Dal mito del merito alla parabola dei talenti

Mercoledì, 9 Novembre, 2022

In questi giorni si è fatto un gran parlare della parola “merito”, entrata nella denominazione del Ministero dell’Istruzione. Come spesso accade, hanno subito preso parola le opposte tifoserie. Da un lato chi decanta il valore della meritocrazia, dall’altra chi sbandiera quello dell’uguaglianza. Retoriche si rincorrono le domande: cosa c’è di sbagliato nell’idea di premiare il merito? È forse preferibile premiare l’incompetenza? O è forse più giusto trattare in modo uguale i diseguali? Proviamo a riflettere con un pizzico di calma.

Se, parlando dell’opportunità di premiare il merito, intendiamo valorizzare le qualità e l’impegno delle persone, allora stiamo usando questa parola un po’ come avviene quando commentiamo una competizione sportiva e sottolineiamo il fatto che il vincitore si è guadagnato il successo sul campo, che non ha “rubato” nulla, che non ha goduto di alcun indebito vantaggio. Da questo punto di vista, è chiaro che il richiamo al merito serve soprattutto a evitare ingiustizie e iniquità, nonché a celebrare il valore e la determinazione di chi ha saputo mettere a frutto il proprio talento. La cosiddetta “meritocrazia” questo vorrebbe essere: il giusto premio accordato – a seconda dei casi o dei contesti – al valore delle persone. Tutto bene, quindi?

Non proprio. Celebrare il valore non significa, necessariamente, premiare il merito. La cultura meritocratica, infatti, si fonda su alcuni presupposti che rischiano di condurci ben lontano da dove vorremmo. Celebrare il valore significa riconoscerne il talento personale, questo è chiaro; ma la meritocrazia si intesta la totale paternità di quel valore, dimenticando ogni debito di gratitudine nei confronti di ciò che è dato in sorte. Il podio conseguito dal grande campione è tutto merito suo? Il professionista che “si è fatto da solo” non deve nulla a nessuno? I risultati eccellenti nello studio sono dovuti solo al merito personale? Legare con troppa leggerezza l’idea di “successo” a quella di “merito” rischia di far perdere di vista i molti ingredienti di quel risultato che non dipendono affatto da noi: il talento naturale, innanzi tutto, ma anche l’indole, l’istruzione ricevuta, i compagni di viaggio, la fortuna. Accade così che la retorica meritocratica ­– dalla quale dovremmo guardarci con attenzione – tenda a veicolare l’idea che i risultati che conseguiamo siano solo merito nostro; con la sgradevole conseguenza che anche gli insuccessi sono solo colpa nostra (alimentando, nei vinti, il senso di colpa per non aver saputo meritarsi un destino migliore).

Se noi pensiamo che il successo risulti semplicemente dalla somma dei meriti personali – e che, in questo senso, sia giusto premiare il merito – finiamo per diventare sempre meno capaci di riconoscere il nostro debito di gratitudine nei confronti di tutto ciò che abbiamo ricevuto in sorte senza alcun merito, compresa la nostra capacità di impegnarci. Infatti, anche l’attitudine a faticare per conseguire un risultato importante, anche la determinazione, la costanza, la perseveranza sono, almeno in parte, doni che riceviamo senza alcun merito, frutto di un mix di inclinazioni naturali e di educazione ricevuta nei primi anni di vita.

Questo – vorrei rispondere subito alla più ovvia delle obiezioni – non significa giustificare tutto, livellare le differenze o disconoscere il valore delle scelte individuali. Non tutto è già scritto. Non tutto ha lo stesso valore. Il punto è che noi giochiamo la nostra libertà e la nostra responsabilità a partire da condizioni che, in larga misura, non scegliamo e che ci caratterizzano senza merito o demerito alcuno. Dimenticarlo, soprattutto quando conseguiamo risultati positivi, rischia di renderci arroganti, incapaci della doverosa umiltà e, soprattutto, della giusta gratitudine nei confronti di ciò che abbiamo ricevuto in dono.

C’è anche una ragione politica che dovremmo considerare: se pensiamo di essere gli unici artefici dei nostri successi, di esserceli meritati col nostro impegno e le nostre fatiche, finiamo per trattare i perdenti come se fossero i soli responsabili dei loro fallimenti. La retorica del merito, questo il punto, indebolisce i legami sociali e rende la solidarietà una pratica sempre più ardua.

A questo punto sarebbe necessario proseguire ancora, chiarendo con ulteriori esempi quanto qui brevemente accennato. Lo spazio non lo permette e allora, per chi volesse continuare a riflettere, mi permetto un consiglio: Michael Sandel, uno dei maggiori filosofi su piazza, ha dedicato un libro molto godibile a “La tirannia del merito”. Leggerlo aiuta a mettere a fuoco cosa ci sia di umanamente stonato in una società di vincitori e di perdenti; permette di capire come mai “selezionare i migliori” finisca per aumentare, anziché diminuire, disuguaglianze e iniquità, frenando la mobilità sociale e aumentando le frustrazioni. E se proprio vogliamo tenerci stretto uno slogan, io suggerirei il seguente: impariamo a sostituire il mito del talento con la parabola dei talenti; a ciascuno i suoi, senza alcun merito; per tutti il compito di metterli a frutto con responsabilità, a vantaggio del bene comune.

 

*Pubblicato su “La Vita Cattolica” di giovedì 3 novembre 2022.