Dopo il viaggio di Francesco

Martedì, 9 Marzo, 2021

Ora che Francesco è decollato da Baghdad, a poco più di 24 ore dalla storica recita dell'Angelus nella cattedrale di Qaraqosh e la Messa allo stadio Franso Hariri di Erbil, sopiti per le strade i canti in arabo e aramaico inframmezzati da ritornelli in italiano, viene spontaneo abbozzare un primo bilancio su questa visita. Un viaggio storico. Dirlo ormai è uno slogan. E allora, per citare il cardinal Louis Sako, patriarca caldeo di Baghdad, “più che un evento questo viaggio sarà un avvento”, aveva dichiarato. Difficile, ora che Pietro è passato per chi abitualmente ragiona più di geopolitica che di questioni di fede, fare sintesi fra mille emozioni e simboli nel cuore. La visita del vescovo di Roma - dopo che nel 1999 a san Giovanni Paolo II venne impedito di compiere il pellegrinaggio per il Giubileo del 2000 – è stata in questa terra che ha conosciuto, in soli 20 anni, l'embargo internazionale, la seconda guerra del Golfo con la caduta di Saddam Hussein, l'invasione americana, l'avanzata del terrorismo jihadista (si ricorderà la strage di Nasiryah dei 17 carabinieri e i 2 documentaristi italiani e 9 iracheni), interminabili crisi di governo e corruzione e, solo da ultimo, l'invasione e la furia terroristica del Daesh.

Cosa sia stato l'Angelus di domenica scorsa a Qaraqosh, è emozione nella fede che va condivisa e si ha la responsabilità di spiegare. Tahira, la cattedrale dell'Immacolata concezione della cittadina, è la più grande chiesa dell'Iraq che all'inizio del 2017 venne liberata da tre anni di occupazione del Daesh: l'altare era stato spogliato dei marmi grigi, le colonne di pietra chiara e lucente annerite dal fumo delle panche che, divelte a accatastate, erano state incendiate.

L'immagine simbolo, che ancora strazia i cuori, di quella furia iconoclasta è quel manichino divenuto bersaglio per i cecchini che del chiostro della cattedrale avevano fatto il loro poligono di tiro. Per questo accogliere Francesco a Tahira (Maria purissima) è stato un segno di resurrezione per questo villaggio di 25 mila abitanti – il doppio prima del Daesh – che per la festa delle Palme da sempre scendono tutti in piazza con i loro canti in aramaico e arabo.

Una domenica delle Palme per questa Chiesa di rito siro antiocheno dove si parla e si prega ancora in aramaico, con liturgie e comportamenti che risalgono alla Chiesa delle origini (il III secolo d.C. Scrivono gli storici). Francesco, venuto in Iraq come pellegrino penitente di pace, ha compiuto a Najaf e Ur passi decisivi e innovativi nel cammino – ancora agi inizi per di capire – nel cammino della fratellanza umana avviato con la firma il 4 febbraio 2019 del Documento di al-Azhar assieme al grande imam al-Tayyeb, il leader dei musulmani sciiti. Saranno i prossimi mesi, e sicuramente la storia, a dirci cosa abbia rappresentato con una sguardo universale, questo viaggio apostolico.

Ma la carezza del Buon Samaritano, del vescovo di Roma, sulle ferite di questa Chiesa d'Oriente, è pure un pegno a conservare con la loro sopravvivenza in Iraq (come del resto in Siria, Libano e Terra Santa), le nostre radici, inscritte nel sangue e nelle tradizioni di questo piccolissimo gregge (300mila ora in Iraq, quando erano 1 milione e mezzo prima di Saddam, mentre altrettanti vivono in diaspora negli Usa, in Australia e nel Nord Europa).

Quando nel 2014 in 150mila si riversarono nei campi profughi del Kurdistan iracheno, a chi chiedeva loro perché non avessero abiurato, semplicemente rispondevano, seduti dentro un container o in un vano di un centro commerciale adibito a provvisoria dimora: “Abbiamo perso tutto, ma non abbiamo perso la fede”. Non lasciamoli soli, riscopriremo le nostre radici.

Luca Geronico
Inviato di Avvenire in Iraq in occasione del viaggio di Papa Francesco