Quasi un elogio dei rottamati

Poco ci manca che mi prenda la tentazione di titolare queste mie note "elogio dei rottamati". Ho dato credito al nuovo corso. Rottamazione compresa. Che fosse necessaria una discontinuità di cultura politica, di forma-partito e di gruppo dirigente mi era chiarissimo. Anche al prezzo di qualche ingiusta emarginazione. Del resto, quando ideammo l'Ulivo, ci proponevamo di dare vita a un partito e a una politica davvero nuovi, compreso un sensibile ricambio di personale politico. Non ci riuscimmo. In certo modo, si produsse il contrario. Basti pensare alla sorte dei governi Prodi e del progetto dell'Ulivo, prima osteggiato, poi imbrigliato, infine sconfitto dai protagonisti dei vecchi partiti. Renzi è riuscito laddove noi "ulivisti-prodiani" abbiamo fallito. Ma, ecco il punto, al momento solo nella pars destruens. Nella pars construens ancora lo deve dimostrare. Sostenere che il governo Renzi sia prodigo di annunci e povero di risultati è ingiusto. Si può asserire però che esso ha aperto molti cantieri ma che solo con il tempo si potrà giudicare.
Quel che non mi piace del nuovo corso è piuttosto la propensione a celebrare se stesso muovendo dalla tesi assurta a mantra ossessivo secondo la quale ora si sta facendo ciò che non si è fatto per vent'anni. È una versione di comodo collaudata: scavare intorno e dietro di sé per farsi il monumento. Come si può sottoscrivere una tesi tanto ingenerosa quanto non plausibile?
I disinvolti cultori di questa tranciante teoria farebbero bene a essere un po' meno sbrigativi sul bilancio dei governi di centrosinistra. Alla rinfusa: l'aggancio all'euro, un'imponente azione di risanamento (si lasciò il debito pubblico, ora al 132, al 104 % del Pil), la riforma del sistema pensionistico, una signora riforma sanitaria che sfidò le corporazioni, le liberalizzazioni, una politica estera che ci accreditò sino a condurre l'ex premier Prodi alla testa della Commissione Ue, missioni internazionali di successo a guida italiana come in Libano. Tra i risultati, ora deprezzati con tanta leggerezza, merita annoverare - scusate se è poco, dal punto di vista dello sviluppo della nostra democrazia incompiuta - l'avere portato per la prima volta la sinistra italiana a responsabilità di governo.
Mi astengo dal fare paragoni con l'attuale compagine di governo. Mi basta, in positivo, fare memoria di alcune personalità che figuravano in quegli esecutivi: Prodi, Ciampi, Napolitano, Padoa Schioppa, Elia, Maccanico, Bersani, Flick, Treu, Veronesi, De Mauro... Si può, in coscienza, asserire come usa fare oggi, che non abbiano fatto letteralmente nulla? Renzi sarà pure un Fenomeno, ma ancora deve dimostrare di avere messo su un governo di eccellenze, che egli sa selezionare qualcosa che assomiglia a una nuova classe dirigente anziché cooptare seguaci fedeli. Fa una certa impressione notare come certuni - ve ne sono e non pochi - ai vertici del PD o nel governo, che pure rivestirono responsabilità di rilievo in quella stagione non così lontana, oggi si associno a letture tanto superficiali e denigratorie. Scampati alla rottamazione solo perché più solleciti nel riposizionarsi.
La memoria dell'Ulivo, che lo stesso Renzi dichiara sia all'origine della sua esperienza politica, mi suggerisce un altro appunto. La prima campagna elettorale vincente (a dispetto di tutte le previsioni) del 1996 fu condotta all'insegna di uno slogan e di una missione. Lo slogan: "l'Ulivo, una forza che unisce" ovvero "uniti per unire". Era la convinzione che chi governa deve unire e non dividere il paese. La missione: realizzare il bipolarismo e dunque una visione e un programma nitidamente alternativi allo schieramento già messo su dal Cavaliere. È ingeneroso osservare che Renzi talvolta trasmette l'impressione contraria? Ossia: 1) la propensione a dividere, a costruirsi sempre un nemico; 2) un'offerta politica che si segnala più per affinità che per alternatività al fronte avverso. La proclamata vocazione maggioritaria del PD va inscritta dentro una visione competitiva della democrazia, l'opposto del "partito unico", della confusione tra destra e sinistra.
Infine, un rilievo alle minoranze interne al partito di nuova generazione. Renzi ha saputo interpretare (e avvantaggiarsi) della forma-partito disegnata nello statuto del PD e segnatamente della coincidenza tra leadership e premiership, grazie all'investitura delle primarie. Persino esagerando, come quando teorizza che le primarie avrebbero "sacralizzato" la specifica riforma costituzionale o del mercato del lavoro che quegli elettori, al tempo delle primarie, neppure conoscevano. Quel modello di leadership e di partito - che io difendo, memore della lezione amara di Prodi, un premier che fu agevole disarcionare non senza complicità dei "nostri", perché privo di un suo partito - fa perno dunque sull'investitura. Ne consegue che sono gli elettori PD, con il voto alle primarie, a tracciare il confine tra maggioranza e minoranze dentro il partito. Chi vince governa il PD e chi perde sta all'opposizione preparandosi a vincere il prossimo "congresso". Con disciplina e senso di responsabilità, ma all'opposizione. Non indulgendo a pratiche consociative, a sedicenti gestioni unitarie. In realtà, all'annessione di singoli e di gruppi che sembra non attendessero altro. Sino a due bizzarrie recenti: l'ingresso delle minoranze nella segreteria unitaria nelle stesse ore nelle quali esse levavano alte grida sul job act e persino la loro partecipazione alla spartizione correntizia degli alti organi di garanzia (Consulta e Csm) per i quali era lecito attendersi che fossero proposte personalità autorevoli e indipendenti. Incuranti, maggioranza e minoranze PD, del discredito sul parlamento per le sedici fumate nere originate da candidature politiche divisive. Difficile fare credibilmente opposizione se non si preserva un profilo alto, se si cede alle lusinghe degli organigrammi.
Non è così che prende corpo una sana democrazia interna al partito. Non è così che si rispetta l'autonomia delle istituzioni, che fu tra gli obiettivi dell'Ulivo, dopo la stagione della loro occupazione da parte dei partiti denunciata anni addietro da Berlinguer. Non è così che si "cambia verso" nel partito e nelle istituzioni.