È l’Europa il solo terreno politico per i democratici

Giovedì, 18 Marzo, 2021

L’articolato intervento con cui Enrico Letta si è presentato di fronte all’Assemblea Nazionale del Partito Democratico si presenta con alcune caratteristiche politicamente qualificanti. Da un lato, sceglie di delineare un itinerario per il PD che ha una scansione temporale di almeno due anni, guardando alle elezioni del 2023; dall’altro qualifica i tratti di questo percorso sul terreno dei contenuti e in parte su quello di un rinnovamento strutturato della classe dirigente. I venti punti su cui si è strutturata la relazione del nuovo segretario e su cui è stato chiesto un pronunciamento diretto ai circoli e dunque agli iscritti, vanno in questa direzione.

            È possibile rilevare un chiaro tentativo di far cambiare passo al cammino del partito, segnato non solo dagli obiettivi che Letta ha fissato ma anche da un metodo ordinato e sistematico di lavoro politico che, almeno in questa fase, intende prendere le mosse dalla base. In questo si palesa anche la consapevolezza della fragilità politica e culturale della classe dirigente del partito: una fragilità diffusa, che non riguarda solo i gruppi parlamentari o la segreteria nazionale, ma i diversi livelli della struttura di un partito che negli ultimi anni ha visto erodersi pericolosamente quello che per molti anni è stato il suo punto di forza, ossia il radicamento territoriale. Vi è tuttavia anche un elemento ulteriore, che si palesa soprattutto là dove Letta insiste sulla necessità di strutturare percorsi di educazione politica, e cioè la fragilità della stessa base del partito. Una base che si è progressivamente ridotta in termini numerici, anche per una dinamica decisionale (dalle modalità di elezione del segretario a quelle con cui vengono definite liste elettorali e candidature) che marginalizzano quando non annullano del tutto il valore di una partecipazione attiva degli iscritti. Quello che si è apre è dunque un percorso che può avere risvolti positivi e certo interessanti sul piano della riformulazione della natura del PD, soprattutto nella misura in cui sembra declinarsi in direzione di un qualche recupero di uno dei tratti qualificanti del progetto originario del partito: unire il cattolicesimo democratico e la componente riformista della sinistra italiana. In questa direzione vanno i riferimenti del discorso di Letta da un lato a figure storiche del cattolicesimo democratico – a cominciare dal suo maestro, Beniamino Andreatta – e dall’altro a Enrico Berlinguer.

            Tuttavia, sull’iniziativa del nuovo segretario rischia di pesare un duplice elemento che riguarda da un lato la consapevolezza politica di cosa significhi per il PD questo specifico momento della sua storia, dall’altro l’orizzonte politico nel quale collocare un processo di elaborazione politica all’altezza delle sfide che si pongono alle classi dirigenti. Riguardo al piano interno al PD occorre rilevare che la dinamica con la quale si è arrivati alla elezione di Letta lascia sul terreno la questione essenziale di una riflessione senza timori e inibizioni sulla crisi profondissima di un partito che appare imploso nella sua ragion d’essere. Le dimissioni di Zingaretti sono arrivate dopo settimane convulse, nelle quali, tra la crisi del governo Conte e la nascita del governo Draghi, la linea del partito si è fatta via via più sfumata ed evanescente fino a risultare incomprensibile all’opinione pubblica e al paese. Una incertezza alimentata da dimissioni arrivate via social, senza alcun confronto con gli organi rappresentativi del partito e senza che questo innescasse una discussione interna, fra gli iscritti, sulla ratio delle decisioni del PD rispetto al quadro politico e alla capacità di delineare una proposta articolata e coerente nella sua visione delle cose. La mancanza di ogni forma di discussione interna su questo, compensata dalla ricerca di un nome da sostituire a quello di Zingaretti rischia di essere l’ulteriore tentativo di surrogare la consapevolezza politica diffusa fra gli iscritti con l’affidamento ad un leader di scelte e decisioni. È certamente vero che Letta, nel suo discorso, ha più volte ribadito di non voler cercare unanimismo ma piuttosto verità. Il fatto però che l’iniziativa del nuovo segretario si concentri da subito sui contenuti senza uno sforzo di analisi delle dinamiche interne del PD rischia di consegnare a quello che vuol essere il nuovo corso del partito un’eredità destinata a pesare e ad alimentare lacerazioni.

            Vi è poi un ulteriore aspetto problematico che riguarda il rapporto della politica con il quadro esterno ai partiti. L’insistenza di Letta sul valore di un partito che si ricostruisce attorno ai temi e alla elaborazione di proposte efficaci apre oggettivamente delle prospettive alternative all’immobilismo in cui il PD si era confinato nelle ultime settimane. Al tempo stesso però l’iniziativa del nuovo segretario si presenta con una caratteristica esplicita che può rappresentare un elemento problematico, soprattutto perché si tratta di un dato strutturale. Letta ha infatti insistito molto sul fatto che il PD deve qualificare la propria presenza nell’arco politico italiano e nei territori esprimendo una idea di paese, ossia guardando ad un orizzonte squisitamente nazionale. Non manca ovviamente, anche per la sensibilità politica del segretario, una salda ancora al quadro europeo. E tuttavia, il terreno politico su cui si intende ancorare l’azione del PD è quello geografico-politico dell’Italia. Proprio questa dimensione nazionale rischia di essere limitante soprattutto rispetto alle valutazioni storiche e politiche a cui il passaggio della pandemia porta.

