Costruire possibili nuovi percorsi politici

Lunedì, 2 Gennaio, 2023

 

Vedo – e vivo – lo spaventoso sfacelo di questo Paese (Ungheria ndr), la sua evoluzione verso una paranoia suicida. Giorno dopo giorno, i campioni nazionali dell'odio e i miei ricordi personali mi rendono estraneo a esso. Cresce la mia indifferenza nei suoi riguardi. La lingua – ecco l'unica cosa che mi lega a questa terra. La mia lingua madre, nella quale comprendo i miei assassini...". Imre Kertész, premio Nobel della Letteratura (Budapest 1929-2016). Tratto da Io, un altro. Cronaca di una metamorfosi, Bompiani 2016

Premessa

Dover fare i conti, a 100 anni dalla marcia su Roma, con un governo la cui provenienza politica e culturale ha forti richiami con quel periodo storico, che speravamo di aver definitivamente messo alle spalle, pone serie considerazioni sul senso ormai acquisito da più parti della fine del modello di democrazia liberale nata dalla resistenza.

Sappiamo anche bene che la questione non sta tanto nel pericolo del ritorno a quelle forme di dittatura che negli anni ’30 avevano coinvolto (o meglio “sconvolto”) una gran parte dei paesi europei, ma nella crisi della democrazia rappresentativa su cui il nostro paese ha costruito la propria carta costituzionale e su cui qualche anno dopo è iniziata la costruzione del modello di unione europea, ma nell’avanzare di nuove ipotesi di organizzazione istituzionale e di convivenza civile le cui caratteristiche sono ancora difficili da delineare, ma che si muovono ai limiti delle garanzie democratiche acquisite.

I criteri di analisi non possono non tenere conto infatti della particolarissima situazione che stiamo vivendo in una fase che, citando Papa Francesco, non possiamo non definire di “cambiamento d’epoca”.

Il problema quindi oggi, per chi tenta delle analisi su cui poi costruire possibili nuovi percorsi politici, ma anche esistenziali, è quello di tenere presente alcuni paradigmi “macro” da cui partire per capire il contesto in cui ci stiamo muovendo (un contesto mai verificatosi prima d’ora in queste modalità), partendo però anche da alcuni elementi “micro” in grado di aiutarci non solo a leggere, ma anche ad agire senza perderci troppo nella complessità della svolta di cui non vediamo ancora gli esiti.

Quali sono allora i paradigmi su cui leggere i processi di cambiamento in corso che, secondo alcuni ci stanno portando allo “scivolo che conduce alla fine”? Il sommarsi di crisi climatica, energetica, epidemica, economica, bellica come mai era avvenuto prima assieme a fenomeni quali la denatalità in occidente, l’indebolimento delle democrazie tradizionali (liberali), il collasso delle istituzioni (e quindi anche dei partiti che ne costituivano l’asse portante) ha portato a conseguenze importanti anche ad un livello più propriamente sociale visibili nel prevalere della logica conflittuale frutto delle diseguaglianze che hanno messo uno contro l’altro i “poveri” da una parte e i “più poveri” dall’altra. Sono questioni che riguardano un Occidente”, come lo avevamo pensato, in crisi che non può che ripensare se stesso.

Già più di dieci anni fa Marco Revelli, allora presidente della “commissione d’indagine sull’esclusione sociale (Cies)”, così commentava il rapporto allora appena pubblicato[1]: “Il risentimento sembra diventato costume nazionale, la principale cifra del rapporto reciproco con l’altro. Un rancore acre, sordo, neppure tanto sommerso, che talvolta si fa esplicitamente ferocia verso il basso, là dove la società è più fragile”[2].. “Giorno dopo giorno, impercettibilmente, il senso comune del paese si è trasformato … L’impressione – prosegue – è quella di una regressione civile parallela e in qualche modo connessa a una coeva gestione sociale”.

Inutile dire che su questi processi hanno poi giocato la ricerca di consensi da parte delle forze più populiste e reazionarie del paese che nel frattempo stavano salendo.

