Partiamo con realismo dalle difficoltà incontrate dal PD di essere quello che la sigla dice, ovvero un partito democratico: non solo perché prende le parti della democrazia contro chi la democrazia a parole o con i fatti la avversa, ma perché capace di praticare e coltivare la democrazia al suo interno; cosa che è la condizione prima per poterla affermare al suo esterno, ovvero nella gestione della cosa pubblica.
È come se il PD non fosse riuscito mai ad andare oltre l'impulso contingente che lo ha fatto nascere, ovvero la necessità di avere una forza elettorale in grado di poter capitalizzare le possibilità di successo definite dalla legge elettorale allora in vigore, il “Porcellum”.
Eppure la prospettiva era chiara sin dalla fase in cui si progettava il Partito Democratico: l’obiettivo era quello di unire le forze democratiche e riformatrici dando vita ad un soggetto capace di raccogliere – così diceva Pietro Scoppola ad Orvieto nell’ottobre 2006 – la domanda di unità e di cambiamento che sale dal Paese. Si trattava di condurre in porto, come sosteneva in quell’occasione Romano Prodi, quel processo politico che, dopo anni di sforzi e di esperimenti aveva portato, anche attraverso le primarie del 16 ottobre 2005, alla lista unitaria dell’Ulivo alla Camera.
Ma di questa fusione fredda, gestita come scelta per ragioni prevalentemente elettorali e pertanto priva di un progetto e di un'anima, il PD ha pagato tutti i costi: dalla costituzione al suo interno di gruppi, grosso modo riconducibili ai precedenti partiti fondatori, che hanno agito come correnti di potere e che hanno condotto tra loro una lotta sotterranea fino a pianificare scelte sciagurate (l'impallinamento di Prodi da parte dei 101 e più, ne è la più triste conferma), alla rottamazione renziana della precedente classe dirigente del partito rimasta intrappolata nella gestione della non-vittoria del 2013; per finire con la personalizzazione del potere che ha costituito il motivo della forza e della caduta di Renzi. La più recente scissione della componente (prevalentemente) ex-diessina si iscrive anch’essa tutta dentro questa logica della sopravvivenza politica che il PD non è riuscito a moderare e nobilitare.
La trasformazione del PD nel PdR (Partito di Renzi), che Diamanti ha descritto molto bene, sta tutta in questa logica, già incarnata da Berlusconi e cui lo stesso Prodi, in qualche misura ha dovuto cedere, di pensare secondario il progetto (non il programma, ma il progetto, ovvero la visione della società e della politica) rispetto alla figura carismatica e leaderisticacapace di impersonare il modello più convincente di politico. Che le sezioni, e poi i Circoli, siano sparite o siano rimaste aperte solo per la conta e un residuale scambio di favori è l'inevitabile e prevedibile conseguenza. Per lo stesso motivo si è pensato di soddisfare ill diffuso bisogno di riforma del sistema, acuito da anni di immobilismo, con proposte non sempre lineari e fattibili. Di fronte alle aspettative per le promesse non realizzate è dilagata la delusione. Con la quale ora ci troviamo a che fare.
Cosa è mancato dunque alla realizzazione del progetto iniziale? Esattamente il progetto, o meglio la centralità del progetto. Il PD si è illuso che, occupando lo stesso bacino ideale e politico dell’Ulivo, che nasceva con ben altri presupposti e scenari politici, questa sovrapposizione fosse sufficiente a garantire le simpatie dell'elettorato. Il quale invece, complice anche la crisi e il profilo politico assunto dal partito, si è pian piano allontanato dall’alveo iniziale, mentre nel frattempo crescevano nuovi luoghi dove sognare un cambio di passo. Luoghi populistici, senz'altro; poco credibili, certo; ma in ogni caso capaci di attrarre i delusi di un partito senz'anima.
