“Tornate in città”: il rischio lacerante della carità politica

Venerdì, 3 Giugno, 2022

La festa della Repubblica Italiana si celebra il 2 giugno, data del referendum istituzionale del 1946 quando gli italiani sono chiamati alle urne per scegliere la forma dello stato:  monarchia o repubblica. Vince la Repubblica con il 54,3% dei voti e, nel 1949, il 2 giugno è dichiarata festa nazionale. Dopo oltre 20 anni di dittatura e guerra vanno a votare quasi il 90% degli elettori, le donne per la prima volta.  Nello stesso 2 giugno gli italiani  eleggono l’Assemblea Costituente che elabora la Carta Costituzionale, base del nostro Stato e della convivenza civile.

 

Che cosa è pubblico per noi oggi

E’ opportuno chiedersi che senso ha per noi oggi questa data, aldilà dei momenti strettamente celebrativi.  In che misura sia una memoria significativa nel contesto delle nostre vite, strapazzate dalla comunicazione digitale, spiazzate dal crollo delle ideologie, delle appartenenze e dei sistemi condivisi di interpretazione del mondo e destabilizzate dalla glocalizzazione ... Perché il 2 giugno ci porta a domandarci cosa sia pubblico (nel senso di "riguarda tutti") e del perché vada festeggiato. Operazione non scontata, ma certo utile. Il pubblico infatti si fatica a percepire come qualcosa che riguarda tutti e quindi anche ciascuno. E senza questa percezione diviene difficile il passaggio alla nozione di “bene comune”, nozione chiave per giungere alla cittadinanza consapevole e attiva, e poi al senso dell’impegno politico e sociale coerentemente e correttamente inteso.

 

Tre pensieri sulla storia del 2 giugno

Può giovare una riflessione sulla storia. Il primo pensiero è che l’esito del referendum sulla scelta istituzionale, monarchia o repubblica, fu chiaro ma non plebiscitario, a fronte dei circa 12 milioni che indicarono la repubblica, altri 10 indicarono la monarchia, con proporzioni molto diverse fra le varie regioni. Una vittoria sofferta, con dietro la remora di un passato che si faticava a superare. Paura del futuro, legame con la tradizione, incapacità di pensare in modo nuovo, consapevole scelta di campo: ognuna di queste ipotesi è in parte vera, ma costituisce un peso per le istituzioni nuove che nascono.

Il secondo pensiero riguarda il suffragio, finalmente universale: votano le donne. Dopo un primo assaggio nella tornata amministrativa del 10 marzo di quello stesso anno, tutte le donne sono chiamate a votare; c’è addirittura un appello rivolto dal Papa Pio XII alle giovani cattoliche “de re tua agitur” - è cosa che ti riguarda -  che ricorda il dovere morale del voto.

Ci sono le prime elette, entrano dell’assemblea costituente, come già diverse centinaia erano entrate nei consigli comunali  in occasione delle amministrative della prima vera ’46.

Il terzo pensiero lo rivolgo al ruolo dei cattolici, alla parte che ebbero nel porre le fondamenta profonde, impastate del sangue della resistenza, e nella limpida capacità di pensare dei nostri costituenti. Un pensiero libero e laico, poiché nessuno è più laico di un credente vero, ben consapevole della limitatezza di ogni atto umano, e quindi alieno da ogni integralismo ed ogni forma ideologica.

 

Gli effetti di quelle scelte

Le scelte che discendono da quel 2 giugno e dalla Carta Costituzionale che ne è nata hanno avuto effetti importanti per tutta la vicenda successiva che ci ha permesso di giungere – pur in mezzo a tante contraddizioni, limiti, ingiustizie - fino al punto in cui siamo.

Se oggi, nel tessuto abituale delle nostre vite il diritto a sognare può intrecciarsi con qualunque delle opzioni che ci piacciono, se ognuna di queste opzioni possiamo considerarla un nostro “diritto”, se la vita dei nostri figli è segnata da opportunità incredibili che consente ad ognuno di loro di considerarsi, in quanto italiano, “cittadino del mondo”; questo lo dobbiamo a quel periodo, a quella data, a quelle intenzioni, a quell’impegno profuso da tanti.

La storia, anche quella di oggi, sta lì a dimostrare come ogni conquista di libertà, democrazia,  pace - ossia che sta a fondamento di quei diritti e di quelle opportunità - non rappresenta un dato irreversibile, ma una conquista faticosamente costruita, che ha però al suo interno una fragilità. Una fragilità che è rappresentata dalla consapevolezza e dalla disponibilità a mettersi in gioco come cittadini. O, se volete, come cristiani perché cittadini, insieme a tutti gli altri.

 Le immagini di Mariupol ridotta in cenere, i corpi di Bucha, le mamme e i bimbi Ucraini che diciamo con orgoglio di ospitare nei nostri paesi, così come le tante immagini che arrivano da altre parti del mondo ogni giorno nelle nostre case e che guardiamo in modo un po’ distratto tra un link e l’altro; sono lì a ricordarci il prezzo che l’assenza di questa consapevolezza e di quella disponibilità a “costruire insieme” può avere.

