Opinioni/ Sui risultati del Referendum

Mercoledì, 7 Ottobre, 2020

Il recente referendum confermativo, con cui è stato detto sì alla riduzione del numero dei parlamentari, offre spunti per una riflessione molto ricca, sia che si guardi al dato elettorale, sia che si guardi agli effetti che il voto avrà e che si protrarranno per un periodo non breve.

Acquisito il risultato il primo dato che emerge è la partecipazione determinante dei cittadini italiani alla consultazione referendaria. Ad esclusione del 2001 (affluenza del 34,05%), i referendum confermativi successivi hanno raggiunto percentuali superiori al 50%, quorum non necessario ma che testimonia da un lato una capacità di mobilitazione dei soggetti interessati al risultato; dall’altro che, nel tempo, forme di partecipazione diretta alla vita pubblica, con la loro capacità di avere effetti immediatamente visibili, attraggono l’elettore quanto, e spesso più, di elezioni seppur determinanti e significative quali sono quelle regionali.

Principale novità è che, nell’ultimo referendum, la spinta antigovernativa, che aveva portato alla bocciatura delle precedenti riforme, non ha avuto effetti significativi, sovrastata da un’ondata di avversione alla politica e ai suoi protagonisti. Ma con una differenza sostanziale: i gruppi che interpretano lo spirito anticasta e giustizialista sono al tempo stesso promotori della riduzione dei parlamentari e beneficiari di un consenso che ottiene l’effetto paradossale di aumentare il potere dei gruppi dirigenti rispetto al corpo elettorale e ai propri, più o meno consapevoli, militanti.

Un altro elemento di grande novità è il mutamento del quadro politico e di governo durante l’iter di approvazione del testo di riforma. Se in origine il consenso era venuto principalmente dai partiti che sostenevano il governo M5S-Lega, l’ultima approvazione è avvenuta con un consenso quasi plebiscitario e con il sostegno del Pd, che ha ritenuto di poter inserire la riforma costituzionale nell’accordo di governo con i cinquestelle.

La difesa ad oltranza di questa scelta è quella che espone il quadro politico, e gli assetti istituzionali che verranno, alle maggiori incognite. Non tanto per l’evidente avversità della base elettorale del Pd, quanto per la giustificazione e le motivazioni addotte nella scelta di utilizzare la riduzione dei parlamentari quale grimaldello per l’apertura di un nuovo fronte di riforma.

Sembrerebbe quasi che il promesso processo di riequilibrio istituzionale e la nuova legge elettorale siano effetti automatici della riduzione dei parlamentari, ma prudenza vorrebbe che si osservasse con attenzione l’evolversi sia dello scenario politico e parlamentare, sia della pandemia che non cessa a produrre effetti.

La crisi evidente del M5S e il camaleontismo dei suoi vertici, unito a quello massimo del presidente del consiglio Conte, dovrebbero destare più di una preoccupazione in Zingaretti e nel Pd. Le resistenze alla modifiche dei decreti antimigranti voluti da Salvini sono evidenti, mentre da parte dell’elettorato del Pd si attende da tempo un risultato che sia anche segnale politico della ritrovata “umanità” del governo italiano. E’ lecito quindi attendersi forti difficoltà all’adozione di ulteriori riforme, che possano portare a semplificazioni del procedimento legislativo e a modifiche degli istituti previsti nella seconda parte della Costituzione, proprio a causa del timore di perdita di consenso e di ruolo politico che Di Maio e i suoi manifestano a ogni passo.

Banco di prova sarà la nuova legge elettorale. Un impianto fortemente proporzionale probabilmente aumenterà la forza dei gruppi dirigenti dei partiti, andando nella direzione opposta alla richiesta di democrazia deliberativa e partecipativa che attraversa l’elettorato. Quali timori agitano il centrosinistra italiano e la sua principale forza politica? Cosa è avvenuto in questi anni per passare dal partito a vocazione maggioritaria a quello a vocazione proporzionale? Dal partito nato dall’esperienza di grande partecipazione popolare, inclusiva e ispirata ai principi costituzionali, dell’Ulivo, all’attuale linea politica? Non avverrà, ma sarebbe un’iniezione di entusiasmo (e di partecipazione) sentirle il Pd dire che il Mattarellum è stata probabilmente la migliore legge elettorale sperimentata in Italia, capace di accogliere e rendere visibili la voglia di partecipazione e di democrazia che aveva caratterizzato la stagione dei sindaci degli anni 90 e la valorizzazione del ruolo della società civile a tutti i livelli politici.

Nel frattempo il Covid sta producendo effetti significativi anche sui procedimenti legislativi e sul ruolo del parlamento. L’aumento dei contagi, la chiusura delle attività delle commissioni e la ritrosia ad adottare forme di partecipazione e di voto innovative potrebbero essere un ulteriore elemento di mancata attuazione dei promessi correttivi alla riforma costituzionale, ancora lontani dall’essere realizzati. Con la prossima proroga dello stato di emergenza e il conseguente maggiore protagonismo nella produzione legislativa da parte del governo, insieme al costante conflitto tra presidenti di regione e consiglio dei ministri, potremmo avere una miscela esplosiva, capace di produrre effetti negativi nei confronti degli equilibri dei poteri e del futuro assetto istituzionale.

In fondo il messaggio del referendum costituzionale è chiaro: avanti il prossimo. Inteso come prossimo tassello di un mosaico di provvedimenti legislativi di matrice populista, capaci di inseguire, e non governare, il mutamento della società, in una costante resa agli umori popolari e ai sondaggi d’opinione.

Cosa avverrebbe se domani l’obiettivo dovesse diventare l’introduzione del vincolo di mandato? Eventualmente inserito (con correttivi sia chiaro) in un nuovo accordo di governo, necessario a causa dell’assenza di una chiara maggioranza di governo espressa dai cittadini?

Quale responsabilità ha l’attuale classe politica, che, favorendo la riduzione dei parlamentari, ha abbassato la soglia di consenso parlamentare necessaria ad ulteriori riforme costituzionali?

Nemmeno consola il 30% di No espressi alla riforma, troppo diversi tra loro, troppo lontani e con motivazioni antitetiche, per poter essere base di una diversa lettura politica del presente. In fondo, la riduzione dei parlamentari è poca cosa. Il problema è la riduzione della classe politica a megafono del proprio elettorato, a primi tifosi dei propri tifosi. Oggi probabilmente dovremmo raccogliere l’autocritica di chi non ha avuto il coraggio di dire che la riforma Renzi, seppur imperfetta e bisognosa di correttivi, avrebbe dato all’Italia un assetto migliore del grande punto interrogativo che abbiamo davanti.

Maurizio Cuzzocrea - Argomenti2000 Sicilia