            Le tre grandi questioni indicate da Letta nel suo discorso – ambiente, pandemia, tecnologie digitali – hanno la caratteristica di essere, per loro natura, incomprimibili dentro il perimetro dei confini di uno stato, soprattutto degli stati nazionali europei per come ancora oggi sussistono. L’intreccio complesso e articolato di questioni economiche, sociali, culturali, politiche che attorno a questi tre nodi si pone, non è governabile sul piano nazionale. Le caratteristiche di un tema come la sostenibilità ambientale, ad esempio, comportano non solo un mutamento radicale delle politiche industriali ma obbligano anche a ripensare la mobilità, la gestione dell’energia, le forme di produzione, e al tempo stesso ad assumere uno sguardo lucido sulla necessità di modificare nel senso dell’equità le relazioni economiche e sociali o di ripensare in profondità i processi di educazione di produzione e diffusione di cultura. Sono piani che non solo si intrecciano fra loro ma segnano il convergere di interessi ed esigenze di comunità che vanno ben al di là dei confini nazionali: hanno portata continentale. Per noi hanno dunque una portata europea.

            Questo significa che l’Europa, e più nello specifico l’Unione Europea, non sono solo la cornice dentro cui pensare una proposta per l’Italia: sono esattamente il terreno su cui la politica deve muoversi, quello nel quale è imperativo dispiegare quei processi democratici di costruzione del consenso che fondano tanto l’intelligenza delle cose, quanto la conseguente maturazione di una decisione politica. Rispetto ad un passaggio rilevante della relazione di Letta, quello relativo al valore del Next Generation EU, emerge al riguardo una considerazione ulteriore. La messa in opera di quel piano da parte dell’Unione non rappresenta l’emergere di un’alternativa fra la natura occasionale o strutturale di questa proposta. Quella che l’Europa ha imboccato, anche e soprattutto per il coraggio politico di Angela Merkel, è una strada obbligata, dalla quale non vi è possibilità di tornare indietro. La portata e la dimensione del piano (oltre 750 miliardi di euro, che generano un debito comune di portata inimmaginabile fino a pochissimi mesi fa) non è pensabile come atto occasionale: al di là del suo essere o meno reiterato in futuro nelle forme e nelle dimensioni, quel piano modifica profondamente i rapporti politici interni all’Unione. Nel momento in cui le istituzioni europee avranno la responsabilità di gestire il debito comune il loro ruolo politico rispetto ai governi nazionali assumerà un peso e una qualità diverse perché la dinamica sussidiaria delle politiche dell’Unione avrà una vita che non dipende più dal consenso unanime degli stati membri ma dalla capacità della Commissione e del Parlamento europei di essere il luogo di elaborazione di decisioni politiche.

            Di fronte alla pandemia, al Next Generation EU che è figlio della pandemia, e alle conseguenze che questo avrà, dentro il quadro planetario che inizia a prendere forma (l’equilibrio che avranno i rapporti fra U.S.A. e Cina, il ruolo di Russia e Turchia nello spazio mediterraneo e mediorientale, le conseguenze di una lunga stagione nazionalista in paesi come l’India) la questione essenziale che emerge è quella della qualità della politica europea e ancor più della sua democrazia. Se l’Unione diventa il soggetto politico chiamato a governare il futuro significa che il principio della cittadinanza europea rappresenta il cardine su cui edificare una politica compiutamente democratica nei decenni a venire. Significa, di conseguenza, che l’elaborazione politica e la costruzione di soggetti politici capaci di questo, non può che giocarsi sul piano europeo e da lì ripensarsi come diffusa a livello di stati, regioni e territori. L’orizzonte di partiti compiutamente europei è allora quello su cui proprio ora è necessario uno sforzo ulteriore, perché se la politica autentica e più efficace, consapevole dei propri limiti come delle proprie responsabilità, ha i lineamenti di un pensare e comprendere le cose commisurati alla comunità politica di riferimento, è l’Europa e non l’Italia la comunità a cui guardare per pensare in termini compiutamente politici.

            L’avvio della segreteria di Enrico Letta ha riportato all’ordine del giorno l’idea di ridare al PD la sua continuità con l’esperienza ulivista, nella convinzione che sia ancora il tempo di ridare una casa comune alle grandi culture politiche dell’area riformista della storia repubblicana italiana. Non si tratta certo di negare il valore di tradizioni come quella cattolico democratica o del riformismo maturato dentro l’esperienza del PCI degli anni Ottanta. Tuttavia, occorre distinguere fra il valore che quelle culture politiche rappresentano in termini di eredità valoriali, di sensibilità intellettuale, di lascito politico ancora vivo nel tessuto del paese, e il loro essere strutturalmente appartenenti ad un quadro storico e ad un modo di intendere la politica e la democrazia che oramai è consegnato alla storia. La politica ha cioè l’esigenza di liberarsi dalla malattia della nostalgia, che rischia di edulcorare passate esperienze sfuocando la capacità di giudicarne non solo e non tanto i limiti ma soprattutto i meriti, che in questo caso si misurano col metro di un giudizio storico. Il coraggio di consegnare quell’esperienze alle coordinate storiche e politiche a cui appartengono, ossia all’esperienza storica dell’Italia repubblicana del secondo dopoguerra, consente del resto di fare salva la loro capacità di continuare ad esprimere e declinare punti di riferimento e al tempo stesso di avere la lucida consapevolezza che rispetto all’esigenza di pensare in termini squisitamente europei, di delineare cioè culture politiche europee, serve la fatica di costruire culture politiche nuove. Per questo genere di obiettivi serve forse qualcosa di più di una Conferenza sul futuro dell’Unione: serve l’avvio di un processo di costruzione di un vero e proprio partito europeo di democratici.

Riccardo Saccenti
Comitato Scientifico Argomenti2000