l’intervista a Ernesto Maria Ruffini, già direttore dell’Agenzia delle Entrate, promotore del progetto politico “Più Uno” che dà anche il titolo al suo ultimo libro Più uno. La politica dell'uguaglianza, Feltrinelli, 2025.

1) Il cambiamento in atto mette in evidenza la crisi profonda che attraversa l’Occidente, in Europa come in America, è un passaggio d’epoca che richiede una risposta in termini di idee, di valori, di strategie…anche per affrontare l’insorgere di una destra populista e nazionalista che coinvolge parti sempre più consistenti della società. Quali le caratteristiche di questa crisi rilevabili nel contesto italiano e quali antidoti possono essere messi in campo?

Viviamo in un tempo di transizione così profondo da scavare nel cuore stesso dell’identità delle democrazie occidentali. Un’epoca che vacilla non tanto per la fragilità delle sue istituzioni, quanto per la corrosione silenziosa delle sue promesse. Libertà, uguaglianza, fraternità: parole che un tempo facevano tremare i troni e oggi rischiano di sbiadire come slogan pubblicitari.

In Italia questa crisi ha un volto preciso. È il volto dell’apatia elettorale, dell’abbandono delle urne da parte di milioni di cittadini che non si sentono più rappresentati da nessuno. È la voce rotta del Sud dimenticato, dei giovani precari, delle famiglie che non arrivano a fine mese. È l’ombra lunga delle disuguaglianze crescenti, della scuola pubblica smantellata pezzo dopo pezzo, del lavoro che non emancipa, ma intrappola. È lo sfilacciamento del legame sociale, l’assottigliarsi della partecipazione, la solitudine che diventa sistema.

E in questo vuoto si infiltra la destra nazionalista e populista, con la sua retorica semplice e il suo impasto velenoso di identitarismo e rancore. Una destra che non propone soluzioni, ma colpevoli. Che non cerca di unire, ma di dividere. Che non sogna un’Italia più giusta, ma un’Italia più chiusa, più impaurita, più piccola.

È necessario ripartire da un nuovo lessico della speranza, da una nuova grammatica dell’uguaglianza per ricostruire la partecipazione. Non si può combattere la deriva populista solo nei talk show o nei palazzi. La risposta è nel coraggio di tornare ad ascoltare le persone, dando fiducia a chi si rimbocca le maniche. Bisogna sostenere una nuova generazione civica.

È urgente un progetto radicale di democrazia, che non si accontenti di difendere le forme, ma rilanci la sostanza in modo trasparente, per andare incontro a un futuro con più diritti, più giustizia fiscale, più ambiente, più pace.

Per questo serva un’alleanza larga e plurale tra chi crede ancora che la politica possa essere lo spazio in cui si trasforma la realtà, non in cui la si subisce. Un campo che non sia la grigia somma di sigle, ma un intreccio di visioni.

La sfida non è più rinviabile. Non sarà sufficiente opporsi, bisogna proporre. Non è tempo di attese prudenti, è tempo di parole chiare, di gesti coraggiosi, di comunità che si stringono attorno all’idea che un’altra Italia è possibile. Ma va costruita, giorno per giorno, scelta dopo scelta. Insieme.

 

2) Sono in atto cambiamenti che incidono nella situazione geopolitica che ci è stata consegnata con l’ultimo dopoguerra e con la guerra fredda: il mondo sembra avviarsi verso il dominio di tre autocrazie (America, Russia, Cina) con l’aggiunta di qualche Paese che può vantare un potere economico militare, quale futuro vede per l’Europa che oggi pare essere ai margini di questa scena?

In questo tempo così fragile, segnato dal risveglio delle autocrazie e dal ritorno della potenza come criterio di relazione tra gli Stati, l’Europa sembra smarrita. Più che ai margini della scena, l’Europa appare ai margini di sé stessa. Non è la geopolitica a tenerla lontana dal cuore degli equilibri globali, ma è la sua incertezza identitaria, la sua esitazione nel darsi un ruolo storico, una voce unitaria, una visione.

