I cento anni del PCI

Lunedì, 25 Gennaio, 2021

La storia del Partito Comunista Italiano, dalla sua fondazione, avvenuta a Livorno il 21 gennaio 1921 quando una minoranza di delegati al XVIII Congresso del PSI lasciò tumultuosamente il Teatro Goldoni per riunirsi al Teatro San Marco, dove nacque ufficialmente il nuovo Partito, fino al suo scioglimento, esattamente settant'anni dopo a Rimini, è strettamente connessa alla vicenda politica dell'Unione Sovietica e da essa largamente determinata.

Infatti, come ebbe a rilevare Massimo D'Alema nei dibattiti spesso feroci che portarono alla cosiddetta “svolta” di fine anni Ottanta, non fu il Manifesto di Marx ed Engels a determinare la nascita del PCI, ma i “21 punti”, dettati da Lenin, che regolavano le modalità di annessione alla Terza internazionale costituitasi a Mosca nel 1919 (Internazionale comunista, o Komintern) , nei quali era richiesto apertamente che i partiti socialisti che ad essa  volevano iscriversi adeguassero la loro disciplina interna a quella ferrea del partito bolscevico che aveva conquistato il potere in Russia nel 1917, espellessero dal loro seno i più noti dirigenti riformisti , si preparassero ad una lotta di classe globale senza fidare nella “legalità borghese” e cambiassero il loro nome in “partito comunista” del tale Paese, riconoscendo i deliberati dell' Internazionale (ossia, come apparve da subito chiaro, del partito bolscevico russo, l'unico ad essere andato al potere ed il principale fondatore e finanziatore dell'Internazionale stessa) come vincolanti per la loro azione a livello nazionale.

In quella fase, la scissione comunista rappresentò un oggettivo indebolimento delle chance della sinistra italiana di giocare un possibile ruolo nel difficile processo di riassestamento postbellico del sistema politico italiano, mentre l'emergere di altri soggetti di massa come il Partito popolare non venne recepito se non come un complotto clericale (laddove ad esempio in Germania ed in Belgio le socialdemocrazie riuscivano a governare con i partiti cattolici locali), ed il fascismo incominciava a crescere basandosi sulla paura della grande borghesia industriale ed agraria, spaventata dal fantasma rivoluzionario, e sul risentimento della piccola borghesia che aveva pagato un pesante tributo di sangue durante la Grande guerra e non ne aveva ricavato alcun beneficio, vedendosi anzi in qualche modo messa in angolo dall'ascesa del proletariato.

La sottovalutazione del fenomeno fascista da parte del gruppo dirigente bordighiano fu spettacolare: il leader del PCI arrivò a dichiarare che se il fascismo avesse veramente “abbattuto il baraccone parlamentare” ciò sarebbe stato un bene, in quanto prodromico alla rivoluzione proletaria e, trovandosi a Mosca nei giorni della Marcia su Roma , a chi gli chiedeva che cosa stesse accadendo in Italia rispose con leggerezza  che si trattava di una semplice crisi di Governo “magari un po'agitata”.

Fu sempre l'Internazionale a decidere che la linea dell'isolamento non portasse alcun giovamento, e che contro il fascismo si dovesse adottare una linea unitaria con i partiti socialisti: di fronte al rifiuto di Bordiga, i dirigenti moscoviti (“ il Komintern decide e manda”, come scrisse giustamente Giorgio Bocca) decisero di sostituire la direzione con una più disponibile alla nuova tattica, in cui spiccavano Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti: si noti che tale cambiamento avvenne perlopiù per linee interne, al punto tale che Gramsci conquistò di fatto la direzione del partito mentre nemmeno si trovava in Italia, e l'adattamento del PCI alla nuova strategia avvenne dopo un duro scontro fra Bordiga e Stalin, allora astro emergente del bolscevismo sovietico, e punto di riferimento del nuovo accordo fra il “centro” e la “destra” del partito che coinvolgeva tutte le sezioni dell'Internazionale e tagliava furi tutte le sinistre , da Trockij a Bordiga.

Certo, il PCI di fatto fu l'unica forza politica a mantenere una presenza più o meno attiva, per quanto clandestina, durante il periodo della dittatura fascista, e nella lotta generosa di molti suoi militanti nella guerra di Spagna e in quella resistenziale conquistò la sua legittimazione agli occhi di larghi settori del popolo italiano, sia fra i ceti proletari che fra quelli intellettuali. Ma nello stesso tempo il PCI agiva riflettendo pedissequamente le direttive di Mosca, che ormai, consolidatosi il potere di Stalin concepiva il Komintern come strumento della politica estera sovietica, determinando prima la linea della contrapposizione totale con la socialdemocrazia, poi quella dei fronti popolari in nome dell'unità antifascista e poi quella della pratica neutralità fra nazisti ed antinazisti dopo il Patto Molotov – Ribbentrop che poi diventò appello alla lotta antifascista generalizzata dopo l'invasione tedesca dell'URSS, con contestuale scioglimento del Komintern come atto di buona volontà nei confronti delle democrazie occidentali.

