Verso il 25 aprile: quale liberazione oggi?

Mercoledì, 22 Aprile, 2020

La festa del 25 aprile è certamente da collocare, come la festa della Repubblica del 2 giugno cui andrebbe aggiunto anche il 1 gennaio (nel 1948 entrò in vigore la Costituzione italiana) tra i momenti fondativi della nostra società.

Il 25 aprile rimanda ad un evento politico-militare importante come la lotta della resistenza partigiana al fascismo anche nella sua versione repubblichina ed al nazismo culminato nella liberazione che si concluse grazie all’intervento degli eserciti alleati e all’esercito cobelligerante  italiano  alla fine del mese di aprile.
Da un punto di vista simbolico nell’istituzione della festività venne presa quindi la data del 25 aprile 1945 giorno in cui il  CLNAI con sede a Milano dichiarò l’insurrezione generale contro i nazifascisti che occupavano ancora gran parte del nord Italia.
Su proposta dell’allora presidente del consiglio Alcide de Gasperi, il re Umberto II il 22 aprile 1946 emanò un decreto legislativo che recitava:

«A celebrazione della totale liberazione del territorio italiano, il 25 aprile 1946 è dichiarato festa nazionale.»

Diventerà poi festa nazionale a partire dal 1949 .

Queste brevi  note storiche per collocare e ricordare quali furono gli eventi che si succedettero nel giro di pochi anni e che informarono la visione della nascente Repubblica Italiana: la resistenza, la democrazia e la costituzione.
Ora questa esperienza storico politica è ancora in grado di definire l’identità ( parola oggi molto in uso) di un popolo o di una nazione e rappresentarne  la forza propulsiva per il futuro?
Se per identità intendiamo qualcosa di profondo che giace nella struttura base e che non muta con i cambiamenti forse questa identità univoca non la dobbiamo ricercare nell’esperienza politica. Perché nell’esperienza politica c’è stato qualcosa di non detto. La ricorrenza della liberazione, pur vedendo il contributo al suo compimento di tante forze di diversa formazione: liberale, azionista, socialista e cattolica, ha sempre visto l’egemonia della componente comunista che ha impedito una pacata analisi storica di cosa è stata la resistenza.
Politicamente nei confronti del fascismo questo paese è sempre stato ambiguo. Sul versante della destra si è sempre tenuto un atteggiamento comprensivo ed indulgente verso il ventennio. Si pensi al risorgente dibattito sull’epoca fascista. A conferma del fatto che in Italia non si è mai fatto i conti definitivi con il proprio passato. E a ciò hanno contribuito molto due fattori: la trasmigrazione del “Deep State fascista” in quello repubblicano e il periodo democristiano che metabolizzando al proprio interno forze politicamente anche contrapposte rimosse di fatto un approfondimento.

Oggi questa irrisolta chiarezza è un problema.  Problema che non può essere risolto in proposte farsesche che confondono il 25 aprile con la prima guerra mondiale e i morti di coronavirus. Purtroppo quando la storia finisce in mano ai politici è facile l’uso sfacciatamente politico elettorale. Questo significa rimuovere la storia. Certo ci sono stati eccidi esecrabili e vendette personali nel dopo guerra, ma non si può negare che nel ‘46 il leader del partito comunista Togliatti in qualità di Ministro di Grazie e Giustizia, nonostante l’avversità della sua base e del suo partito  propose l’amnistia per reati comuni e politici compreso il collaborazionismo.  Amnistia che diventò più ampia nei periodi successivi.
Fu certamente un atto di pacificazione che non va dimenticato.
Ma allo stesso tempo non va dimenticato che i cosiddetti perdenti erano alleati di una dittatura fanatica ed atroce che aveva portato l’umanità nel baratro della tragedia.
Non si possono fare passi avanti nel futuro di questo paese se forze politiche di destra lisciano il pelo a formazioni che esplicitamente si rifanno ad ideologie fasciste ed esse stesse simpatizzano apertamente per modalità governative autoritarie.
La destra in Italia deve ritrovare una classe dirigente moderata e democratica in grado di emarginare il nazionalismo datato, il salvinismo e le  simpatie neo fasciste.

