Dare un senso alla crisi di governo

Mercoledì, 27 Gennaio, 2021

Le dimissioni del Presidente de Consiglio dei Ministri che aprono formalmente la crisi di governo rappresentano il precipitato non solo della crisi politica della maggioranza parlamentare che si trascina da due mesi ma, più ampiamente, palesano una più profonda crisi politica del paese. Il ventaglio di scenari e possibili soluzioni che in queste ore emergono dentro il dibattito politico e che fanno da cornice alle consultazioni del Presidente della Repubblica alimentano forse la creatività del lessico politico con termini come “responsabili”, “costruttori” o “governo si salvezza nazionale” oppure ripropongono una terminologia, quella dei “partiti” ad esempio, il cui uso procede per forza d’inerzia sebbene non corrisponda più alla realtà delle cose. È un quadro, questo, nel quale viene lasciata irrisolta la questione di dare al paese una soluzione che, oltre ad essere percorribile, sia dotata anche di un adeguato spessore politico.

Al netto delle molteplici critiche sulla “incomprensibilità” della crisi di governo, servirebbe forse prima di tutto cogliere l’occasione di questo passaggio istituzionale per guardare al vero nodo politico, che certo non può essere ridotto alla questione della formazione di un nuovo gruppo parlamentare e della sua eventuale consistenza. Vi è infatti da discutere la più decisiva questione della finalità che si vuol assegnare ad un nuovo governo e dunque del progetto politico di cui le forze della maggioranza parlamentare intendono farsi carico e che dovrebbe poi tradursi in una compagine ministeriale che ne sia la coerente conseguenza politica. 

Questo significa però uscire dal modo in cui la discussione ha preso forma: non limitarsi cioè a ragionare sul “cosa fare” (Costruire un gruppo di responsabili? Ricostruire la maggioranza con Italia Viva? Andare ad elezioni anticipate? etc.) come se la risoluzione di questo quesito potesse esaurire l’attuale passaggio politico. Si tratta, al contrario di porre il “come” in subordine ad altre questioni più profonde e più squisitamente politiche, ossia: quale situazione dobbiamo affrontare? Quale direzione intendiamo perseguire?

Sono queste le premesse per un lavoro pienamente e compiutamente politico, che sia cioè radicato sull’analisi del passaggio nel quale ci troviamo e che di conseguenza si inquadri non in una lettura di corto respiro e resti prigioniero di una personalizzazione delle scelte di partiti e governo. Limitarsi a soppesare le responsabilità individuali di Renzi, o Conte, o Zingaretti, o Salvini, e a giudicarle con un metro moralistico di opportunità o meno non aiuta ad affrontare questa sorta di avvitamento del quadro dei rapporti fra Governo e Parlamento.

Serve allora un’intelligenza politica di quanto accade, la quale necessita di articolarsi in due direttrici. Da un lato, si deve tentare di comprendere che cosa dicono alcuni aspetti delle vicende di questi giorni, in particolare: il ruolo del Presidente del Consiglio dimissionario, quello dei partiti e dei gruppi parlamentari, quello dell’opinione pubblica. Dall’altro lato, è urgente dispiegare una valutazione del quadro sociale, politico e storico non solo italiano, ma europeo e internazionale nel quale tutto questo avviene.

La comprensione del ruolo svolto dai principali attori di questa crisi di governo consente di focalizzare alcuni nodi strutturali del nostro orizzonte politico. La figura del Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, appare al centro di valutazioni di segno opposto, quasi manichee nel loro giudizio. Da un lato, se ne rivendica la buona gestione dell’azione di governo in tempo di pandemia, gli si riconosce la funzione di punto di equilibrio, soprattutto rispetto alle fragilità interne del Movimento 5 Stelle e alle incertezze del Partito Democratico. Tutti elementi che troverebbero conferma nell’alto grado di popolarità di cui Conte gode nell’opinione pubblica, dovuto anche al suo non essere organico a nessuna forza politica e dunque percepito come figura istituzionale piuttosto che politica. Dal lato opposto, il Presidente del Consiglio viene associato al trasformismo parlamentare e ad una gestione opaca di importanti aspetti dell’azione di governo. Entrambi questi orientamenti restituiscono forse una parte di verità sul ruolo del Presidente Conte, ma non colgono il valore storico-politico della vicenda di una figura che presiede, in successione, governi con maggioranze opposte, che svolgo azioni di governo opposte che si annullano a vicenda (es. i decreti “Salvini”) e che sceglie di impostare la costruzione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza all’interno degli uffici di Palazzo Chigi prima e quindi con un limitato o faticoso coinvolgimento di una parte ristretta della compagine ministeriale (il Ministro dell’Economia e quello degli Affari Europei). Alla radice di queste scelte vi è un modo di intendere il ruolo di Presidente del Consiglio che esplicita un orientamento largamente diffuso e maggioritario all’interno della classe politica e non solo: l’idea che ricoprire una carica istituzionale e assolvere a funzioni di governo significhi essenzialmente dispiegare un’efficace attività amministrativa, perché solo questo garantisce da indebite ingerenze di partiti che, come tali, farebbero l’interesse “di una parte” soltanto. Vi è in questo il segno di un progressivo scollamento fra la pratica del governare e la politica intesa come capacità di comprendere la realtà e costruire prospettive possibili.

