
La memoria è corta e gli errori si ripetono: la storia di Eranova per spiegare il Ponte di Messina.
Eranova era un paese della provincia di Reggio Calabria le cui case sono state espropriate e rase al suolo tra il 1972 ed il 1975. Le famiglie che le abitavano furono sfrattate e trasferite in anonimi fabbricati di edilizia popolari nei paesi vicini. Dai terreni privati furono estirpati alberi di ulivo secolari e di profumatissimi agrumi.
Una forte identità civica, conosciuta in tutto il circondario, nata nel 1896 a seguito di una rivolta popolare capeggiata da Ferdinando Rombolà contro il locale barone latifondista, venne infranta dai fallimentari progetti di progresso industriale e dalle promesse di occupazione che si sarebbero ottenuti con la realizzazione del “Quinto centro siderurgico di Gioia Tauro”.
La storia di Eranova (cercatela su Google Maps) è una storia emblematica di Calabria. Uno scempio inaudito della dignità di un’intera comunità di persone, che si dovettero piegare alla propaganda politica dell’epoca e che è stata ripresa da Carmine Abate nel suo romanzo: - Un paese felice - ed. Mondadori – 2023.
Gli abitanti di Eranova furono costretti ad abbandonare le proprie case ed i propri appezzamenti di terreno senza che poi per decenni su quelle terre si realizzasse nulla; e molto probabilmente, una diversa progettazione di quanto poi si è realizzato, ovvero, il porto di Gioia Tauro, di cui la prima pietra fu posta nel 1975 e la prima nave entrò in porto nel 1995, avrebbe potuto risparmiare lo sradicamento della piccola comunità.
“Immagina che una mattina ti alzi e il tuo paese non c’è più”: questa è la frase che pronuncia Lina, la protagonista del romanzo (storicamente riferito sia per i personaggi pubblici richiamati che per le vicende) quando nella sua lotta a difesa di Eranova prova a coinvolgere innanzitutto i suoi concittadini e poi le autorità locali e nazionali della politica.
All’epoca dei fatti, autorità della società civile e intellettuali come Pier Paolo Pasolini, nel romanzo, si prestano a “far ragionare” sull’inutilità dell’opera, che solo agli inizi degli anni ’90 prenderà in qualche modo forma, attraverso la costruzione del porto. Un risultato oggi certamente utile, ma raggiunto a carissimo prezzo.
Non mi soffermerò sull’analisi di questa vicenda della storia economico-industriale dell’Italia degli anni Settanta, dandola per acquisita alla conoscenza di ognuno, con il nome di “Pacchetto Colombo”, ideato sui tavoli della politica romana, a compensazione dello “scippo” di Reggio capoluogo, ma intendo guardare ad essa, per porla a confronto con quanto sta accadendo oggi con riferimento al progetto di costruzione del Ponte di Messina.
La storia di Eranova è una vicenda scomparsa dalle cronache e dai ricordi, nessuno ne parla più, ma è un formidabile argomento per spiegare la diffidenza, prima di ogni altro sentimento, lo scetticismo che i calabresi nutrono legittimamente oggi, nei confronti di un’opera quale la costruzione del ponte sullo Stretto.
Prima di ogni valutazione costi-benefici, di impatto ambientale, di sviluppo del territorio, i calabresi sono scettici e diffidenti perché fin dall’antichità sono stati oggetto di vessazioni e sfruttamento. E questa triste realtà arriva fino ai giorni nostri.
La Calabria è la terra delle opere incompiute: investimenti industriali (incentivati daleggi nazionali che mal controllano e deresponsabilizzano sull’effettivo utilizzo dei fondi) che oggi sono capannoni in rovina (da bonificare per l’amianto presente); arterie stradali che ne solcano le vallate e che non sono mai arrivate a destinazione; viadotti sospesi nel vuoto su pilastri senza alcun accesso, stazioni ferroviarie apertesenza aver mai funzionato, o ristrutturate senza che esse siano mai state rese agibili; tunnel aperti dove si sarebbe potuto evitare di scavare; aeroporti che funzionano con due voli al giorno; edifici scolastici fatiscenti e per concludere una sanità commissariata dal 2010, che si regge con l’ausilio di medici provenienti dalla “Brigata Medica Cubana”, nata ai tempi di Fidel Castro per aiutare i paesi africani in via di sviluppo, mentre i giovani medici calabresi lavorano nel Nord-Italia o all’estero.
Questo è il quadro nel quale oggi si vuol parlare del ponte di Messina. Un’opera colossale per attraversare un tratto di mare, servito da navi-traghetto di compagnie private e statali, che nel complesso si stima facciano transitare in media circa settemila veicoli al giorno. Un traffico che potrebbe essere affrontato e gestito egregiamente con investimenti infinitamente più sostenibili nelle infrastrutture portuali di Villa San Giovanni e Reggio, oggi ferme se non regredite, rispetto all’offerta degli anni Settanta. Un ponte dalle innumerevoli incognite, a causa delle condizioni ambientali, sismiche e dei venti, dai costi esorbitanti di costruzione ed impatto, e dai mai evidenziati futuri costi di manutenzione e pedaggio.
Uno scenario nel quale ci si chiede perché non si provveda a rendere più attrattivo ed efficiente il raggiungimento sia della Calabria che della Sicilia, intervenendo su disagi ben più urgenti e costruendo infrastrutture stradali e ferroviarie almeno pari al resto del Paese (ad es. una linea ferroviaria ad alta velocità che colleghi le città del nord a Reggio Calabria (l’AV si ferma ad Afragola (NA)) e potenzi le strade e le ferrovie siciliane).
Oggi come allora si paventano le magnifiche sorti e progressive conseguenti alla costruzione dell’opera, senza che esse siano suffragate da piani industriali sufficientemente approfonditi, né tantomeno da valutazioni indipendenti di impatto ambientale.
Oggi come allora, tutta l’operazione economico-industriale viene propugnata dalla propaganda politica, con il rischio, oggi come allora, che si proceda agli espropri delle case, allo sfratto delle famiglie, per poi non realizzare che scempio e abbandono, anche in considerazione del fatto che il lungomare di Cannitello, uno dei luoghi più belli della costa calabrese, mal si presterà a qualunque altro genere di intervento a recupero e sanatoria del progetto iniziale.