RIPARTIRE DAL PROGETTO
Il processo di unificazione e di fondazione del PD, avviato un decennio fa, mostra quindi oggi drammaticamente tutti i segni dei ritardi, delle contraddizioni, dei fraintendimenti più o meno voluti. Non è però venuta meno la domanda di unità e di cambiamento. Parlarne oggi, dopo le fibrillazioni e le scissioni, in un clima politico in perenne tensione e un contesto istituzionale assai diverso, di tipo proporzionale e non più maggioritario, è una sfida di non poco conto. È possibile e a che condizione mantenere lo sforzo di un processo che unifichi le forze democratiche e riformatrici e dia loro la capacità di offrire al Paese una proposta chiara, un progetto politico credibile ed efficace?
È necessario fare un bilancio intellettualmente onesto di quanto accaduto in questi anni, dei buoni risultati innegabili, raccolti nel motivare migliaia di amministratori locali di qualità, nel mettere a tema le necessità delle riforme, nell’aver tenuto fermo la barra sull’Europa chiedendo alla stessa di cambiare su più di un aspetto, sulla rigidità dei conti come sull’accoglienza umanitaria sui profughi; ma anche degli errori e delle omissioni della fase iniziale (l’essersi trincerati dietro la saldatura di due gruppi dirigenti e l’aver trascurato l’elaborazione culturale e politica che avrebbe dato forma al nuovo partito) e del periodo recente (la guida solitaria, l’intestazione della riforma elettorale e delle riforme al Governo, la personalizzazione della conduzione del Partito e della stessa campagna referendaria, ecc. )
Se l'analisi è corretta, la direzione di marcia dovrebbe essere esattamente quella di recuperare un'anima, cioè lanciare la palla oltre il muro indicando una prospettiva che recuperi e coniughi i valori di quella che può essere oggi sinistra. Se la parola significa ancora qualcosa e non è un fossile della politica degli anni '80, soprattutto va recuperato il senso di un centrosinistra capace di veicolare i valori dell'inclusione, della solidarietà, della centralità sempre e dovunque della persona umana, della difesa degli ultimi dallo strapotere dei potenti, del rispetto dell'ambiente, della pace. Questo sarebbe un grande servizio, anche in considerazione della necessità di fornire alla popolazione italiana, nell’attuale contesto relativistico e individualistico, una piattaforma valoriale condivisa, in grado di farci sentire appartenenti ad uno stesso popolo e al mondo; una identità plurale e solidale.
L’impresa decisiva cui porre mano, all’interno del PD e sul quadro politico generale, è quella di dare un robusto rinforzo all’identità democratica: un’identità fragile nel nostro Paese, anche a motivo di una storia breve. Proprio per questo lo sforzo di una democrazia possibile nel tempo della globalizzazione e nell’insorgere di forme identitarie e sovraniste è decisivo. È la democrazia che deve offrire le risposte a questa nuova fase della modernità, coniugando la dimensione sociale con la necessità di uscire da una crisi economica che mette in difficoltà larghe fasce della popolazione. La democrazia oggi non deve fare più i conti con rischi totalitari nelle forme conosciute nel passato ma con una difficile complessità sociale che può generarne di nuove altrettanto pericolose.
Così come sarà necessario mettere al centro dell’azione politica il nostro radicamento in Europa, un Continente forse a due velocità, ma un’Europa più politica; perché sappiamo che, se non si fa un passo avanti in questa direzione, se ne faranno più di uno indietro. Quasi a dire che l’Europa è la cifra del rinnovamento: la frammentarietà dei soggetti sociali, dei ceti, la presenza di nuove realtà e di un forte flusso migratorio, non sono fenomeni da comprendere e da affrontare su di un piano unicamente nazionale, ma trovano la loro comprensione e soluzione solo in un quadro più vasto. La partecipazione all’Europachiede allargamento di orizzonti, capacità di portare in quel contesto un contributo forte, e allo stesso tempo, di generare consenso introno ad un progetto che chiede di rinunciare a parte della sovranità per una cittadinanza più grande, per l’appartenenza ad una comunità politica più ampia. Dobbiamo rendere accogliente l’Europa anche per una pluralità di culture e di religioni: il modo vero per uscire dalla crisi di identità, da quell’insieme di paure e di sfiducie che sembrano dominare il presente e ipotecare il futuro. È per questa via che si potrà costruire una prospettiva politica che consenta di fare davvero un passo avanti.