Complementare a questa valutazione è quella che emerge riguardo al ruolo dei partiti, i quali si caratterizzano per una serie di scelte e modalità di agire che tradiscono l’esistenza di un quadro plurale. Esistono formazioni politiche costruite attorno ad una figura forte, si pensi a Italia Viva e in parte, ancora, a Forza Italia, o al paventato “partito di Conte”. Vi sono poi forze più strutturate, almeno sul piano formale, come la Lega o il PD, che possono vantare una struttura ancora esistente e una “classe” di amministratori e parlamentari che hanno una esperienza istituzionale strutturata. A questo si aggiunga il Movimento 5 Stelle, che attraversa una fase ancora incompiuta verso una forma più definita di soggetto politico. Tutto questo ha dato vita a dinamiche parlamentari che tradiscono una realtà nella quale coesistono prassi ancora “novecentesche” ­– si pensi ad esempio alla scelta del PD, del Movimento 5 Stelle e di LeU di ragionare in termini di “allargamento della maggioranza parlamentare” – in assenza però dello spesso politico che nel “secolo breve” i partiti avevano. La costituzione di un nuovo gruppo parlamentare, infatti, non implica un coinvolgimento nell’area di governo di forze politiche capaci di ampliare e articolare un processo di costruzione del consenso dentro la trama del paese. Ci si muove dunque come se i partiti che siedono in Parlamento avessero una consistenza sociale e culturale che era propria di soggetti come la D.C. o il P.C.I. e che invece non è più parte di questa stagione politica. Ci misuriamo così con la realtà di un quadro politico che non si è ancora posto il problema della fine dei partiti novecenteschi, dunque del superamento storico che si è determinato delle culture politiche che identificavano quei partiti “di massa”, e che non si pone il problema di ripensare la partecipazione democratica dentro un contesto in cui le “masse” non sono più i soggetti dell’agire politico.

Un terzo tassello di questo quadro, conseguente ai primi due, è rappresentato dal ruolo che ha svolto e continua a svolgere l’opinione pubblica nella vicenda della crisi di governo. Al di là delle prese di posizione di segno opposto di quanti sostengono o meno l’operato del secondo governo presieduto da Giuseppe Conte, l’atteggiamento generale che emerge, tanto dai mezzi di comunicazione quanto da quello che restituiscono le più attente rilevazioni statistiche e demoscopiche, è quello dello “spettatore”. Si ha cioè l’impressione di uno scollamento oramai strutturale fra il piano delle dinamiche parlamentari e di governo e più in generale politiche e quella che è la vita sociale, culturale, economica del paese, così che i cittadini si percepiscono come il pubblico che assiste alla lotta politica ma alla quale non sente di dover prendere parte e rispetto alla quale non intende assumere una esplicita responsabilità se non quella, in occasione dei passaggi elettorali, di scegliere una parte. Questo riduzionismo della funzione dell’opinione pubblica e dello spessore politico democratico della cittadinanza è il frutto di un percorso lungo, che inizia con lo scivolamento della pratica politica verso la dimensione dello “spettacolo” ed è costellato da una serie di “parole d’ordine” che, lungo almeno un trentennio, sono progressivamente entrate a far parte della sensibilità culturale collettiva. In questa direzione è andato il progressivo affermarsi del mandato parlamentare ora come semplice “investitura” del potere da parte dei cittadini ora come esercizio di una funzione di “portavoce”, svuotato di ogni responsabilità diretta. Ugualmente, l’aver schiacciato la valutazione politica su quella morale è alla radice sia dell’idea che ci si debba limitare alla scelta di “onesti amministratori” e che in questa scelta valga il principio “uno vale uno”, che annulla la responsabilità politica dei cittadini di concorre alla selezione della classe dirigente e di avere con essa un rapporto strutturato.

