La democrazia multiculturale all’inglese riuscirà a resistere all’assalto del radicalismo islamico e ai timori per la sicurezza che gli attentati di Londra e di Manchester hanno fatto nascere nelle menti di un’alta percentuale di cittadini? La domanda viene posta con frequenza negli ultimi giorni dalla tv e dalla stampa del Regno Unito e segna in maniera profonda il dibattito politico in un Paese alla vigilia del voto anticipato dell’8 giugno, ormai sull’orlo di una crisi di nervi collettiva dopo la scoperta che lo stragista suicida di Manchester era un suddito della regina. La sensazione prevalente è che qualcosa non abbia funzionato a dovere nella strategia scelta in passato dagli esecutivi conservatori o laburisti per accogliere e integrare chi proveniva dall’Africa o dall’Asia. E, soprattutto, che l’eccessiva tolleranza nei confronti di chi, in alcune moschee, predica la guerra santa contro l’Occidente abbia favorito il proselitismo jihadista che ha poi trovato terreno fertile tra molti giovani di fede islamica. Secondo un’indagine appena diffusa dall’associazione Aurora Humanitarian, oltre metà dei britannici ritiene che la cultura nazionale sia in questo momento minacciata dalla forte presenza di minoranze etniche, un terzo aggiunge che agli immigrati poveri sono garantiti troppi sussidi e che le misure di welfare dovrebbero essere riviste in maniera profonda per impedire abusi da parte di chi arriva dall’estero.
Sotto il profilo politico, sottolineano studiosi anche di scuola liberal, l’errore più grave compiuto a partire dagli anni Ottanta è stata la rinuncia alla tutela di un’identità nazionale condivisa in favore di un modello che ha lasciato eccessivo spazio alla diversità. A sostenere questa ipotesi è, tra gli altri, Trevor Phillips, intellettuale laburista di origine caraibica, a lungo presidente della commissione per l’eguaglianza razziale. Phillips è certo che in nome di un’idea astratta di correttezza politica si sia permessa una separazione tra i gruppi capace, in alcune particolari circostanze di sottosviluppo, di alimentare esplosivi conflitti su basi religiose. L’allarme lanciato da Phillips poggia su allarmanti dati concreti di cui si è avuta conferma in recenti sondaggi: un quinto dei musulmani britannici, documentano gli istituti di ricerca, antepone la fratellanza islamica mondiale alla lealtà nei confronti del Regno Unito, una percentuale di poco inferiore – che si impenna tra i cittadini di origine pachistana – giudica “martiri” i terroristi.
Il problema con il quale gli ultimi governi sono stati costretti a fare i conti non nasce dal numero complessivo degli islamici presenti nel Regno Unito (Francia e Germania superano le percentuali inglesi), ma dalle caratteristiche di una parte di questa popolazione. I sociologi, infatti, sono abituati da molto tempo a distinguere i “British Muslims” dai “Muslims in Britain”: mentre i primi, che rappresentano la maggioranza, si sono integrati nel contesto anglosassone, i secondi rifiutano di farsi assimilare dalla cultura europea e intendono utilizzare a loro vantaggio tutti i mezzi legali che le norme in vigore mettono a loro disposizione opporsi all’assimilazione. Non è del resto un caso se buona parte dei predicatori dell’odio che operano in alcune moschee di Londra, Manchester o Birmingham siano rifugiati politici arrivati dall’Asia, dal Medio Oriente o dal Corno d’Africa. Con l’inasprimento delle misure antiterrorismo approvate qualche mese fa dai Comuni dopo l’accordo raggiunto tra tutte le forze politiche gli imam ritenuti pericolosi vengono espulsi. Ma le cassette audio e video con i loro elogi della guerra santa continuano a circolare tra i giovani dei ghetti urbani pronti a trasformarsi in stragisti. E’ accaduto a Manchester pochi giorni fa, potrebbe accadere ancora avvertono Scotland Yard e la premier May. In Gran Bretagna, intanto, i reati a sfondo razziale sono saliti in misura preoccupante nel corso degli ultimi mesi e alcuni cittadini di colore sono stati uccisi senza motivo da bande di ubriachi con la pelle bianca.
Il rischio che la situazione sfugga di mano all’esecutivo, mandando in pezzi la società multiculturale, è dunque altissimo nel Regno Unito. Le bombe non cambieranno la nostra esistenza, hanno affermato concordi la regina Elisabetta e Theresa May dopo gli attentati di Londra e di Manchester. Ma quella che nel 2005, subito dopo la strage nella metropolitana di Londra, era un’orgogliosa promessa pare essere oggi solo una speranza. Per mantenerla in vita è indispensabile individuare in fretta i registi degli attentati e, soprattutto, ricostruire su basi nuove i rapporti tra le etnie, affiancando alla cultura dei diritti anche la cultura dei doveri verso la comunità nazionale. Sarebbe comunque miope credere che si tratti di un problema esclusivamente britannico. L’intera Europa, infatti, è costretta a misurarsi con la minaccia del radicalismo islamico. Anche se, almeno per ora, Bruxelles tarda purtroppo a mettere in campo efficaci interventi di contrasto coordinati a livello comunitario. Nonostante gli esperti abbiano da tempo avvertito i singoli governi dell’importanza di unificare gli sforzi per contrastare il disegno criminale dei fondamentalisti.