Abbandonando Kabul

Lunedì, 30 Agosto, 2021

Note storico critiche in cerca di una comprensione

Le immagini della bandiera a stelle e strisce che viene ammainata all’ambasciata statunitense di Kabul, così come quelle che arrivano dall’aeroporto della capitale afghana hanno riportato la politica estera al centro del dibattito pubblico e politico. Tanto l’opinione pubblica europea quanto quella degli Stati Uniti alimentano una ricerca di interpretazioni, chiavi di lettura ed elaborazioni di scenari futuri. Ne emerge un quadro nel quale si intrecciano molte questioni: dalla valutazione degli effetti geopolitici del “disastro” afghano, alle preoccupazioni per la messa in discussione dei diritti in Afghanistan, soprattutto quelli delle donne; dallo schema del declino irreversibile de “l’impero” americano al riproporsi del problema di un Islam radicale. Certamente quanto è maturato in quello che nell’Ottocento fu il teatro del cosiddetto Great Game è il punto di intersezione di direttrici diverse, il nodo in cui si mostra la saldatura di piani storici diversi eppure fra loro legati da reciproca influenza. Una valutazione politica del valore di quanto sta accadendo richiede perciò lo sforzo di misurarsi con tutto lo spessore di una storia che non è circoscrivibile né ad una sola dimensione – sia essa quella della fallimentare strategia statunitense o quella dell’affermazione dei diritti – né ad uno specifico momento nel tempo – gli accordi di Doha voluti dall’amministrazione Trump o l’esportazione della democrazia teorizzata dai neoconservatori e incarnata dalla presidenza di G.W. Bush. Uno sguardo storico alla vicenda afghana suggerisce, in primo luogo, di dare il giusto peso ad una parabola temporale più lunga, nella misura in cui un passato lungo almeno tre millenni, qual è quello di un paese attraversato dall’antica Via della Seta, pesa inevitabilmente sul presente e sulle sue dinamiche profonde. È in quel passato che si trovano le ragioni di forme sociali e culturali, di pratiche religiose e strutture politiche. Ed è in quel passato che maturano anche le attitudini e le scelte dei diversi “attori” che hanno preso parte a quella che sta diventando l’ultima “catastrofe umanitaria” in ordine di tempo.

 

            La democrazia non esportabile?

Vi è un consenso diffuso circa il fatto che il ritorno dei talebani a Kabul segni il definitivo fallimento di un’intera visione di politica estera che è stata esemplificata nella locuzione “esportare la democrazia”. Si tratta di quell’approccio alle relazioni internazionali adottato sotto la presidenza di G.W. Bush dopo l’11 settembre 2001, che era imperniato sull’idea che lo sradicamento del terrorismo di matrice islamista passasse per un necessario mutamento di regime politico in alcuni paesi, da realizzare attraverso l’uso della forza. Quella politica viene per lo più giudicata come funzionale a interessi economici o di potere, con una valutazione che rischia di non cogliere tutta la forza politica e culturale di un progetto fondato su una visione precisa della storia e del suo procedere.

            La proposta neoconservatrice non nasce con l’attacco alle Torri Gemelle, ma con la fine della Guerra Fredda e il collasso dell’Unione Sovietica e del suo sistema geopolitico. È in quel momento che in una parte della classe dirigente statunitense e non solo si pone il problema dell’equilibrio geopolitico planetario dentro un orizzonte che, dalla fine degli anni Settanta del Novecento, ha imboccato la strada del mercato globale quale paradigma economico e della separazione teorica fra le libertà economiche e l’autorità dello Stato. Il superamento dello schema bipolare con cui si era letta la dinamica politica internazionale dopo il discorso di Fulton tenuto da Churchill il 5 marzo 1946 fa emergere, fra 1989 e 1991, il bisogno di un paradigma alternativo che non sia semplicemente politico. La “cortina di ferro” non era solo un’espressione retoricamente efficace ma più in profondità era una visione della storia europea e mondiale, giocata sulla polarità fra la civilizzazione politica europea e occidentale – il “mondo libero” – e l’ultimo totalitarismo novecentesco, quello comunista. La nascita di un mondo “unipolare” pose la necessità di elaborare un quadro storico-politico che non solo assumeva come base la “vittoria” della democrazia di stampo liberale, ma faceva di questa il metro di giudizio politico globale su cui misurare i diversi regimi politici. Più in profondità, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, si è venuto costruendo un perimetro culturale che alle libertà come paradigma del mercato globale affiancava quelle politiche delle democrazie liberali come paradigma spendibile su scala planetaria. In questo schema gli Stati Uniti hanno assunto una funzione centrale, combinando il loro essere democrazia e libero mercato con un indiscusso primato economico e politico. Sono valutazioni che non emergono solo nel sottofondo dei teorici del neoconservatorismo, ma sono alla radice di approcci di matrice liberale, dalle considerazioni sulla “fine della storia” di Francis Fukuyama alla riformulazione dei fondamenti delle socialdemocrazie in termini di “terza via”.