La prima considerazione quindi da fare è che questa ricorrenza deve risvegliare la condivisione sui valori della democrazia e tenere alta la guardia sui rischi di una deriva autoritaria. Le democrazie sono in crisi in tutto l’occidente. Non bastano cortei, discorsi, più o meno enfatici, richiami ideologici all’antifascismo o a cori da “bella ciao”.  Lo sforzo deve essere più ambizioso puntare alla rigenerazione delle condizioni della coesistenza sociale. E ciò è reso arduo dal fatto che rispetto al primo dopo guerra sembra mancare la volontà di ricercare un minimo denominatore comune su cui ricostruire le basi di un nuovo rilancio italiano.
Nemmeno l’urgenza imposta dalla realtà sociale e dalle condizioni di questa nazione oggi più che mai trafitta da un’enorme calamità come quella che stiamo attraversando sembra indurre la politica a rifuggire dal gorgo della polemica conflittuale. Nemmeno i nodi irrisolti, oggi più evidenti che mai del nostro vivere sociale e la loro ricaduta nell’acuire il disagio sociale sembra rinsavire la politica. Tuttavia trascurare questa necessità significa generare il terreno fertile per movimenti ed ideologie che sembravano sterili, significa aprire varchi ad inaspettate e drammatiche involuzioni politiche.

La seconda riflessione è relativa all’identità cui facevo riferimento prima e che è la vera sfida del futuro. Molti sollecitano questo periodo d’isolamento come opportunità di riflessione. Forse è venuto il momento di prendere coscienza di alcuni aspetti della nostra identità che non possono più reggere. Riflettere sull’identità in senso sociologico significa lavorare su quelle caratteristiche di un popolo  che possono essere costruite, modellate e rese consapevoli da una esperienza comune.
Fino a prima di questa pandemia le esperienze degli italiani come popolo, se facciamo eccezione per le parentesi folcloristiche delle partite di calcio in cui gioca la Nazionale, sono sempre state divisive, individualistiche e a volte catastrofiche, pensiamo alle guerre mondiali. Sì anche la prima guerra mondiale tanto celebrata in una stantia retorica nazionalista andrebbe ricordata giustamente solo per i poveri contadini e i ragazzi mandati al massacro, senza dimenticare che le conseguenze sociali ci hanno regalato il fascismo. Lo stesso boom economico ha avuto esperienze ed esiti diversi al nord e al sud.
Viceversa questa pandemia ha fatto sentire gli italiani, forse per la prima volta, un popolo unito nella sventura, ma anche solidale e, insospettatamente contro ogni luogo comune, responsabile. Purtroppo ancora  una volta chi è venuto meno è la politica chiusa nei suoi litigi propagandistici, distante dalle persone. Lo spettacolo indegno dei governatori regionali che con il loro atteggiamento hanno dimostrato in pieno i difetti della vecchia politica ammorbata dal particolarismo italiano camuffata sotto il vestito dell’autonomia regionale ha reso plasticamente il regionalismo quale uno dei più grandi disastri italiani.

E allora come possiamo guardare al futuro se sulla nostra strada giacciono macigni così grandi? Se ci aspettano situazioni economiche sociali gravi?

Mi piace ricordare il grande storico Chabod:
«la Nazione è, non un territorio da farsi più forte aumentandone la vastità, non un’agglomerazione di uomini parlanti lo stesso idioma [...] ma un tutto organico per unità di fine e di facoltà [...]. Lingua, territorio, razza, non sono che gli indizi della Nazionalità» (F.Chabod, L’idea di nazione, Laterza, Bari,1993 p.72)
Questa pandemia come si diceva ha fatto emergere i nodi irrisolti degli ultimi quarant’anni, oggi abbiamo però una grande opportunità per affrontarli e cercare di risolverli.