Queste dinamiche non sono state capite dal centro sinistra, o almeno non abbastanza, il quale ha preferito schierarsi su fronti più lontani da queste logiche di attenzione alle diseguaglianze per fermarsi a forme di “riformismo di mediazione” disponibile a raccogliere dentro di sé anche dinamiche neoliberiste in una fase di globalizzazione priva di controllo politico.

Dal 2008 (crisi economica) ad oggi si è sviluppato un “conflitto per molti versi nuovo, “orizzontale”, tra poveri (per gran parte classi medie impoverite) o di chi teme l’impoverimento contro altri poveri, “più poveri” alla ricerca di un qualche risarcimento facile[3].

Potrebbe essere tutto questo alla base del fallimento delle democrazie liberali e paradossalmente proprio di quel modello culturale a cui noi stessi abbiamo fatto e continuiamo a fare riferimento e cioè il cattolicesimo democratico da una parte e il riformismo della sinistra socialdemocratica dall’altra? Il nostro posizionamento politico, da cui osserviamo ciò che ci circonda, è forse esso stesso causa ed effetto di una crisi da “cambiamento d’epoca” che fatichiamo quindi a leggere da posizioni nuove così come necessiterebbe? Vale anche per il cattolico impegnato in politica l’indicazione di Papa Francesco fatta alla chiesa universale di evitare il “si è sempre fatto così” e il suo conseguente invito a mettersi in ascolto?

Da dove partire allora?

Alla luce di tutto questo mi sono fatto alcune ipotesi di lettura partendo, come dicevo, da questioni “macro” calandole però su alcune conseguenze “micro” verificabili in alcuni settori delle politiche pubbliche di mia maggiore conoscenza riferiti soprattutto al versante delle politiche del welfare. Questioni con cui dobbiamo fare i conti:

  1. Democrazia liberale, democrazia illiberale, democrazia del merito o nessuna di tutte queste? Cioè: se l’attuale destra non è qualificabile come fascista, ma può trovare maggiore riferimento a forme più vicine al modello “orbanista”[4] col quale operare un passaggio dalla democrazia liberale ad un sistema di cosiddetta “democrazia illiberale” da proporre come nuovo modello anche europeo di “sovranismo, come reagire?
  2. Come parlare di uguaglianza sociale in un contesto di post modernità? Se pare essere entrata nella mentalità comune l’idea della inevitabilità dell’essere diseguali, come dare senso e consenso a nuove forme di lotta alle diseguaglianze?
  3. Vale ancora la pena di parlare di “partecipazione” della società civile e dei cosiddetti corpi intermedi in ordine a decisioni che riguardano presente e futuro delle nostre vite o siamo destinati alla frammentazione degli interessi e alla impossibilità di fare sintesi democratiche? Come reagire con credibilità a chi ritiene tutto questo un inutile tempo perso contribuendo a dare stabilità ad un rapporto diretto tra leader e popolo?
  4. Si all’Europa, ma quale? Ventotene o Visegrad?

 

Questi sono i punti “macro” che mi sono sembrati oggi i più critici, e sui quali ho provato a ragionare partendo da alcuni esempi concreti a partire dai quali costruire possibili “politiche differenti” che possano caratterizzare un fronte che voglia non solo contrastare la destra, ma creare elementi nuovi di azione politica? Elementi però che partano, come vedremo, dal paradigma della “fragilità” intesa come elemento di crescita e di sviluppo inclusivo? I documenti di riferimento sono il programma elettorale di FdI, il discorso di insediamento del nuovo governo e alcuni punti della legge di bilancio inviata dal governo al parlamento, ma anche i segnali lanciati da rappresentanti del governo attraverso lo strumento della provocazione verbale con la quale far intendere che obiettivo del governo non è tanto quello di risolvere problemi, ma quello di creare una nuova cultura nei processi di convivenza civile.

La democrazia del merito?

Cominciamo dall’”ossimoro” rilanciato dal governo Meloni della “democrazia del merito” che separa la competitività dei più capaci dall’assistenza verso chi non ce la fa e che va comunque, per sua colpa, mantenuto ai margini.