            È su queste stesse basi e sull’idea che, pur con dei limiti, gli Stati Uniti siano chiamati a funzionare da guida e modello per tutti gli altri paesi, che matura la convinzione secondo cui la globalizzazione politica della democrazia, da far correre in parallelo a quella economica del libero mercato, sia la chiave di volta del “nuovo secolo americano”. Gli attentati dell’11 settembre 2001 caricano questo schema della ulteriore valutazione secondo cui la garanzia della sicurezza nazionale statunitense e degli interessi ad essa legati, che assumono oramai portata globale, risieda nella democratizzazione delle aree più instabili del mondo; soprattutto in quelle aree in cui più marcati sono gli interessi americani e in parte anche europei. L’uso della forza per affermare lo stato di diritto democratico risponde così non solo all’esigenza di una copertura politica che giustifichi la difesa di interessi economici: più ampiamente opera come una visione del mondo e della storia, perché a partire dal 1989 e dalla “vittoria” degli Stati Uniti e alleati (N.A.T.O.) nella Guerra Fredda, delinea con chiarezza un certo modo di intendere il ruolo dell’Occidente e degli U.S.A. in particolare nell’indirizzare e guidare la storia nel tempo del mondo globale.

            A partire dall’invasione dell’Afghanistan nel 2001, che gli Stati Uniti portano avanti su mandato delle Nazioni Unite, certo con modalità e forme diverse, è questo il cuore della visione politica che alimenta non solo l’operare degli Stati Uniti ma in generale di tutto l’Occidente. Se le amministrazioni conservatrici hanno usato questa griglia politica in Iraq, ricorrendo alla guerra, i governi più progressisti o liberal hanno letto un evento come le “primavere arabe” o la guerra civile siriana come la via per conquistare alla liberal democrazia anche la sponda sud del Mediterraneo. In sostanza, sembra emergere come trasversale lo schema secondo cui la saldatura fra regimi liberal democratici e diritti umani, per come si è affermata in Europa e Nord America, sia il modello a cui il mondo deve tendere, che ogni altra declinazione culturale e politico-istituzionale rappresenti un regresso storico e che sia un compito e/o un vantaggio strategico per l’Occidente farsi carico dell’introduzione di questo sistema nelle altre aree del globo. In questa lettura delle cose, la globalizzazione della democrazia dei diritti occidentale, primato statunitense e interesse nazionale degli U.S.A. si tengono assieme.

            La presidenza di Donald Trump segna la rottura di questa saldatura sul piano delle scelte politiche. Non solo perché gli accordi Doha sono frutto di una scelta del predecessore di Biden, ma anche perché il processo politico che crea il vuoto in Afghanistan con la “fuga” della N.A.T.O. riempita dai talebani, sembra riprodurre su scala ben più vasta e drammatica quanto accaduto nella Siria del nord, coi curdi lasciati in balia delle mire geopolitiche della Turchia di Erdogan. Il fatto che Biden abbia confermato la scelta di Trump a difesa “dell’interesse nazionale” statunitense suggerisce che in quel triangolo di concetti citato sopra sia proprio l’ultimo a determinare la coniugazione storica degli altri due.

Si tratta di una constatazione che consente alcune valutazioni, tanto sul presente quanto su alcuni aspetti degli ultimi decenni. Da un lato, appare chiaro come il sistema politico e militare imperniato sugli U.S.A., ossia la N.A.T.O., abbia una funzione strumentale: gli accordi di Doha, la decisione di confermare il ritiro dall’Afghanistan, così come il recente passato di interventi in area mediterranea (Libia e Siria), sono il frutto di una decisione politica di Washington e non dell’intera Alleanza Atlantica. Dall’altro lato, l’aver fatto del modello americano, tanto in economia quanto in politica, il paradigma che guidava la politica estera rispondeva all’esigenza dettata dalla proiezione intera agli Stati Uniti delle dinamiche economiche e politiche globali. Il combinato duraturo degli effetti interni della crisi economica e sociale del 2008, dell’acuirsi di fratture culturali interne agli Stati Uniti – quella fra le grandi aree urbane delle due coste e il Mid West, quella razziale, quella dovuta al peso demografico crescente dei “latinos” – hanno nutrito la scelta di un sempre più rapido disimpegno militare e politico, che tuttavia accentuava la promozione del mercato globale. Emblematica al riguardo non solo la “guerra” commerciale portata avanti da Trump non solo con la Cina ma anche gli “alleati” europei. Ma emblematico anche l’insistere dell’amministrazione Obama per un accordo di libero scambio fra Nord America ed Europa.

