Oltre il carcere: giustizia non vendetta

Domenica, 20 Dicembre, 2015

Molti pensano che la giustizia ricevuta dalle persone offese - soprattutto se da delitti di sangue - sia direttamente proporzionale al numero di anni di prigione che i colpevoli devono scontare. Personalmente mi sento più vicina all’idea di giustizia indicata, con molta sobrietà, dalla nostra Costituzione all’articolo 27, lì dove si legge che <<Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato>>. Ci viene, cioè, suggerito che sia proprio il cambiamento delle persone che hanno sbagliato, il loro ravvedersi, il comprendere e il dispiacersi per il male compiuto a dare alle loro vittime quel tanto di giustizia che è possibile ottenere. E alla società la possibilità di riavere pienamente attivi tutti i suoi membri, persone che devono, tutte, concorrere alla realizzazione del bene comune.

                Accettando per un momento questa ipotesi di giustizia - che si contrappone decisamente alla più arida e improduttiva idea di vendetta aperta o mascherata (sempre più anni di carcere, prigioni più brutte e incivili possibile, murare vive delle persone e scordarsi delle loro vite e dei loro affetti) - dobbiamo chiederci: è davvero la prigione il luogo più adatto a favorire questo processo di cambiamento e di reinserimento nella vita sociale? Non si tratta qui ovviamente di eliminare l’idea della pena, o sottovalutare la necessità, nel momento di emergenza, di bloccare le persone coinvolte e impedire loro di nuocere ancora. Si tratta, piuttosto, di capire come quella pena possa essere scontata nel modo più utile alla persona e a noi, e quale possa essere il percorso più efficace per un ritorno pieno nella casa comune. Ne hanno discusso negli ultimi sei mesi, con un ampio coinvolgimento di tutti i soggetti, e affrontando 18 filoni tematici, gli Stati generali della esecuzione penale voluti dal ministro della Giustizia Andrea Orlando per mettere a punto politiche più efficaci, anche in vista della possibile delega che il Parlamento dovrebbe dare - speriamo in tempi brevi - al Governo per varare un nuovo modo di far vivere la pena, più aderente all’umanità, all’efficacia e al dettato della nostra bella Costituzione (per saperne di più: www.giustizia.it/giustizia/it/mg_2_19.wp ).

                Rimane ancora fuori da ogni programma il dialogo con quella società - con tutti noi - che deve sostenere con convinzione e partecipazione un diverso modo di pensare la pena e coloro che la devono scontare. Rimane un muro fisico, quello del carcere, e un muro culturale, quello della non conoscenza e del pregiudizio, sui quali bisogna tutti insieme lavorare. La posta in gioco è alta: le vite di coloro che hanno sbagliato e vogliono cambiare; quelle delle loro famiglie e dei loro amici; e l’idea stessa - fondante della nostra democrazia repubblicana - che nessuno, neanche una sola persona, neanche la più cattiva, può essere buttata via.  Perché per noi ogni essere umano è, in quanto tale, titolare di dignità e di diritti; anche se in uno o più momenti della vita ha scelto il male, se è profugo, povero, violento, barbone, straniero, disabile, tossicodipendente, malato, giovane e ribelle. La nostra Repubblica nasce dal rifiuto di ogni totalitarismo per il quale - di destra o di sinistra che sia - le persone non sono niente. Per noi, invece, sono tutto. Ad ognuno di noi, noi che siamo la Repubblica, la responsabilità di non lasciare indietro nessuno.