Un dramma umanitario e l’esigenza di politica estera

Venerdì, 27 Agosto, 2021

        Quanto sta accadendo in Afghanistan ci interpella su un duplice livello: il dramma umanitario che si abbatte su una popolazione provata da oltre quarant’anni di guerre e la necessità di una politica estera che chiama in causa il ruolo dei singoli paesi e quello delle organizzazioni sovranazionali. La scelta degli Stati Uniti di un disimpegno unilaterale, ma accettato senza troppe obiezioni dal resto della coalizione internazionale, pare essere stata dettata dalla ricerca di consenso verso l’opinione pubblica interna e rivela una macroscopica incapacità di comprensione della realtà.

La previsione dell’Intelligence USA riguardo alla possibilità che Kabul potesse resistere tre mesi è oggi smentita insieme all’affermazione che paesi come l’Afghanistan debbono garantirsi da soli stabilità e sicurezza. Si tratta di una prospettiva che non tiene conto dei risultati ottenuti in termini politici, istituzionali e sociali dalla coalizione internazionale che ha operato in quel paese.

Lo sforzo di istituzioni autonome, forti e democratiche, come l’impegno di addestramento di forze armate locali è stato considerevole: secondo autorevoli stime, sarebbe costato in 20 anni mille miliardi di dollari e alla sola Italia 8,7 miliardi di euro, e ancor più 2.300 vittime fra i soldati americani e 53 fra quelli italiani (di cui 31 in scontri a fuoco). Come è possibile che un tale sforzo  non sia servito a costruire un consenso nella società afghana e animare un’adeguata resistenza alla riconquista talebana?  Perchè quella che doveva essere una "missione di pace" si sta risolvendo in un “disastro” politico (anche per Biden), che fa evocare una nuova Saigon?

La tendenza a concentrarsi sul presente  rischia di semplificare le risposte e rendere ancor più incomprensibile quanto avviene. Le immagini che arrivano da Kabul sono, al contrario, l’esito di un processo lungo e complesso che traccia il profilo di un fallimento della politica americana ed europea non solo nei riguardi dell’Afghanistan. La crisi tunisina, quella libica, la fragilità dell’Egitto (che si regge su un regime militare), la crisi permanente dell’area palestinese e il deteriorarsi politico del Libano, la tragedia siriana, il protagonismo muscolare della Turchia e della Russia nel Mediterraneo, l’Iraq e le difficili relazioni con l’Iran, i nodi profondi nel rapporto con la monarchia saudita e con molti paesi della penisola araba. Tutto questo fa parte di un complesso intreccio di vicende nelle quali si inserisce il dissolversi dello stato afghano nato sotto la protezione delle democrazie occidentali, voluto a immagine e somiglianza dei nostri sistemi politici e istituzionali, a dimostrazione di una incapacità di capire quelle realtà ed entrare in un rapporto paritario e politicamente maturo con esse.

In questo quadro possiamo accettare che la preoccupazione della comunità internazionale sia rivolta principalmente all’evacuazione del personale diplomatico e del personale afghano che ha lavorato con gli occidentali? La crisi da affrontare è ben più vasta: i 250mila profughi in un Paese che già conta 4 milioni fra rifugiati e sfollati richiamano il dovere di soccorrere quella che si presenta come una nuova emergenza umanitaria e politica, in cui donne e minori sono i più esposti.

La comunità internazionale non può lasciare Kabul morire da sola nel ritorno alla sharia, con tutte le minacce che di lì potranno partire. Anche per questo l’Italia deve esprimersi con chiarezza e attivare tutti i canali possibili per chiedere un’azione politica internazionale capace di elaborare una visione e una azione comune, con una Europa capace di essere capofila di una politica estera regionale. A questo riguardo occorre che sia convocata d’urgenza una sessione straordinaria del Parlamento Europeo alla presenza dell’alto rappresentante per la politica estera dell’Unione e un Consiglio straordinario dei Capi di Stato e di Governo dell’Unione. Serve, con urgenza, una chiara e specifica linea politica dell’Unione per quelle regioni dello scacchiere internazionale. Il modo in cui l’amministrazione Trump e poi quella Biden hanno gestito il dossier afghano dimostrano che si è verificato un mutamento profondo nella percezione di sé che gli Stati Uniti hanno. Emerge l’idea che a dettare la linea di politica estera sia solo il criterio dell’interesse nazionale americano: una linea che oggettivamente marginalizza la posizione dell’Europa e la riduce a mero strumento degli interessi americani. Serve allora una politica estera europea matura e capace di assumersi la responsabilità di un attivo ruolo di pacificazione, stabilizzazione e sviluppo di queste aree del mondo. Occorre per questo un’immediata assunzione di responsabilità politica da parte delle massime istituzioni comunitarie e l’avvio di azioni diplomatiche e politiche adeguate alle sfide.

A pochi giorni dai 20 anni dall’attacco alle Torri gemelle la strategia della guerra preventiva si è dimostrata fallimentare. Abdicare a una politica estera in Medio ed Estremo Oriente lo sarebbe ancora di più. Tanto più che, come sostengono alcuni, i talebani non possono aver fatto tutto questo da soli e sulla scena si affacciano l’influenza economica della Cina e le risvegliate rivendicazione territoriali della Russia, elementi non estranei a questa “rivoluzione diplomatica” in corso.
Riconoscere il nostro fallimento politico in Afghanistan non deve essere, nel clima vacanziero di metà agosto, un abdicare a un impegno politico e morale per la difesa dei diritti umani di queste popolazioni. Da qui la richiesta al governo italiano di un impegno internazionale adeguato. La prima risposta deve essere per il soccorso alla popolazione afghana in emergenza umanitaria e nel garantire una politica di accoglienza di nuovi flussi migratori. Inoltre si dovrà  perseguire una politica di cooperazione come un fondamentale presidio di umanità, per non lasciare solo il popolo afghano.