 

Il peso della storia

La crisi, che oggi appare terminale, della globalizzazione della democrazia occidentale – tanto di quella forzata quanto di quella che adotta l’approccio del modello – si radica quindi non solo negli errori strategici compiuti in Afghanistan come anche in Iraq o nei paesi del Nord Africa. Vie è un processo interno agli Stati Uniti e in generale ai paesi “occidentali” che rende ragione delle scelte compiute. E accanto a questo vi è la fatica e la difficoltà delle classi dirigenti dell’Occidente democratico, di misurarsi con il peso che la storia ha in luoghi come l’Afghanistan o la Mezza Luna fertile. È un limite che non riguarda solo coloro che hanno direttamente determinato le scelte politiche in quei luoghi, ma che investe più in profondità la sensibilità culturale di un Occidente che, anche nelle sue componenti più progressiste, guarda al cosmopolitismo nei termini di una globalizzazione dei diritti nelle forme con cui questo avviene nel perimetro delle democrazie liberali. La valutazione che questo modo di vedere esprime sui popoli e sulle culture di un’area vastissima, che dal Marocco arriva al Pakistan e dalle coste meridionali del Mediterraneo si spinge al di là del Sahara, fino alla Nigeria, al Centro Africa, al Sudan e alla Somalia, è così generalizzata e superficiale.

            Misurando queste regioni sugli “standard” occidentali attuali se ne sottolinea la diffusa arretratezza, saldando la povertà economica a una valutazione severa tanto delle culture quanto delle forme religiose. Tutto viene schiacciato sul presente e su una visione delle cose che, più o meno esplicitamente e più o meno consapevolmente, assume “l’Occidente” come stadio avanzato del progresso umano, facendone quasi una sorta di destino storico per tutti quei popoli che intendono perseguire la dignità della persona. Il risultato è una sorta di miopia, capace, nel caso dell’Afghanistan, di guardare indietro al 2001 o all’invasione sovietica del 1979 o, nei casi più lungimiranti e rari, alle guerre afghane ottocentesche. Eppure, quello che oggi chiamiamo Afghanistan è un millenario crocevia di culture, attraversato da quel fascio di rotte carovaniere che formava l’antica Via della Seta e porta i segni di un sedimentarsi di lingue, fedi, culture, oltre che di conflitti e commerci. Non è solo “il cimitero degli imperi”, ma una regione che ha conosciuto sia la grandezza di momenti imperiali della propria storia, sia la ricchezza intellettuale, artistica e umana dell’essere per secoli zona di confine e dunque anche porta sia verso l’Oriente – i grandi imperi di Cine e India – sia verso l’Occidente – l’area mesopotamica, il Mediterraneo e l’Europa – sia verso Nord – la Russia e le sue vaste distese asiatiche.

            La visione corta con cui si è dimenticato tutto questo, credendo di poterlo confinare nel sapere di pochi eruditi, è la stessa che ha portato ad ignorare la complessità e la ricchezza culturale che nei secoli aveva dato forma a quello che chiamiamo Medioriente, determinando equilibri secolari fra fedi, etnie gruppi linguistici, che i calcoli geopolitici e strategici occidentali hanno contribuito a frantumare. È significativa, ad esempio, la diffusa ignoranza non solo delle distinzioni interne all’Islam e della frastagliata geografia religiosa e culturale di quella parte di mondo che porta l’opinione pubblica “occidentale” ad esprimere giudizi tanto sommari quanto svincolati dalla verità delle cose. Questa fragilità, che si riflette nell’incapacità di elaborare una politica estera fedele alla realtà e alla sua consistenza, dovrebbe far ricordare la lezione di Machiavelli, che tanto insisteva sulla capacità di un’intelligenza storica delle cose come qualità prima dell’uomo di stato. Perché è questa che permette di fuggire la tentazione di una riduzione della politica a pura gestione del potere o a solo uso della forza, come anche quella di credere di poter imporre alla realtà un ideale morale nella sua purezza. La vicenda afghana, e più in generale l’evolversi degli ultimi venti anni di politica occidentale nell’area mediterranea e mediorientale, sono anche figli di uno schiacciamento sul presente che ignora le dinamiche profonde di cui, nel tempo e nello spazio, l’umanità è capace.

