
Il male, quando oltrepassa ogni possibile immaginazione, rende attoniti, paralizza e fa diventare inermi le vittime, incapaci di reagire. È una paralisi che non è indifferenza, ma smarrimento. L’orrore che supera il pensiero frantuma la capacità di agire: la mente non riesce a dare senso a ciò che accade, il corpo si blocca, l’indignazione resta muta. Spesso, è solo il tempo a restituire la voce.
Liliana Segre lo sa bene. Per decenni ha vissuto nel silenzio. Tornata dall’inferno di Auschwitz, non ha trovato le parole per raccontare, non perché non volesse, ma perché il dolore la serrava, e il mondo non chiedeva. È rimasta muta per quarantacinque anni, come se il male subito l’avesse lasciata in un limbo senza voce. Solo dopo, quando il tempo ha reso insopportabile l’assenza di memoria, ha trovato la forza di parlare.
Primo Levi, invece, ha parlato subito. Ma il suo tormento è stato un altro: non essere creduto, vedere la diffidenza, l’incredulità negli occhi di chi lo ascoltava. Se questo è un uomo non è solo una testimonianza, è un grido di fronte a chi non voleva vedere, a chi preferiva girarsi dall’altra parte. E proprio questa ferita—il dubbio sulla memoria—ha contribuito a spingerlo nel baratro della disperazione.
Il 27 gennaio 1945, il giorno in cui l’Armata Rossa libera Auschwitz, diventa la Giornata della Memoria. È la data della scoperta, dello svelamento: il mondo vede i campi di sterminio e resta sgomento. Ma lo sgomento, da solo, non basta. La storia ci mostra che si può restare impietriti di fronte all’orrore, e poi dimenticare.
C’è un’altra data, meno ricordata, che racconta l’opposto della paralisi: il 19 aprile 1943, l’inizio della ribellione del ghetto di Varsavia. Qui, di fronte allo stesso orrore, non c’è solo il muto sgomento, ma la reazione. Una resistenza disperata, condannata in partenza, eppure carica di significato. Quegli uomini e quelle donne sapevano di non poter vincere, ma hanno scelto di combattere, di morire in piedi. Non è la speranza a muoverli, ma la dignità: rifiutarsi di essere solo vittime, anche sapendo di non poter cambiare il destino.
Questa è la differenza tra la paralisi e l’indifferenza. La paralisi è un effetto del trauma, è l’urto contro qualcosa di così mostruoso da annullare ogni capacità di risposta. Può durare anni, anche una vita, ma non è una scelta. L’indifferenza, invece, sì. È girarsi dall’altra parte, è non voler vedere, è lasciare che il tempo inghiotta la memoria. È ciò che permette al male di ripetersi, di mutare forma senza mai scomparire.
E oggi, c’è una nuova insidia che rischia di alimentare questa paralisi: il mondo digitale. È un mondo che, anche se è “nelle mani di tutti” in realtà è “nelle mani di pochissimi” e può amplificare il senso di impotenza e veicolare i sentimenti, generando rabbia cieca o assuefazione. Può sommergere le verità con false notizie, rendendo indistinguibili la realtà e la propaganda. Può favorire il ritiro sociale, la sostituzione delle relazioni con le connessioni, che sono più facili da controllare e manipolare. Il risultato è un disorientamento diffuso, in cui la paralisi si confonde con l’indifferenza e il silenzio diventa terreno fertile per nuove forme di violenza.
Liliana Segre ha spezzato la sua paralisi parlando. Noi, oggi, abbiamo il dovere di spezzare l’indifferenza ascoltando. Perché se il male si nutre dell’indifferenza, la memoria è l’unico antidoto che ci resta.