Un programma per Firenze 2022

Venerdì, 10 Dicembre, 2021

La ricerca della comune radice storico-religiosa dei popoli che abitano le sponde del Mediterraneo: questa la ragione ufficiale della convocazione del primo dei colloqui del Mediterraneo, voluti dal sindaco di Firenze Giorgio La Pira a partire dal 1958. Eppure, al si sotto queste apparente diplomazia culturale quella iniziativa costituì una risposta articolata ai grandi nodi storici posti da un quadro geopolitico e religioso che nei due decenni successivi alla fine della Seconda Guerra Mondiale affrontava mutamenti profondi, quando non radicali.

Allorché La Pira apriva il primo dei colloqui, il 3 ottobre 1958, indicando come fine di quell’incontro il «cooperare alla costruzione della pace nel Mediterraneo e nel mondo», il quadro era quello di un’area nella quale erano ancora visibili le tracce e le ferite lasciate dalla crisi di Suez del 1956. Fra i fumi lasciati dagli scontri fra le forze egiziane e quelle israeliane e anglofrancesi consumatisi attorno al canale fra Mar Rosso e Mediterraneo si era palesata tutta la drammaticità di un processo di decolonizzazione intrecciato con l’emergere della soggettività politica del mondo arabo. Un quadro reso più complesso e conflittuale dall’irrisolta contrapposizione fra Stato d’Israele e mondo arabo e a cui si sommava la lunga guerra d’indipendenza algerina. Un conflitto, quest’ultimo, vissuto dalla Quarta Repubblica francese come una vera e propria guerra civile e che aveva consumato il sistema politico-costituzionale, la cultura e la stessa società transalpina che appena quattro mesi prima, il 1° giugno, si era affidata al generale De Gaulle per uscire dalla crisi. Dentro questo scenario il mandato che il sindaco di Firenze intendeva affidare ai colloqui del Mediterraneo non era quello di un generico appello alla pace, alla sospensione dell’uso delle armi. Al contrario, vi era la lucida consapevolezza di un contesto che esigeva una direzione politica condivisa e che per elaborarla aveva l’urgenza di trovare una chiave di lettura trasversale alle sponde del Mediterraneo, attorno a cui potessero costruirsi itinerari e processi di pacificazione fatti di cooperazione, di dialogo costante, di condivisione di risorse e di speranze, di individuazione di orizzonti comuni possibili.

In attesa del convegno fiorentino che alla fine del prossimo febbraio riunirà i sindaci e i vescovi delle città del Mediterraneo il richiamo alla esperienza lapiriana non può essere giocato semplicemente sul terreno del modello da imitare, né tantomeno nella chiave di un passato di cui il presente tenta di essere un maldestro epigono. Piuttosto, serve raccogliere la sfida di una occasione da non costringere nella logica dell’evento, svincolato da un prima e da un dopo e soprattutto dal contesto nel quale prende forma. Perché quello che si prepara in questi mesi può essere un passaggio di grande valore per avviare processi importanti e duraturi su piani molteplici: dalla politica all’economia, dalla cultura alla pratica attiva di una sostenibilità socio-ambientale. Tutto questo esige però una chiara visione di ordine politico, una intelligenza dei processi che segnano il Mediterraneo di questa fine 2021, delle opzioni possibili, degli attori che animano questo teatro – non solo gli attori istituzionali e politici ma anche quelli culturali, sociali e religiosi –, delle tensioni e delle convergenze che in esso si consumano. Affinare una comprensione di cosa sia per l’area mediterranea questo passaggio storico richiede dunque una chiave interpretativa, capace di fare ordine fra le cose, di ricondurre interessi, attese e aspirazioni al loro ordine naturale di grandezza e di affinare la capacità di comporre esigenze e conflitti in un orizzonte comune.