            Ad essere messe in questione dai fatti di questi giorni sono dunque le modalità rigide e schematiche con cui si è cercato di rendere ragione di una realtà che invece non risponde ad un principio univoco o a criteri unilaterali. Se questo è l’errore di prospettiva compiuto nei riguardi di paesi come l’Afghanistan, rischia di essere ripetuto anche nei confronti della politica statunitense. Molti commentatori o politologi introducono esplicitamente il modello della “fine dell’impero” americano, di una sua crisi forse irreversibile o quanto meno di un chiaro declino. Eppure, i primi venti anni di questo secolo, se riletti nella loro portata planetaria, possono suggerire anche l’insufficienza di quelle nozioni geopolitiche di “impero” e “imperialismo” con cui si è cercato di esemplificare l’operare degli Stati Uniti nello scacchiere internazionale. Per quanto pervasiva e diffusa, la presenza statunitense non sembra riducibile alla sola idea di “americanizzare” il mondo, anche perché questo specifico orientamento, che oggettivamente domina tutto il primo decennio del XXI secolo, sembra avere piuttosto, da parte americana, la principale funzione di contribuire alla sicurezza nazionale e agli interessi nazionali. Non corrisponde, cioè, ad un processo di costruzione di un’autorità politica multinazionale, che con continuità e in maniera duratura eserciti un potere riconosciuto e legittimato.

            Una conferma di questo può venire proprio dallo scenario che si viene determinando non solo in Afghanistan ma nell’intero Medioriente a seguito del ritiro delle truppe statunitensi. Le conseguenze politiche di questa scelta, infatti, pongono un problema a paesi, come Iran, Russia e Cina, che si trovano ai propri confini una realtà politica fortemente instabile, attraversata da una conflittualità endemica e segnata da un crescente radicalismo religioso e politico. In questo senso, è significativo che la linea di politica estera enunciata dalla Cina rispetto ai talebani in questi giorni si imperni: sulla garanzia dell’integrità territoriale afghana (necessaria a prevenire il formarsi di realtà geopolitiche che minaccino la stabilità stessa della sfera cinese), sul sostegno ad un governo inclusivo e di pacificazione (in modo da stabilizzare il paese e avere un interlocutore politico dotato di una effettiva autorità e che garantisca il principio della sovranità), sulla richiesta di garantire la non ingerenza del radicalismo islamico afghano in questioni cinesi (nello specifico nella dinamica interna alla confinante provincia del Sichuan e degli Uiguri).

            Se è questo l’orizzonte che prende forma, la oggettiva sconfitta militare della N.A.T.O. e degli U.S.A. appare come tutt’altro che una vittoria per gli altri grandi attori internazionali e la scelta del ritiro, più che iscriversi nelle dinamiche “imperiali”, risponde a valutazioni di altro genere, alle quali non è estranea la competizione con altri soggetti come Cina e Russia. Anche su questo, dunque, occorre utilizzare gli strumenti dell’analisi politica con la prudenza di una storicizzazione che, mostrandone i limiti di un uso univoco o totalizzante, ne lascia emergere anche la reale utilità per la comprensione delle cose.

 

            L’Europa come occasione che passa

Il tentativo di dare una lettura degli eventi di queste settimane fondata su un confronto con la cornice storica, per quanto parziale, consente di leggere in modo più articolato anche la serie di passaggi storico-politici che dagli ultimi due decenni del Novecento arriva ad oggi. A questo si può aggiungere un dato ulteriore, legato alla consapevolezza del fatto che la seconda metà del secolo scorso, che continuiamo a guardare nella chiave bipolare della Guerra Fredda, è in realtà una fase ben più articolata, nella quale prendono forma realtà politiche che oggi giocano un ruolo cruciale nel quadro globale: si pensi a Cina e India, per citare gli esempi più rilevanti, o Pakistan e Iran.  Tutti soggetti che ora reclamano un ruolo nella costruzione degli equilibri nell’Asia Centrale e di conseguenza su scala globale.

            Alcuni osservatori, anche negli Stati Uniti, hanno sottolineato come in questo scenario, la conferma di un orientamento statunitense che giudica interesse nazionale un ridimensionamento dell’esposizione internazionale del paese sia sul piano militare che su quello politico apre vuoti che non tarderanno ad essere riempiti. Come e da chi è un interrogativo che non ha una risposta certa, ma spinge a guardare ai grandi attori già citati, a cui occorre aggiungere, per completezza, Russia e Turchia.