La necessità di cambiare investe con forza anche le dinamiche interne del partito. Si dovrà affrontare finalmente il significato della forma partito, sapendo che non è facile radicarlo nella cultura presente, essendo convinti allo stesso tempo della necessità di luoghi intermedi capaci di raccogliere la domanda politica e trasformarla in proposta, favorendo intorno il consenso. Vi è la necessità di cambiare passo, a partire dal modo di intendere la leadership politica, così come vi è da cambiare passo nella concezione di un partito plurale: non si tratta solo di essere inclusivi rispetto singole persone, si tratta di valorizzare le diverse componenti culturali arrivando a sintesi di qualità. Senza dubbio non è una buona pratica politica avviare e permettere il confronto sulle leggi, specie su quelle di profilo più delicato, quando queste sono già arrivate in Parlamento, costringendo di fatto le voci che esprimono la pluralità del partito a inseguirle, così come fa l’opposizione, per integrarle con emendamenti. Il confronto va fatto prima, nel partito, in organi democratici in cui si decidano le priorità dell’agenda politica, senza mettere i parlamentari nell’imbarazzante condizione di dover apprendere le scelte del partito unicamente attraverso estemporanee interviste sui giornali e in TV.
Tutto ciò non si farà senza una classe dirigente di qualità e di un partito diffuso e vitale: è all’interno della vita del partito che si forma il meglio della classe dirigente. Ad una vita di partito asfittica corrisponde inevitabilmente una classe dirigente cresciuta come un prodotto di laboratorio, incapace di cogliere la portata del progetto e di portarlo avanti. Solo un gruppo dirigente radicato nel territorio e nei mondi vitali, attento ad ascoltare le esigenze delle persone e quindi capace di dialogo anche con chi manifesta o è portatore di istanze differenti, potrà ridare fiato al progetto politico di società rinnovata. La selezione e la cooptazione della classe dirigente non può perciò più essere affidata a meccanismi consociativi o ad apparati di interesse, ma deve aprirsi alla società, anche con un uso sistematico ma rigoroso delle primarie a partire dal livello locale.
Vi è poi la questione del cattolicesimo democratico o comunque la presenza di una componente caratterizzata in tal senso all’interno di un PD pluralistico. È sotto gli occhi di tutti come anche a fronte della recente scissione nel PD questa componente sia afona e le venga riconosciuto un ruolo molto più marginale di quello riconosciuto nel partito a segmenti minoritari, in più di un caso appartenenti ad una matrice laicista. Tutto ciò non è più sostenibile. Vi è tra l’altro il rischio che, se il PD non riesce ad attrarre un ampio consenso del cattolicesimo italiano, si finisca per consegnarlo irrimediabilmente a soggetti politici conservatori, con il duplice e paradossale risultato di alimentare una deriva di destra pericolosa per la società italiana e disconoscere, per quanto riguarda la tradizione di cui il PD vuole continuare a farsi interprete e rappresentante, la forza e il valore di un pensiero e di una presenza che va da Murri a Sturzo, da De Gasperi a Moro. Non si tratta di ottenere garanzie di quote, in nome di un richiamo nominalistico, ma di rivedere radicalmente le regole interne di partecipazione, il codice etico del partito (su cui si era fatta una positiva opera di elaborazione), che dia rappresentanza al cattolicesimo democratico, che non può che essere uno dei retroterra vitali sul piano sociale e culturale di un rinnovato progetto di PD. Vi sono in proposito temi decisivi che vanno in questa direzione e possono avere un ampio consenso. Ed è su questi temi che abbiamo promosso un incontro nazionale per il prossimo settembre.