L’Europa ha saputo essere patria del diritto, laboratorio della pace, spazio di giustizia sociale. Ha imparato la democrazia nel dolore e nella ricostruzione, ha messo al centro la persona, ha fatto della cooperazione una forma alta di politica. Ma oggi tutto questo rischia di essere archiviato come un’eccezione e non più un fondamento.

Lo scenario attuale disegna un nuovo equilibrio mondiale che si struttura non attorno a valori condivisi, ma a sfere d’influenza e a strategie muscolari. L’America si ripiega su sé stessa, tra un multilateralismo sbandato e un nazionalismo che riaffiora. La Russia agisce con la logica imperiale della forza. La Cina si propone come potenza sistemica, senza condividere le basi poste a fondamento delle liberaldemocrazie. In tutto questo, dov’è l’Europa?

Per essere all’altezza della sfida, l’Europa deve rinunciare al ruolo di potenza stanca. Non può essere solo un mercato, né una moneta, né un’unione doganale. L’Europa sarà una comunità di destino, oppure sarà irrilevante. Dovrà pensarsi come potenza democratica, portatrice di un’idea alta di giustizia, pace e libertà. Dovrà parlare con una sola voce, darsi una politica estera comune, investire in cultura, in educazione, in difesa integrata. Dovrà imparare a essere presente dove si decidono le regole e non solo dove si contano i danni.

Se saprà tornare alla lezione dei padri fondatori e nei sogni di intere generazioni di europei, allora la sua marginalità sarà solo apparente. Se saprà farsi avanguardia morale e politica, sarà il laboratorio di un nuovo ordine mondiale fondato sul diritto, non sulla forza.

Ma se continuerà a farsi attraversare da egoismi nazionali, da veti incrociati, da interessi di breve periodo, allora non sarà più nemmeno un soggetto della storia. Sarà solo un luogo geografico tra altri.

L’Europa è chiamata oggi a decidere se vuole essere potenza o provincia. Comunità politica o aggregato tecnico. Futuro o passato.

 

Il Novecento ha costruito l’Europa con il cemento delle rovine. E l’Europa, nata dalla cenere della guerra, si è pensata come promessa di pace, come garanzia di benessere e libertà. Ma oggi quella promessa appare logora. Sbiadita. Sfilacciata. Non perché sia sbagliata, ma perché è rimasta incompiuta.

L’egemonia globale si sta ricostruendo attorno a nuove polarità. Non solo geopolitiche ma valoriali. Da un lato, autocrazie efficienti e spietate che rivendicano un ordine senza libertà; dall’altro, un'America più chiusa, più selettiva, più instabile. In questo scenario, l’Europa rischia di essere il vaso fragile tra giganti d’acciaio. Ma attenzione: fragile non vuol dire inutile. Fragile vuol dire umano.

L’Europa che serve oggi non è una potenza nel senso classico, ma una coscienza collettiva. Non ha il compito di imitare le autocrazie, ma di costruire un'alternativa etica al loro modello. Un continente che torna ad essere laboratorio di diritti, di pace, di cittadinanza attiva. Che non lascia nessuno indietro. Che crede ancora nella libertà come bene pubblico e nella giustizia come dovere collettivo.

Perché l’Europa può perdere tutto, tranne la sua anima. E la sua anima non è nella finanza, ma nella cultura; non nei trattati commerciali, ma nei diritti; non nei vertici blindati, ma nelle piazze aperte. È l’unico spazio al mondo dove la politica può ancora essere compassione attiva. L’unico dove un giovane può ancora pensare di cambiare le cose senza doversi arrendere all’individualismo feroce.

Il futuro dell’Europa non è nei numeri, ma nelle scelte. E non può accontentarsi di stare in equilibrio tra potenze che giocano con la paura. Deve ritrovare il coraggio di essere progetto e visione, custode della memoria e insieme seminatrice di futuro.

Perché, in fondo, il nostro compito è quello di ricordare che si può costruire un mondo diverso. E se l’Europa si riscopre custode di questa possibilità, allora non sarà ai margini, ma di nuovo al centro.