Leggendo considerazioni fatte da diversi analisti sulla legge di bilancio in fase di approvazione in parlamento ho provato a verificare quale tipo di impostazione culturale emerge da una norma che rappresenta il livello massimo della connotazione politica di una maggioranza al governo, limitandomi come sempre al settore del welfare. La sintetizzerei con l’appellativo di “welfare condizionale” fondato cioè sul principio che “non esistono diritti acquisiti una volta per tutti dalle persone”. Tali diritti dipendono dal comportamento e dal senso di responsabilità della persona assistita. Il welfare cioè diventa uno strumento per cambiare il comportamento delle persone con l’obiettivo di favorire l’acquisizione di una normalità e di una regolarità nella fruizione dei benefici da parte delle singole persone assieme ad un comportamento disciplinato da parte dei gruppi sociali che vivono condizioni di grave svantaggio sociale. Si tratta di un approccio molto diverso da quello fino ad oggi considerato più giusto (anche se non sempre applicato) dalla cultura prevalente in materia sociale. Un approccio che consiste cioè nel riconoscimento di una condizione di deprivazione e poi nella valutazione del livello di gravità di queste condizioni certificato da una autorità pubblica sulla base di criteri definiti una volta per tutte; in tutto questo la volontà della persona costituiva certamente elemento importante, ma NON condizionante. Il rischio è che le persone che non riescono a comportarsi (per loro colpa???) in modo responsabile perdano il diritto a ricevere le prestazioni di welfare (questa mi sembra la strada). Domanda: Ma quelli che non ce la fanno? Che fanno? Probabilmente si distaccano dai servizi di welfare e si rivolgono ad enti di terzo settore e istituzioni pubbliche locali più o meno sensibili. Si tratta di quello che il ministro Sacconi definiva a suo tempo il “welfare caritatevole” che doveva, a suo avviso, sostituire il welfare pubblico (considerato "invasivo"). Non mi sembra una bella prospettiva. Forse è il caso di tornare a far prevalere la logica costituzionale dell’Universalismo e del rispetto dei Diritti e al welfare dei livelli essenziali e chiedere azioni di questo tipo anche agli enti di terzo settore che, pur facendo assistenza, reclamano sempre garanzie dei diritti per tutti. Nelle proposte di emendamento alla proposta di legge di bilancio presentate di ANCI si propone di istituire il “fondo unico per le politiche Sociali” col quale garantire l’attuazione dei livelli essenziali delle prestazioni sociali (leps) su TUTTO IL TERRTORIO NAZIONALE. L’impostazione data alla proposta di legge finanziaria di riproporre invece “bonus” al posto di interventi strutturali mettendo in discussione a tale scopo la progressività della tassazione nella costruzione di nuove politiche fiscali e di smettere di intervenire contro l’evasione fiscale, pare andare verso la direzione opposta.

L’inevitabilità di essere disuguali?

1. Il caso dell’autonomia differenziata: Nessuno ne parla, ma molti si stanno muovendo verso una prospettiva di cambiamento importante del sistema costituzionale italiano. La strategia sembra essere quella di mascherare il tema come modifica tecnica, di portare la scarna discussione su questioni vaghe e generali (“autonomia” e “responsabilità”), di approvare il tutto con la massima rapidità, senza alcun dibattito parlamentare e certamente senza informare i cittadini sui rilevantissimi cambiamenti che si produrranno. Di che si tratta? La Costituzione prevede (art. 116) che le Regioni a statuto ordinario possano richiedere ulteriori forme di autonomia nell’ambito di un elenco molto ampio di materie, accompagnate dalle relative risorse economiche. Va detto però che se è lecito chiedere non è detto che sia obbligatorio concedere da parte di esecutivo e legislativo i quali, fino a prova contraria rappresentano gli interessi di tutti i cittadini italiani. Lo schieramento a favore di questo rafforzamento dell’autonomia è costituito ad oggi da tre Regioni: Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna le quali hanno sostanzialmente marciato unite (pur con alcune differenze). Le richieste avanzate dalle stesse hanno riguardato tutte le competenze in capo allo Stato centrale!!! Quali sono state le risposta dei governi in questi anni? Governo Gentiloni pochi giorni prima delle elezioni 2018: Prevedeva la possibilità che i territori più ricchi trattenessero parte del proprio gettito fiscale. Governo Conte 1: il suo programma dava la massima priorità al tema. Affidò la competenza alla ministra Stèfani della Lega. Governo Meloni: nel suo programma la realizzazione dell’autonomia regionale differenziata è indicata a chiare lettere. Domande: Perché dovrebbe essere meglio trasferire il patrimonio infrastrutturale a quelle regioni o dare loro nuove competenze in tante materie? Perché solo per alcune regioni e non per tutte? Quali caratteristiche della singola regione giustificano il trasferimento della specifica competenza (o di tutte)? Perché regionalizzare la scuola, differenziare i programmi e far dipendere gli insegnanti dagli assessori? Perché differenziare le normative ambientali ed energetiche quando stiamo provando a costruire politiche europee? A questo proposito andrebbe ripreso quanto detto al punto precedente in cui si ribadiva la necessità di mantenere fermo il principio dell’universalismo dei diritti basato sulla individuazione dei livelli essenziali da garantire a tutti (Costituzione italiana art. 117 lett. m) garantendo adeguati finanziamenti presi dalla fiscalità generale progressiva.