La stessa scelta di Togliatti di non porre la questione istituzionale, ossia il superamento della monarchia, come condizione per collaborare con le altre forze antifasciste italiane -la cosiddetta “svolta di Salerno” del 1944- corrispondeva probabilmente i convincimenti del leader del PCI, ma era anche il frutto di istruzioni che Stalin aveva direttamente impartito a Togliatti prima del suo rientro in Italia in nome della lotta unitaria contro Hitler ed i suoi alleati.

Lo strumento principale della penetrazione del PCI nel mondo della cultura era l'abile gestione del pensiero di Antonio Gramsci così come emergeva dalle sue lettere e dai suoi “Quaderni del carcere”, di cui Togliatti gestì l'editing, sopprimendo talvolta ciò che non serviva ed utilizzando ciò che era funzionale alla strategia di delineare, attraverso un pensiero diverso dal leninismo spesso rozzamente tradotto tipico degli altri partiti comunisti occidentali, un pensiero che in qualche modo si confrontava con la grande scuola dell'idealismo e anche con il cattolicesimo, che tuttavia (ed è una distorsione che è rimasta presente, forse anche fino ad oggi, nella dirigenza comunista e postcomunista) veniva costantemente interpretato non nella sua autonomia intellettuale e politica ma come puro riflesso della posizione di un altro centro di potere.

In questa prospettiva, Togliatti fu molto disturbato dalle “rivelazioni” contenute nel famoso “Rapporto segreto” di Kruscev al XX Congresso del PCUS che mettevano in evidenza gli errori ed i crimini perpetrati fra gli anni Trenta ed i primi anni Cinquanta mettendoli interamente a carico di Stalin e degli uomini a lui più vicini. Naturalmente Togliatti sapeva bene quello che era accaduto, visto il ruolo importante che aveva giocato nel Komintern, ma sapeva anche che tali distorsioni non erano riconducibili ad una persona ma ad un sistema, e proprio per questo riteneva che una denuncia generalizzata facesse più male che bene alla causa complessiva del movimento comunista, soprattutto in un contesto in cui , particolarmente in Occidente, la base del partito era ancora tenacemente legata al mito dell' Uomo d'Acciaio.

Il PCI non fece mancare la sua solidarietà ai sovietici in occasione della feroce repressione della rivolta ungherese, soprattutto quando si rese conto che le uniche rotture sarebbero state quelle di qualche intellettuale o di qualche pur prestigioso dirigente politico come Antonio Giolitti, mentre la base solidarizzava in sostanza con l'azione repressiva dell'URSS: lo stesso Togliatti  arrivò a giustificare due anni dopo l'impiccagione di Imre Nagy e degli altri capi della rivolta ungherese.

Dopo la morte di Togliatti e l'interregno di Luigi Longo, la scelta del gruppo dirigente per il nuovo Segretario era caduta su Enrico Berlinguer, che aveva avuto rilevanti incarichi nell'organizzazione del partito ,ma non apparteneva alla generazione dei fondatori e nemmeno aveva partecipato alla Resistenza: l'esigenza che si sentiva era quella di un cambio generazionale che, senza brusche rotture, permettesse la nascita di una classe dirigente in qualche modo più in fase rispetto ai fermenti della società italiana. In effetti, la cultura politica comunista non apprezzava particolarmente il movimentismo e lo spontaneismo, e persino uno dei dirigenti che era considerato più aperto rispetto a tali istanze, Pietro Ingrao, mise in chiaro che nella sua soggettività il PCI avrebbe giudicato autonomamente i fenomeni di massa e certo non si sarebbe fatto giudicare da loro.

La proposta politica fondamentale di Berlinguer, il “compromesso storico”, ossia la prospettiva di una fase più o meno lunga di governo che vedesse affiancati i partiti che rappresentavano i principali filoni culturali del Paese (cattolici, comunisti e socialisti), pur essendo stata originata nell'immediato dalle conseguenze del golpe cileno del 1973, era in realtà la prosecuzione di quell'idea di unità delle forze popolari che Togliatti aveva formulato ai tempi del CLN e che si ripresentava carsicamente nelle riflessioni della dirigenza comunista. Con ciò Berlinguer riconosceva che nel contesto della Guerra fredda era impensabile che una sinistra a trazione comunista andasse al governo con solo il 51% dei voti popolari (che peraltro non aveva), e cercava all'interno della DC interlocutori disponibili a prendere in considerazione tale prospettiva.

Le elezioni politiche anticipate del 1976 avrebbero dovuto segnare , secondo molti, il momento del “sorpasso” dei comunisti sui democristiani: al contrario, la DC recuperò rispetto all'anno precedente e si attestò al 38%, mentre i comunisti salirono al 34% creando di fatto una situazione di impasse che Aldo Moro, presidente della DC  e possibile interlocutore individuato da Berlinguer per la sua strategia, risolse con l'affidamento dell'incarico di formare il Governo a Giulio Andreotti, uomo della destra dc gradito agli USA e al Vaticano, che formò un monocolore democristiano, sul quale il PCI e gli altri partiti democratici si astennero dando volta a volta il consenso sulle principali scelte legislative.