 

3) La crisi in atto porta ad un aumento delle diseguaglianze. Lei ha una importante esperienza in settori economici vitali per lo stato come il sistema fiscale. Nel suo libro lei sottolinea che "decidere come trovare le risorse e specialmente come destinarle" non è solo un fatto tecnico, ma soprattutto politico. Secondo lei che cosa si dovrebbe fare su entrambi i versanti per rendere più equo ed efficiente il sistema italiano?

Vede, parlare di giustizia fiscale non significa entrare in un labirinto tecnico di aliquote e codici. Significa parlare del volto etico di una Repubblica. Perché la fiscalità è la cartina di tornasole di un patto di cittadinanza.

Oggi in Italia questo patto è lacerato. Le disuguaglianze crescono, e non solo nel reddito, ma nell'accesso alla salute, all’istruzione, alle opportunità. E se la fiscalità non redistribuisce, se non protegge i più fragili e non ha il coraggio di chiedere e ottenere a a chi ha di più, allora non è più uno strumento di coesione, ma diventa complice della frattura sociale.

Serve dunque una riforma vera, coraggiosa, politica nel senso più nobile: che rimetta al centro due parole bandite da decenni di tecnocrazia miope — uguaglianza e giustizia.

Sul versante delle entrate, occorre continuare con coraggio sulla strada del contrasto all’evasione, senza tentennamenti o strizzatine d’occhio a qualche categoria di contribuenti. È necessario continuare a investire in strumenti operativi, nell’interoperabilità tra banche dati  e nei controlli reali. È necessario rendere effettivo il criterio di progressività del sistema tributario come chiede la Costituzione. Ed è urgente rendere trasparente e comprensibile il sistema: il cittadino deve sapere come, quanto e perché paga. L’opacità genera diffidenza, la chiarezza rafforza la fiducia.

Ma non tutto si gioca solamente sul piano delle entrate. Sul versante delle uscite, bisogna orientare la spesa pubblica a ciò che costruisce futuro: sanità pubblica, scuola, transizione ecologica, diritti sociali. Occorre colpire gli sprechi non con tagli lineari, ma distinguendo tra ciò che serve e ciò che serve solo a mantenere rendite parassitarie. Ed è urgente restituire dignità e autorevolezza allo Stato nel suo compito primario: proteggere i deboli, non servire i potenti.

Perché o lo Stato torna a essere alleato dei cittadini onesti, o il cinismo continuerà a divorarci. E allora, la sfida non è tecnica: è tutta politica. Politica, appunto, nel senso di scelta collettiva sul Paese che vogliamo diventare.

 

4) Se diamo uno sguardo agli ultimi decenni della nostra storia che cosa è venuto meno nella società e nella politica? Perché i vari passaggi politici, pur diversi tra loro (la stagione ulivista, il bipolarismo, la crisi interna ai partiti, ecc.), non sono stati in grado di contrastare questa deriva?

Negli ultimi decenni, ciò che più è venuto meno — nella politica come nella società — è il filo rosso dell’ideale. Quella tensione verso il bene comune che non si accontenta dell’amministrazione dell’esistente, ma prova a trasformarlo, a sollevarlo, a renderlo più giusto.

È venuto meno il senso profondo di comunità, l’importanza di un noi più grande dei nostri piccoli io. Siamo passati da una politica pensata come servizio a una politica vissuta come mestiere, da una cittadinanza partecipe a un pubblico spettatore.

Sono mancate le fondamenta culturali. Si è creduto che bastasse la tecnica, il buon governo, la somma dei programmi. Ma senza un sogno collettivo non c’è democrazia viva. Senza un orizzonte, anche la migliore macchina si arena.

Abbiamo assistito a una crisi di rappresentanza ma, ancor prima, a una crisi di presenza: la politica ha smesso di abitare le periferie, le scuole, i luoghi del lavoro. Ha smesso di ascoltare. E così, mentre le élite discutevano di riforme istituzionali, di seconde e terze repubbliche, di premierato e sistemi elettorali, milioni di persone si sono sentite invisibili, escluse, abbandonate.