2. Il caso della “povertà colpevole”: A proposito del dibattito sul Reddito di cittadinanza andrebbe evitato il riferimento al solo Reddito di Cittadinanza, per aprirsi ad una prospettiva di più ampia politica di lotta alla povertà utilizzando però questo termine “povertà” non tanto come specifico settore di intervento, ma come “paradigma” su cui costruire una nuova proposta politica complessiva basata sull’idea che “se il povero ha tutti hanno”). Non solo Reddito di cittadinanza (i cui limiti applicativi vanno sicuramente corretti) ma anche rafforzamento del servizio sociale professionale, attenzione alla povertà estrema e alla povertà minorile per arrivare solo successivamente a specifici interventi di sostegno al reddito (sul modello REI però). Costruire uno stretto rapporto tra azione pubblica e interventi del terzo settore che in questi anni è stato l’unico soggetto intervenuto nella lotta alla povertà a fronte di un totale disinteresse del pubblico. Anche qui va ripreso il principio della garanzia dei diritti esigibili uguali per tutti di cui al già citato art. 117 lett. “m” della Costituzione italiana per evitare il rischio di “livelli essenziali” diversificati tra ricchi e poveri anche in ordine all’accesso ai servizi sanitari e socio sanitari.

3. Il caso di un accesso ai servizi con qualità differenti a seconda del censo: l’esempio che faccio è quello della non autosufficienza degli anziani: Sono stati identificati oltre 2,7 milioni di individui ultra-sessantacinquenni con gravi difficoltà motorie, compromissioni dell’autonomia nelle attività quotidiane di cura della persona. Tra questi 1,2 milioni dichiarano di non poter contare su un aiuto adeguato alle proprie necessità di cui 1 milione vive solo o con familiari tutti oltre i 65 anni. Infine circa 100 mila anziani, soli o con familiari altrettanto anziani (perché noi viviamo a lungo) oltre a non avere aiuti adeguati sono anche poveri di risorse economiche. Il problema allora c’è!!! Quindi? Continuare 1. con il nulla, 2. con piccoli interventi frammentati (come si legge in alcuni programmi elettorali) oppure 3. lavorare ad un sistema che “metta in filiera” i vari tipi di offerta privilegiando, laddove possibile, il mantenimento a casa dell’anziano senza lasciare sola la famiglia? Io rispondo: “la terza che hai detto”. Allora che fare? Innanzitutto: ricordare a chi di dovere che il Pnrr prevede, tra le varie riforme OBBLIGATORIE, anche quella che chiama “Sistema degli interventi in favore degli anziani non autosufficienti” (Missione 5C2). Vuol dire che se non si fa la riforma si tolgono dei soldi anche alla parte dedicata ai servizi; poi chiedere a chi oggi governa se intende andare avanti su questo obbligo o se intende toglierlo (visto che si parla di revisione del Pnrr) lasciandoci ancora privi di una norma che ci dica finalmente “cosa fare, come farlo, chi lo fa e infine quanto costa e quindi chi paga”. Su questo però va detto che  anche i vari governi di centro sinistra che si sono succeduti in questi anni non sono stati all’altezza.

Serve ancora parlare di partecipazione?

