Quel ‘terrore sovrano’ che è arrivato in Iran

Sono giorni di stravolgimento in Medio Oriente, questi. E di grande preoccupazione e contrapposizione sul tema del terrorismo di matrice jihadista. Ma sono giorni che possono presentare opportunità di chiarire le linee di relazione tra l’Unione europea e la regione.

Prima la brusca chiusura delle relazioni con il Qatar da parte di Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Yemen, la parte della Libia controllata da Haftar, le Maldive e la Giordania con l’accusa di “sostenere e proteggere numerosi gruppi terroristici che minano a destabilizzare la regione, come i Fratelli musulmani, l’Isis e al Qaida”, che ha spaccato il campo dei paesi del Gulf Cooperation Council, con azioni eclatanti come la chiusura dei voli e l’espulsione degli ambasciatori che rischiano di spingere la tensione nella regione a livelli di non ritorno.

E oggi le notizie di terrore che arrivano da Teheran, che sono senza precedenti perché mai l’Iran era stato teatro di attentati di Daesh, avendone però più volte subito la minaccia.

Tutti i paesi coinvolti dalle notizie di questi giorni sono paesi che in un modo o nell’altro usano l’arma del “terrore sovrano”, nella azzeccata definizione di Marina Calculli e Francesco Strazzari, come strumento della loro politica estera. Tanto che a livello regionale non è mai stato possibile arrivare a una definizione di ciò che è terrorismo e ciò che non lo è, perché gli Stati utilizzano il finanziamento e l’appoggio a gruppi estremisti o gruppi terroristi affiliati a Daesh e Al Qaida come strumenti per mantenere la propria influenza nei conflitti regionali, a partire dalla Siria, e per diminuire la coesione interna nei paesi rivali.

L’utilizzo, in certi casi aperto, come con Hamas e Hezbollah, in altri obliquo come gli appoggi che Al Qaida, Daesh e altri gruppi ricevono da vari paesi del Golfo, del terrorismo come strumento delle relazioni internazionali nella regione è la ragione principale di una scarsa efficacia delle azioni internazionali di contrasto a Daesh. Perché l’Occidente combatte militarmente un mostro che non è considerato dal regime siriano il nemico principale e che continua a ricevere finanziamenti e appoggi da alcuni paesi della regione. I sauditi hanno per anni diffuso la loro formula salafita dell’islam in chiave anti-iraniana. E da questa si sono dipanate poi le ideologie jihadiste. Oggi molti privati del Golfo finanziano illegalmente il terrorismo, soprattutto attraverso il Kuwait.

La minaccia di Daesh è una minaccia globale, che colpisce i concerti e i parlamenti, da Westminster al Majlis iraniano, che semina il panico tra i copti d’Egitto così come tra gli avventori di una gelateria a Bagdad. Il fatto che questa minaccia riguarda tutti comporta la necessità di combatterla direttamente, smantellando al più presto il cinico utilizzo della narrativa del terrorismo per fini politici, come abbiamo visto in questi giorni da parte dell’Arabia saudita, dell’Egitto e dei paesi satelliti. Così come va evitato di ingerire negli affari interni di Stati sovrani utilizzando l’appoggio a milizie e gruppi politici. O nella regione si va affermando questa consapevolezza a breve oppure l’uso del terrorismo contro stati nemici rischia di impantanare tutta quell’area.

In questo frangente i paesi europei dovrebbero svolgere questo ruolo, non per dare carta bianca a una delle fazioni in lotta nella regione, come ha deciso di fare il presidente Trump con l’idea di creare una Nato araba. L’Europa deve cogliere questa occasione per mostrare senza reticenze ai paesi della regione il pericolo che si annida nel definire in modo ambiguo e secondo i propri interessi il terrorismo, senza perseguire azioni che lo contrastino apertamente.

di Lia Quartapelle

 

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