La stagione ulivista — che pure era nata da una visione larga, di ricomposizione e speranza — ha faticato a radicarsi. Il bipolarismo è degenerato in tifo e in slogan. I partiti, uno dopo l’altro, hanno smarrito la loro anima popolare. E dove non c’è radicamento, non c’è nemmeno resistenza al declino.

Ma non è tutto perduto. Occorre ritessere il tessuto democratico a partire dalle relazioni, dall’ascolto, dalla scuola, dalla cultura, dai luoghi dove ancora si costruisce comunità. E la politica — se vuole tornare a essere credibile — deve ricominciare con coraggio dall’umiltà e dal contatto con la vita vera.

 

5)  Nel suo volume “Piu uno, la politica dell’uguaglianza” lei nota come la democrazia sembri ridotta a “una ricerca continua di consenso immediato, quasi fosse un sondaggio perpetuo è tutto fosse limitato alla scelta tra leader contrapposti”, stante la crisi dei partiti che faticano a connettere le istituzioni e la società civile, quali modi nuovi possono essere messi in campo?

La democrazia, se la si guarda in profondità, non è solo un meccanismo per decidere chi governa. È un modo di essere, un’educazione collettiva alla cittadinanza. E oggi, in un’epoca in cui le opinioni scorrono come bolle d’aria nei social e le leadership si consumano in pochi mesi, abbiamo dimenticato la radice lenta e solida della politica: quella che nasce nei corpi intermedi, nelle reti sociali, nei legami territoriali.

La crisi dei partiti non è solo organizzativa. È prima di tutto una crisi di senso. I partiti hanno smesso di essere ponti tra il basso e l’alto, tra le speranze delle persone e le scelte istituzionali. Si sono trasformati, troppo spesso, in comitati elettorali senza radici, che si limitano a parlare a un pubblico, ma non più con una comunità.

Eppure, la risposta non può essere solo tecnica. Serve una rivoluzione delle relazioni, una politica che riparta dai luoghi, dalle persone, dai legami concreti. Occorre creare spazi nuovi di partecipazione, realmente permanenti e accessibili, dove le cittadine e i cittadini possano discutere, proporre, co-decidere. Luoghi dove la democrazia torni ad essere esercizio, non solo evento. Ma soprattutto serve una nuova cultura politica: quella che non si accontenta di raccogliere il consenso, ma ha il coraggio di seminare futuro.

La politica deve tornare ad essere scuola di visione e di responsabilità. E i partiti devono tornare ad essere strumenti, non fini. Case aperte, non fortezze chiuse. Comunità in cammino, non etichette da difendere.

Perché la democrazia non è il luogo dove vince il più bravo a parlare. È il tempo in cui si costruisce, insieme, un’idea di mondo possibile.

 

6) Ci si preoccupa della crisi della democrazia ma in crisi è la politica la sua capacità di elaborare e di coinvolgere. Nel suo volume lei scrive che  “in un epoca caratterizzata da incertezza e crisi sociale, è sempre più necessaria una politica che torni ad essere collettiva e partecipativa”, come è possibile realizzare questo progetto ?

La politica non è un mestiere da specialisti. È un’arte collettiva, che si impara vivendo insieme le sfide del presente. Se oggi la democrazia arranca, è perché ha perso il respiro della comunità, il passo lento e faticoso dell’ascolto, la forza della partecipazione reale.

Per tornare a vivere, la politica deve abbandonare l’illusione della scorciatoia. Non bastano le dirette sui social o le campagne elettorali permanenti. Occorre un processo lento, profondo e trasformativo. Serve un’idea nuova di cittadinanza attiva, fondata su tre parole chiave: ascolto, costruzione, corresponsabilità.

Ascolto, perché nessun progetto politico può nascere senza accogliere la voce di chi non ha voce. Costruzione, perché le soluzioni non piovono dall’alto, ma si generano dal basso, nei luoghi vissuti, nei quartieri, nelle scuole, nei luoghi di lavoro.

Corresponsabilità, perché ogni cittadino è, potenzialmente, artefice del cambiamento.