Se la crisi di governo attuale rappresenta l’ultima manifestazione, in ordine di tempo, del saldarsi di questi tre nodi problematici – natura della politica, forma della nostra democrazia, relazione fra politica e paese – la cornice nella quale tutto questo avviene permette un ulteriore approfondimento della valutazione politica e dunque delle prospettive che si aprono con le conseguenti responsabilità. Molto si è parlato della necessità di completare rapidamente il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza per avere accesso alle risorse previste per il nostro paese, sottolineando giustamente l’importanza strategica che questo ha per dare un possibile orizzonte alla nostra economica. Tuttavia, non sembra emergere la portata politica storica del passaggio in questione, che va al di là del semplice documento che il Governo è chiamato a sottoporre alla Commissione Europea. La stesura di questo testo è infatti uno dei molti passaggi di un processo più esteso, iniziato nella primavera 2020, che ambisce a ridisegnare il volto dell’Unione Europea come realtà dotata di una specifica soggettività politica. La crisi pandemica e le sue conseguenze economico-sociali, hanno segnato la crisi di una impostazione che guardava all’Unione come ad uno spazio retto dalle quattro libertà (libera circolazione delle merci, libera circolazione delle persone, libera prestazione dei servizi e libera circolazione dei capitali) e spinto in direzione della costruzione di un centro di gravità politica e istituzionale pienamente europeo. Un processo che passa proprio per il Next Generation EU, sostenuto dalla Francia e costruito e impostato dalla presidenza tedesca dell’Unione. Significativamente, la capacità della cancelliera tedesca Angela Merkel di far accettare ai più restii (ad esempio ai governi olandese e austriaco) che il primo e più forte beneficiario di questo piano sia proprio l’Italia, non è solo frutto di un interesse “nazionale” tedesco: il fatto cioè che una frantumazione dell’economica italiana coinvolgerebbe anche quella della Germania. Vi è piuttosto una comprensione politica del fatto che dopo decenni di faticosa integrazione non è più possibile distinguere i confini fra una economia e l’altra e che dunque quel che chiede di essere governato non coincide più con i confini territoriali di sovranità nazionali. Quelle sovranità non bastano più: serve un “sovrano” commisurato alla realtà delle cose. Tutto questo, però, rende il nostro paese un tassello cruciale di questo faticoso salto di qualità politica dell’Unione Europea: un fallimento dell’Italia nel recepire un progetto che, istituendo un debito “europeo” rende inevitabile un governo “europeo”, può segnare una implosione del sistema di relazioni dell’Unione rispetto al quale è difficile immaginare gli esiti. Va allora sottolineato come dentro il discorso pubblico e politico italiano “europeista” sia diventato un aggettivo che connota pubbliche professioni di fede europea o al massimo qualifica quanti si riconoscono nel voto della così detta “maggioranza Ursula”, palesatosi il 16 luglio 2019 in occasione del voto di fiducia del Parlamento Europeo alla Commissione presieduta da Ursula von der Leyen. Occorre chiedersi se, di fronte all’orizzonte ambizioso che si apre per l’Unione Europea sia questo l’europeismo appropriato o se invece non si debba guardare a quanti, spesso in silenzio, lavorano e pensano dando per scontato che l’Unione sia lo spazio di “politica interna” nel quale ci muoviamo, che sia “la nostra patria”.

Servirebbe allora una comprensione “europea” della vicenda del nostro paese e soprattutto dei suoi nodi strutturali. Sia di quelli interni, sia di quelli internazionali. Fra questi ultimi, ad esempio, vi è la sostanziale assenza di una politica estera da parte del nostro paese, soprattutto nell’area mediterranea. Le modalità con cui il paese si è posto rispetto alla situazione libica o i risvolti politici sottesi alla vicenda tragica dell’assassinio di Giulio Regeni in Egitto manifestano un evidente ripiegamento dell’Italia dal Mediterraneo e la definitiva perdita di una funzione di equilibrio in quest’area che il nostro paese ha esercitato per molti decenni. Un aspetto, questo, reso ancora più rilevante se si pensa a come il quadro geopolitico muta in queste settimane con la presidenza Biden negli Stati Uniti – che considera Francia e Germania come i principali interlocutori europei escludendo invece l’Italia – e con la penetrazione cinese in Africa accelerata dalla pandemia e dalla scelta del governo di Pechino di fornire assistenza sanitaria ai paesi africani.

Sono questioni di grande rilievo, che hanno radici storiche strutturate e complesse e che tuttavia sembrano al di fuori dell’attenzione politica della nostra opinione pubblica e della nostra classe dirigente.  Soprattutto, sono questioni e nodi che dovrebbero rappresentare il punto di partenza di una gestione della crisi di governo che intenda arrivare a dare al paese un governo fondato su una solida ratio politica e dunque capace, mediante la dialettica democratica, di dare un ritmo adeguato al paese. A questo perimetro di realtà se ne può aggiungere un altro, che riguarda le conseguenze durature della pandemia. Conseguenze che non sono tanto quelle, pur rilevanti, dell’economia, ma piuttosto quelle umane e che trovano una esplicitazione in un elemento che sembra venir confinata alla sfera del dolore privato: l’aumento del 20% del tasso di suicidio fra i giovani, divenuto la seconda causa di morte per la fascia di età compresa fra i 10 e i 25 anni. È questo un elemento che ha una valenza non solo privata, ma più ampia, direi storico-politica, perché è il segno della ferita profonda e duratura che la pandemia lascerà in eredità ai decenni a venire. Quella generazione a cui appartengono questi ragazzi porterà dentro di sé la lacerazione vissuta, con il rischio di riversarla sulla realtà collettiva e innescare processi che possono fare dei prossimi decenni qualcosa di ben più traumatico della “età della rabbia” che viviamo oggi e di cui parla Pankaj Mishra.

È forse su una intelligenza politica di questi caratteri della realtà che viviamo e dei nodi irrisolti del nostro quadro politico che la crisi di governo dovrebbe essere portata, in modo da farne l’occasione per chiamare il paese ad un coinvolgimento attivo e instradarlo in un processo di diffusione della responsabilità politica che può dare risposte durature.

 

Riccardo Saccenti
Comitato Scientifico Argomenti2000