 

La scelta di oggi

 La scelta fatta 76 anni fa dai nostri genitori, nonni, bisnonni ha determinato la storia dei decenni successivi. E ancora oggi è importante rinnovare quella decisione perché ci dobbiamo sentire parte integrante e viva di quella storia, che ci appartiene perché è la storia in cui siamo nati e cresciuti.

Ovviamente oggi la scelta non è più tra due forme istituzionali dello Stato ma è quella della partecipazione e della responsabilità. E’ in fondo la scelta tra la democrazia partecipata e l’oligarchia. La “cosa pubblica” non può e non deve essere abbandonata a se stessa o agli interessi di pochi perché è la nostra stessa vita.

Oggi più che mai dobbiamo sentire forte questo coinvolgimento perché la globalizzazione ha aggiunto diversi gradi di complessità e le difficoltà tendono a portare al disinteresse e alla delega passiva mentre molti temi, a cominciare dall’ecologia, richiedono la responsabilità di tutti.

Ciascuno di noi, quindi, in occasione del 25 aprile e del 2 giugno dovrebbe chiedersi: cosa sto facendo per mantenere questa eredità positiva contenuta nei principi della Costituzione, che è il frutto più importante della Resistenza, per il quale tanti hanno dato se stessi? Come sto aiutando il mio paese a crescere in questa direzione? Sono domande scomode ma necessarie per ciascun cittadino.

 

Una comunità tra lavoro e pace

Tale consapevolezza e tali domande rinviano al senso di essere comunità, che – secondo i principi fondamentali della nostra Costituzione -  si fonda su alcuni valori chiave, tra cui il lavoro e la pace. Mai come oggi, le parole lavoro e pace suonano drammaticamente attuali. Nel 2021 sono stati 1221 i morti sul lavoro e le denunce presentate all’Inail nel febbraio 2022 sono state 121.994, in aumento del 47,6% rispetto al primo bimestre del 2021. Di queste, 114 hanno avuto un esito mortale.  Di fronte a questa strage risuonano nei nostri cuori le parole di Papa Francesco riprese dai Vescovi nel messaggio per la festa dei lavoratori del 1^ maggio : “..la vera ricchezza sono le persone, senza di esse non c’è comunità di lavoro, non c’è impresa, non c’è economia … Un Paese che cerca di risalire positivamente la china della crisi non può fondare la propria crescita economica sul quotidiano sacrificio di vite umane” . Non ci sono solo le morti: precariato, caporalato, sfruttamento, mancata valorizzazione del lavoro femminile, sono solo alcune delle piaghe che sfregiano il mondo del lavoro oggi.

 La guerra scoppiata in Europa, con l’invasione russa dell’Ucraina e le conseguenti decisioni del governo italiano, fanno sì che non si possa celebrare il 2 giugno senza interrogarci sulla parola pace. Il Papa che più volte e con parole chiarissime ha condannato l’invasione e il martirio dell’Ucraina, ci ricorda però che, oggi, stare dalla parte giusta della storia significa essere contro la guerra, cercando la pace senza lasciare mai nulla di intentato. Torna qui la parola comunità: “il destino condiviso dell’umanità richiede di rafforzare, con realismo, il dialogo e costruire e consolidare meccanismi di fiducia e cooperazione. La pace deve essere costruita sulla giustizia, sullo sviluppo umano integrale, sul rispetto dei diritti umani fondamentali, sulla custodia del creato, sulla partecipazione di tutti alla vita pubblica, sulla fiducia fra i popoli, sulla promozione di istituzioni pacifiche, sull’accesso all’educazione e alla salute, sul dialogo e sulla solidarietà…”

 

“Tornare in città”

Nelle letture della festa dell’Ascensione i discepoli sono invitati a scendere dal monte, a non fermarsi alla contemplazione di quel fatto straordinario. Anche noi siamo invitati a tornare in città, dove gli uomini e le donne vivono e si agitano le questioni, sapendo che sempre ci sarà un confronto, che mai una posizione sarà completamente netta, che le cose cambiano e che dobbiamo accettare questa mutevolezza come tante altre nella sfera dell’umano.

Ci sono delle occasioni in cui chi si impegna nella società  sperimenta, da parte della comunità cristiana, la xeniteia  (l’estraneità, l’essere “forestiero, come tutti i miei padri”), e altre occasioni, benedette, in cui le parole dei pastori sono di conforto e di incoraggiamento. Citiamo, con gratitudine, quelle pronunciate nel passaggio di consegne tra mons. Bassetti e mons. Zuppi, parole vere in questo tempo teso: “Il credente oggi più che mai deve accettare il rischio della carità politica, sottoposta per sua natura alle lacerazioni delle scelte difficili, alla fatica delle decisioni non da tutti comprese, al disturbo delle contraddizioni e delle conflittualità sostenibili, al margine sempre più largo dell'errore costantemente in agguato".

 

Hanno collaborato: Gabriella Valsesia, Marina Rasore, Roberto Tasso, Silvio Crudo, Emanuele Rapetti