A fronte di piccoli segnali innovativi nati dalla riforma del terzo settore in ordine alle nuove possibilità di partecipazione previste nei processi di costruzione di atti di programmazione e di gestione di servizi dando valore istituzionale alla co-programmazione e alla co-progettazione pare che anche con questo governo valga molto di più il rapporto diretto tra leader e massa inventato a suo tempo da Berlusconi con i famosi Patti firmati da lui e “il popolo” negli studi di “Porta Aperta”. Oggi si chiamano “gli appunti di Giorgia”, con cui il premier intende privilegiare un suo rapporto diretto con i cittadini saltando tutto quello che c’è nel mezzo. Mi pare che la strada sia ancora quella e che il suo successo vada ben oltre i tentativi “social” fatti dai suoi avversari, ma anche da suoi componenti della maggioranza. Domanda: come ricreare consenso su processi di mediazione partecipata che fino ad oggi purtroppo sono stati visti solo come tempo perso per l’incapacità dei vari livelli di governo (nazionale, regionale e territoriale) di investire forze ed energie sulla “amministrazione condivisa” dando agli stessi valore istituzionale, definendo tempi massimi di decisione e dimostrando alla fine, nei propri atti e scelte, di aver fatto sintesi delle migliori proposte emerse dal confronto?

Europa sì, ma quale? Ventotene o Visegràd?

Qui ritorna le possibile prospettiva “Orban”e la crisi del modello liberale di democrazia. L’ipotesi che sta emergendo è che la democrazia liberale non è l’unico modello possibile e nemmeno il più efficace, anzi probabilmente funziona solo in anni di abbondanza delle risorse, mentre esistono altre forme di rapporto tra la leadership e il popolo sperimentati in vari Stati europei con apparente successo. La logica è quella del rispetto della forma esteriore della democrazia modificando però la sua sostanza, riducendola così ad un guscio vuoto. Questo modello, attualmente all’opposizione nell’Unione Europea ambisce a diventare il futuro modello UE. Saldando l’odio di Stato contro il migrante con l’attacco ai principi liberali delle democrazie dei diritti e delle istituzioni si disegna di fatto una nuova identità nazionale recintata dalla paura e dall’avversione e minacciata da emergenze continue che ambisce a diventare maggioranza in Europa. Si tratta, dal loro punto di vista, di passare dal sovranismo nazionale al sovranismo europeo visto ormai non si può fare a meno di Europa. Tutto questo emerge però in un contesto di crisi di consenso del modello di democrazia liberale conseguente a scelte operate in questi anni dai governi che si sono succeduti a favore di modelli neo liberisti che hanno annullato ogni efficacia alle loro azioni di riequilibrio strutturale delle diseguaglianze rispetto alle grandi potenze nate soprattutto sull’onda della rivoluzione tecnologica.

Conclusioni

Di fronte al “fallimento di un approccio alla politica schiacciato sulle singole persone, su correnti che non hanno alcun connotato culturale e su una sostanziale estraneità al paese e ai suoi nodi vitali” come viene descritto nello “Schema di lavoro in vista del congresso PD” predisposto da Argomenti 2000, occorre darsi tempo per ricominciare a leggere ciò che ci sta accadendo attorno creando leadership in grado di dedicarsi all’ascolto e di recuperare quelle “praterie” di possibile consenso messo purtroppo in mano a movimenti che, con la scusa che destra e sinistra non esistono, hanno fatto man bassa di voti? Già oggi possiamo essere in grado di recuperare i cocci rotti e rimetterli assieme in un contesto sociale che grida “uguaglianza” senza avere sempre cognizione che accanto a diritti ormai persi, vanno recuperati anche “doveri” non sempre graditi. Anche la società civile va aiutata a mettersi in ascolto di se stessa per evitare chiusure autoreferenziali o paure ingiustificate utilizzate fino ad oggi da forze politiche a fini di basso consenso.

 

 

 

 




[1] Rapporto sulle politiche contro la povertà e l’esclusione sociale”

[2] Marco Revelli: “Poveri noi” Einaudi 2010 pag. 18

[3] Ibidem pag. 25

[4] Su questo vedi: Agnes Heller “Orbanismo” Castelvecchi 2019 e Bernard Guetta “I sovranisti” Add Editore 2019.