Va detto che la strategia di Moro era diversa da quella di Berlinguer: egli non immaginò mai una coabitazione al governo fra DC e PCI, quanto piuttosto una collaborazione del PCI come sostegno esterno al Governo per una fase più o meno lunga dopodiché si sarebbe potuto arrivare ad una vera  democrazia dell'alternanza . Moro, per la sua lunga pratica di governo, aveva una più consapevole visione rispetto a Berlinguer delle conseguenze interne ed esterne dell'avvicinamento del PCI a ruoli di governo.

Il rapimento e la morte di Moro di fatto posero fine alla politica detta della “solidarietà nazionale”: il PCI combatté con coraggio e determinazione contro il terrorismo, anche quello di matrice marxista, sia per difendere quell'ordine democratico di cui si sentiva parte, sia perché oggettivamente i terroristi, che nelle università, nei quartieri e nelle fabbriche godevano di un appoggio non maggioritario ma più ampio di quanto si poteva credere, erano di fatto un avversario del partito comunista nella lotta per l'egemonia sulla classe operaia.

Le elezioni del 1979 segnarono per il PCI un periodo di discesa inesorabile sotto il profilo elettorale, mentre la DC chiudeva tutte le prospettive di una collaborazione di governo e a sinsitra spuntava un antagonista diverso nel PSI di Bettino Craxi, che metteva radicalmente in discussione gli stessi presupposti ideologici dell'egemonia comunista in nome di una concezione dinamica del riformismo e la pratica spregiudicata del potere di interdizione che derivava dalla posizione centrale del PSI fra democristiani e comunisti. A questa situazione, che peraltro corrispondeva alla crescente ed evidente senescenza delle dittature comuniste orientali, Berlinguer rispose con una politica di sostanziale arroccamento del PCI , che ebbe la sua espressione più alta nella cosiddetta “questione morale”, intesa come delegittimazione globale del sistema politico basato sull'accordo fra DC e PSI , evocando la prospettiva di un “Governo degli onesti” di cui il PCI avrebbe dovuto essere il perno come sola alternativa possibile: prospettiva irrealistica, anche perché nessuno era disposto a riconoscere ai comunisti il diritto di rilasciare patenti di onestà a chicchessia, e comunque l'onestà non è una categoria politica.

La drammatica morte di Berlinguer dopo un comizio a Padova, nel giugno del 1984, portava ad una sorta di canonizzazione laica del leader e aiutava il PCI, sull'onda di un'emozione generale,  a ottenere un'effimera vittoria alle elezioni europee di quell'anno, vittoria che rimase un fatto isolato, visto che la dirigenza del partito rimaneva improvvisamente senza una guida e senza una strategia. Dopo l'onesto ma pallido interregno di Alessandro Natta, il gruppo dirigente di quarantenni che si raccolse intorno ad Achille Occhetto cercò di barcamenarsi fra la prospettiva di una progressiva integrazione nella sinistra europea – ossia nella socialdemocrazia- e le residue illusioni sulla capacità della perestrojka di Gorbaciov di dare nuova vitalità al sistema sovietico e a quello dei paesi satelliti.

Il crescente attivismo craxiano, la percezione della marginalità nella società e nel dibattito politico, i deludenti risultati elettorali si incaricavano di smentire tali illusioni, e nel novembre del 1989 Occhetto era costretto a fare il passo che fino ad allora solo i riformisti del partito avevano suggerito venendo perciò anatemizzati: cambiare il nome, lasciare quella ormai imbarazzante espressione - “comunista”- per cercare un diverso ubi consistam nella socialdemocrazia europea. In ogni caso, il fatto che Occhetto avesse preso questa decisione all'indomani del crollo del Muro di Berlino, simbolo della divisione dell'Europa fra democrazia e dittatura, stava una volta di più a dimostrare che il legame del PCI con le vicende sovietiche era più forte di quanto si potesse immaginare, e che era inevitabile che un partito nato da un diktat formulato a Mosca quando veramente pareva che la Rivoluzione d'Ottobre incarnasse il sole dell'avvenire finisse la sua vicenda storica nel momento in cui quella rivoluzione e ciò che ne era nato venivano consegnati agli archivi della storia.

Paradosso di un'esperienza storica che era riuscito ad essere insieme un grande partito nazionale , un perno essenziale nella lotta di liberazione antifascista e nella formulazione della Costituzione repubblicana, un educatore politico di grandi masse ed un baluardo nella lotta contro il terrorismo ed allo stesso tempo il terminale italiano di una potenza straniera e l'asseveratore consapevole della grande menzogna (per usare le parole di Giovanni Paolo II) a cui si era ridotta l'impalcatura leninista e staliniana, oltreché, oggettivamente, la causa prima dell'impossibilità di una fisiologica alternanza di governo per i primi cinquant'anni della storia repubblicana.