“I care”: l’Europa di David Sassoli

Lunedì, 17 Gennaio, 2022

«I care significa mi faccio carico delle responsabilità. Quest'anno da parte di milioni di europei la reazione è stata I care. Deve essere il motto europeo: I care, we care. È la lezione più importante di questa crisi». Nel richiamo esplicito al motto di Don Milani pronunciato lo scorso 6 maggio dalla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen echeggia quello che è stato un punto di riferimento nella vita di David Sassoli. Perché la biografia del Presidente del Parlamento Europeo, scomparso ieri, aveva una radice antica e viva con la Firenze della “città sul monte” e della “Scuola di Barbiana” e con quell’esperienza eterogenea di cristianesimo nella quale, in forme diverse, si cercava di mettere il Vangelo davanti a tutto.

Quella città e quella chiesa sono la radice che contribuisce a rendere ragione di alcuni tratti della personalità di Sassoli, a schiarire i contorni di un’esistenza nella quale si riconosce una profonda unitarietà politica e civile. Il giornalista Sassoli e il parlamentare europeo non rappresentano due parti separate della sua esistenza: sono le stagioni di un itinerario scandito da un confronto con la realtà declinato come sforzo di misurarla sul metro della persona e della sua dignità. Un metro evangelico, dunque, mai svilito in un uso identitario della propria fede ma incarnato nella discrezione propria dell’umanità più autentica.

Questi elementi Sassoli li ha tradotti in impegno politico nel quale aveva maturato la convinzione che la dimensione europea sia lo spazio politico a cui apparteniamo in questo tempo. Ne fanno fede i temi di una presidenza del Parlamento Europeo vissuta come responsabilità diretta nel processo di costruzione dell’Europa politica. L’attenzione costante al dramma dei migranti, letto nella chiave dei diritti violati, su cui molto Sassoli si è speso, era parte di una riflessione più ampia e profonda: quella sulla natura dell’Europa e sul suo futuro nel quadro planetario. È democratica un’Europa che derubrica le traversate del Mediterraneo, la disperazione dei migranti confinati a Lesbo e il dramma che si consuma al confine fra Polonia e Bielorussia ad una questione di ordine pubblico? Che democrazia è quella che ignora la sofferenza e la morte di donne, uomini e bambini in fuga, che chiedono la possibilità di un futuro? Sassoli ha posto questo interrogativo alle istituzioni e ai governi d’Europa, rivendicando il nesso inscindibile fra i diritti/doveri e la democrazia come habitus della vita civile europea prima ancora che come equilibrio istituzionale. La sua costante difesa della centralità del Parlamento dell’Unione è l’altra faccia di questa visione delle cose. L’unica istituzione che democraticamente rappresenta tutti gli europei non può essere emarginata nei processi decisionali dell’Unione ma è chiamata ad esserne il cuore pulsante, l’incarnazione di quel dibattitto pubblico europeo nel quale si spende la fatica delle idee che costruisce la decisione democratica come processo inclusivo. In questa costante cura per la rappresentanza come problema ed esigenza politica Sassoli si è fatto carico di un appello per la costruzione di una democrazia europea compiuta, una democrazia delle persone, la sola capace di delineare orizzonti possibili.

In tutto questo vi è molto della tradizione dei Milani e dei La Pira, che tuttavia non vi compaiono come semplici riferimenti ideali: sono piuttosto lo stimolo a pensare le cose nella fedeltà alla loro verità e al tempo stesso alla dignità dell’essere umano. È un atteggiamento, questo, che segna in profondità la personalità di Sassoli e fa del suo spendersi come uomo pubblico una testimonianza, anche per la “sua” Firenze: essere consapevoli di appartenere ad una storia e ad una tradizione politica, civile e religiosa altissime, senza tuttavia esserne succubi o peggio semplici epigoni. Vi è in questo una lezione di cultura politica, cioè della capacità di tracciare direzioni percorribili, facendosi carico di scelte e prese di posizione, assumendosi la responsabilità di indicare una meta. Una virtù rara, di cui la politica italiana ed europea da ieri è un poco più orfana.