            Resta aperta una variabile che è quella dell’Europa, la quale si divide sulla questione dell’accoglienza degli afghani in fuga seguendo le faglie di una fragile retorica politica interna, ma che ha di fronte un nodo decisivo per il futuro di tutti i suoi cittadini, prima ancora che degli stati che la compongono. Il ritiro degli Stati Uniti pone infatti il problema di come continuare a garantire agli europei la protezione che deriva loro dalla N.A.T.O. e dal peso politico e militare statunitense. Una questione che Trump aveva posto con la rudezza e la superficialità del suo approccio ma che trova conferma nella completa esclusione degli alleati europei dalle decisioni politiche che determinano l’agire dell’Alleanza Atlantica. Non è solo un problema di marginalità rispetto a Washington, ma di capacità di essere interlocutori credibili sulla sfera globale e proprio a motivo di tale autorevolezza sia vedersi riconosciuto un certo status sia, soprattutto, essere capaci di assumersi la responsabilità di orientare eventi, scelte e iniziative.

            L’orizzonte che rapidamente prende forma componendo i pezzi di un puzzle che include i fatti e le conseguenze dell’abbandono di Kabul, consegna la politica dei prossimi decenni a realtà istituzionali capaci di far valere tutto il loro peso nella tessitura di un equilibrio che cerchi la pace autentica. Nessuno degli stati europei ha la capacità di esercitare questa funzione, non solo per il proprio peso economico o militare, ma anche per il peso di una storia che in molte parti del mondo parla ancora il linguaggio dell’imperialismo colonialista. E tuttavia, avere un soggetto capace di operare sul piano globale non basta: serve certamente l’Unione Europea ma contestualmente serve che questa esprima una specifica politica estera, riconoscibile sia nei principi che la orientano, sia nei metodi con cui si articola, sia nell’intelligenza delle cose che la fonda e ne rende ragione. Mentre le truppe della N.A.T.O. che controllano l’aeroporto di Kabul completano un’evacuazione, quella di un deciso salto di qualità verso una politica estera europea e una politica di difesa europea è un’altra occasione che passa per i paesi dell’Unione e non solo. Perché non è in gioco solo la possibilità di portare nel XXI secolo gli stati nazionali con le loro istituzioni democratiche e le carte di diritti e doveri. È in gioco la possibilità di avere, nella rete di rapporti internazionale, un attore che mira a garantire stabilità e coraggio nei processi che aprono alla possibilità di dare pienezza ai diritti e ai doveri nel rispetto delle forme che le diverse culture umane sono capaci di generare.

            Nel prospettare un’evoluzione simile dello statuto dell’Unione Europea, nel contesto geopolitico occorre però uscire dalla matrice culturale statuale: la ricerca di un esercito comune europeo e di una politica estera europea compiuta non può passare attraverso la statualizzazione dell’Unione, concependola come una semplice traslazione, su scala continentale, non solo delle istituzioni ma anche delle prassi degli stati nazionali. La consapevolezza che gli stati europei non hanno più la capacità di operare su scala planetaria e dunque di competere con i grandi stati come U.S.A., Cina, Russia, India, Brasile, pone la questione di una realtà politica che articoli l’azione diplomatica o la politica di difesa in una logica altra rispetto a quella dell’interesse nazionale. Al riguardo, esiste un dato di partenza politico ulteriore oltre allo scenario planetario richiamato in precedenza: il fatto che rispetto a ogni altro “interesse nazionale”, per gli stati che compongono l’Unione Europa l’essere parte di questa realtà ha una priorità politica prevalente, in quanto garanzia di stabilità politica, economica e sociale.

            Misurarsi con queste dinamiche richiede uno sforzo di tessitura politica e almeno nell’immediato l’emergere di una forma di guida politica dell’Unione che funga da baricentro stabile di interlocuzione con i grandi attori planetari. Serve cioè raccogliere il testimone del ruolo svolto per quasi due decenni da Angela Merkel e dare uno specifico indirizzo al processo politico europeo. Gli ultimi mesi sembrano suggerire che Draghi sia la figura a cui questa funzione viene affidata, in un passaggio nel quale Germania e Francia affrontano delicati appuntamenti elettorali. Resta tuttavia l’incognita della durata del mandato del Presidente del Consiglio italiano e ancor più della povertà di elaborazione politica su questi temi da parte delle classi dirigenti e dell’opinione pubblica. In questo senso, questi giorni di fine agosto nei quali hanno termine molti schemi e alcune certezze, dovrebbero essere vissuti come un richiamo alla durezza della realtà, alla irriducibilità della sua verità a schemi unilaterali e alla responsabilità diffusa di capire per potere scegliere.

Riccardo Saccenti - Comitato Scientifico Argomenti2000