Serve allora una politica che non prometta tutto a tutti, ma che abbia il coraggio di dire la verità.

La partecipazione non si improvvisa: si educa, si cura, si organizza. Bisogna dare strumenti, tempo, fiducia. Bisogna formare nuovi cittadini e nuove cittadine che non si accontentino di “seguire” ma vogliano “fare”. Questo è il compito più alto della politica oggi: riaccendere il desiderio di contare, di esserci, di incidere.

Perché la crisi della democrazia, alla fine, non è altro che la crisi della nostra capacità di sognare insieme un mondo più giusto.

 

7) Lei sta girando l’Italia raccogliendo adesioni ad un progetto politico, quali sono i punti forti di questa proposta?

Il primo punto è che ogni persona ha un valore aggiunto da offrire alla società. Nessuno è superfluo. Nessuno è di troppo. In un tempo come il nostro, che esalta l’individualismo e misura tutto in base alla produttività o alla popolarità, ricordare che ogni essere umano è portatore di dignità, di pensiero, di relazione, è un atto politico.

Tornare a occuparsi della cosa pubblica non è un optional per anime generose: è un dovere morale e civile. Non basta indignarsi davanti a uno schermo o commentare con rabbia un titolo di giornale. Occorre riscoprire il gusto dell’impegno comune, il senso della fatica condivisa.

Votare non è solo mettere un segno su una scheda: è scegliere, contare, decidere il futuro. E convincere chi si è ritirato nel silenzio, chi ha smesso di credere, chi pensa che “tanto non cambia nulla” è il compito più difficile e necessario. Perché una democrazia senza popolo è una scatola vuota, un esercizio formale senza anima.

Ognuno di noi è chiamato a essere artigiano della democrazia, non spettatore disilluso. Ci sono mille modi per farlo: un gesto, una parola, una firma, una presenza. Il cambiamento non arriverà mai se restiamo alla finestra.

Come ci ricorda spesso la storia, i cambiamenti profondi iniziano dal basso, quando uomini e donne comuni si mettono in cammino, spinti non dalla rabbia ma dalla responsabilità. Costruire una società più giusta non è solo possibile: è urgente. E per farlo, abbiamo bisogno di ciascuno. Nessuno escluso.

 

8)  Quale relazione con le altre proposte nate in questa stagione, differentemente caratterizzate ma con un obiettivo comune, quello di colmare un vuoto ? Il riferimento è ad Insieme, Rete di Trieste, ….ecc

Siamo dentro una stagione generativa, segnata non solo da una crisi, ma da una spinta a riformulare il senso stesso della convivenza civile. Le proposte che stanno emergendo non sono semplici tentativi di supplenza politica, ma risposte culturali e morali a un bisogno collettivo di riconnessione tra cittadini, istituzioni e futuro. Non si tratta di piccoli fuochi isolati, ma di scintille che possono accendere un nuovo clima, in cui la partecipazione non è delega e l’impegno non è marketing.

Queste esperienze hanno la possibilità di condividere un tratto essenziale: nascono da un’urgenza umana prima che politica, da una domanda di senso, di giustizia, di responsabilità collettiva. Sono figlie di un’Italia che non si rassegna, che sente il peso dell’ingiustizia e della solitudine, ma che intuisce anche la forza della comunità, dell’ascolto, della costruzione lenta e condivisa. Per questo non si pongono come antagoniste tra loro, ma come parte di una stessa sinfonia, in cui le differenze non sono rumore, ma armonia possibile.

Riusciremo a trasformare questa pluralità di esperienze in un orizzonte comune, capace di durare nel tempo e di incidere sulla realtà? La risposta non può che maturare dentro una nuova fiducia reciproca, in cui ci si riconosce nei gesti dell’altro, nella sua coerenza, nella sua cura. Il linguaggio della politica deve tornare ad assomigliare alla vita delle persone: umile, concreto, esigente. Ecco perché ogni proposta che si pone il compito di “colmare un vuoto” — culturale, sociale, politico — non deve competere, ma riconoscersi parte di un cammino che si fa insieme. Un cammino che chiede radici, ma anche coraggio di futuro.