Del resto, il quadro attuale è profondamente segnato dalle ferite ancora aperte della guerra in Libia, in Siria e Medioriente, dalla fragilità di soggetti politici importanti come l’Algeria e l’Egitto, dalle contraddizioni che segnano la Turchia e la presenza russa, dall’assenza di una politica europea per il Mediterraneo. E a tutto questo si intrecciano le tensioni religiose e culturali: i conflitti a cui abbiamo assistito da “spettatori” hanno cancellato equilibri di convivenza dinamici, che nei secoli erano sopravvissuti al succedersi dei vari imperi – si pensi alla sorte delle comunità cristiane o yazide fra Siria e Iraq –; il radicalismo religioso da un lato e la retorica della paura di “invasioni” migratorie dall’altro hanno alimentato una logica da “scontro di civiltà” che vede nel Mare nostrum solo il confine sud dell’Unione Europea. Rispetto a tutto questo il discorso di Francesco a Lesbo dello scorso 5 dicembre rappresenta una vera e propria chiamata alla responsabilità di misurarsi con estrema lucidità e realismo con il Mediterraneo di oggi. Nelle parole del Papa e nell’appello alla priorità della dignità delle persone, infatti, non vi è solo un richiamo di carattere etico e morale: vi è piuttosto una lucida consapevolezza che è politica e religiosa ad un tempo. L’invito a cercare le cause profonde di questo fenomeno, per dare risposte adeguate rappresenta un invito a spostare lo sguardo dalla superficie degli eventi al loro senso più intimo e profondo. Così, il movimento di milioni di persone dalle regioni mediorentiali e dall’Africa verso l’Europa si rivela come l’effetto di uno scenario ben più ampio e drammatico. Il quadro è quello della “terza guerra mondiale permanente” che oramai da un decennio si combatte a cavallo dell’equatore, a partire dalle coste atlantiche dell’Africa fino all’Afghanistan e al Pakistan. Uno scenario fatto di una catena di conflitti più o meno noti alle opinioni pubbliche europee e che riversano sulle sponde del Mediterraneo le loro conseguenze più tragiche che hanno il volto e gli occhi di donne, uomini e bambini in fuga tanto dalla violenza quanto dalla povertà.

Così i barconi che attraversano il canale di Sicilia, i tentativi di entrare in Europa attraverso le enclaves spagnole di Ceuta e Melilla, l’enorme campo profughi di Lesbo, il dramma della “rotta balcanica” sono l’espressione di una frattura storico profondissima, consumatasi negli ultimi anni e che interseca, oltre alle evoluzioni strategiche e politiche, la questione della equità del sistema economico globale e della sua incapacità di garantire uno sviluppo sostenibile non solo sul piano ambientale ma anche su quello sociale e umano. E tutto questo è attraversato da una conflittualità che si è fatta anche religiosa e culturale: la conflittualità di radicalismi religiosi e di nazionalismi che sovrappongono comunità politica e comunità di fede in una logica di esclusione e non di dialogo.

Quello pronunciato da Francesco a Lesbo diviene così un discorso che provoca e sfida coloro che converranno a Firenze a febbraio 2022. Perché li pone davanti all’alternativa fra la prestigiosa vetrina della città del rinascimento e la fatica di una intelligenza delle cose che però apre orizzonti di futuro possibile. La seconda strada, certo la più complessa e difficile, è però la sola che abbia la dignità della “politica”, nella misura in cui fa dello spazio umano della città, l’elemento trasversale di un mare sulle cui sponde si è consumata una disintegrazione di realtà politiche, religiose e culturali probabilmente irreversibile. Raccogliere assieme sindaci e vescovi significa allora cercare di definire un orizzonte specifico: quello della comunità umana da costruire, certamente come realtà politica e civica ma anche come cioè di cui le comunità religiose e le diverse sensibilità culturali devono sentirsi responsabili perché è garanzia della loro libertà e della loro crescita. L’esigenza è allora quella di pensare al di là delle dichiarazioni o dei comunicati finali da sottoscrivere: l’urgenza è piuttosto quella di un processo di dialogo politico, culturale e religioso. E in questo processo si gioca una parte essenziale non solo del futuro dei popoli mediterranei, ma più in generale di tutto lo sviluppo umano.

Vi è un ultimo elemento, adombrato già nelle parole di Francesco, che qualifica l’occasione del convegno fiorentino come preziosa. Si tratta di un aspetto che attiene all’Europa, la grande assente nello scacchiere mediterraneo. L’aver guardato alla crisi migratoria in termini solo umanitari o peggio di gestione dell’ordine pubblico interno ai singoli stati, ragionando nei puri termini legali del reato di immigrazione clandestina, ha confinato gli stati europei e la stessa Unione ai margini del crinale storico su cui ci troviamo. Quello che può prendere forma a Firenze è allora ben più di una correzione di rotta: è un cambio di sguardo, che recuperi noi europei ad una fedeltà alla verità delle cose, di ciò che significa il Mediterraneo di questi anni. Uno spazio nel quale non solo si consuma ogni giorno di più la ragione morale dell’Europa, ma anche la radice storica della sua soggettività politica. Nel tornare a occuparsi di Mediterraneo l’Unione non può limitarsi a discutere se e come rivedere il trattato di Dublino sull’accoglienza dei migranti. Significa piuttosto e soprattutto riconoscere che quello spazio di civiltà è una delle sue radici più vive e che quella radice, fra le onde di quel mare, si intreccia con le radici di altre umanità, che fra Africa e Oriente condividono con noi le stesse acque.

In vista dell’iniziativa della CEI, Argomenti2000 Toscana, insieme all’associazione nazionale, sta organizzando un seminario preparatorio.