Oggi il 25 aprile ha rinnovato  senso se diventa l’occasione per riprendere lo spirito del dopo guerra incanalandolo in uno sforzo di ricostruire “un’unità di fine e di facoltà “ per far rinascere l’Italia in una nuova Europa.
Se non possiamo trovare un’idea condivisa sul nostro passato possiamo averne una condivisa sul nostro futuro fondata sui valori della costituzione?
Da dove partire? Ricordando le parole di Chabod riprendendo “..una unità di fine e di facoltà”.

Di fine: questo paese ha bisogno di un grande sforzo di modernizzazione che passi attraverso  alcuni aspetti qualificanti: FORMAZIONE, SANITA’, RICERCA, INNOVAZIONE TECNOLOGICA , INVESTIMENTI , RIFORMA FISCALE E BUROCRATICA e per contro LOTTA ALLA CORRUZIONE, ALLE MAFIE,ALLE EVASIONI FISCALI.

Di facoltà: gli italiani hanno grandi potenzialità troppe volte disperse nell’improvvisazione e nella disorganizzazione che si risolve nell’arte dell’arrangiarsi o nel mettere in azione furberie dal corto respiro. Abbiamo bisogno di ricostruire la fiducia fra noi e con i nostri amici europei. Abbiamo le possibilità di rilanciare se ci assumiamo le responsabilità, prima fra tutte  quella di affrontare il nostro debito pubblico, senza frignare o senza dare colpe a entità esterne. Non possiamo volere cose che non stanno insieme e che non saremmo noi stessi disposti a concedere. Se vogliamo la mutualizzazione del debito come chiede la Lega e FdI è evidente che i partner europei desiderano avere voce in capitolo. Il doppio giochismo di questa destra che richiede gli eurobond in Italia e vota contro in Europa svela purtroppo il disegno ultimo: l’uscita dall’euro. Ciò significa aprire il paese a scenari sud americani soprattutto se ci avviamo ad un debito del 150 160 % del PIL.  Chi comprerà questo debito e a quali interessi?  Se vogliamo avere condizioni sostenibili non resta che dialogare e trattare a Bruxelles, anche perché abbiamo troppo da perdere da uno scontro in opzione italexit.
Ecco perché occorre isolare queste politiche suicide. E lo deve fare per primo il campo del centro destra, deve avere il coraggio di dare un alternativa al proprio elettorato che non sia il sovranismo.
E’ ora di usare il buon senso di fronte anche alle prospettive di scenario mondiali, ragionare senza preconcetti prima che i fatti diventino ingovernabili. Insieme dobbiamo dare solidità alle istituzioni creando fiducia e ciò non può passare che attraverso uno sforzo unitario di RIFORMA ISTITUZIONALE e di GOVERNO . Sviluppando sistemi di GESTIONE E DI CONTROLLO DELL’IMPLEMENTAZIONE DEI PROCESSI DI RIFORMA.

Infine va affrontata definitivamente la QUESTIONE MERIDIONALE. Non si può consentire a metà popolazione di non avere altra alternativa per crescere se non l’emigrazione o la ricerca di sussidi statali o impieghi in finti posti di lavoro.
Tutto ciò sarà possibile se usciti dalla pandemia non si arriverà ad una resa dei conti politica , non perché non sia corretto comprendere gli errori, le colpe le negligenze, le mediocrità e le insufficienze. Queste analisi andranno fatte e le conclusioni tratte. Ma se queste diventeranno un motivo di ennesima guerra fratricida e di vendetta politica questa sarà foriera di decadenza.

Ecco il nostro 25 aprile!  Una liberazione dalla faziosità! Un richiamo forte all’unità per riprogettare il futuro. Una liberazione dall’immobilismo. Una liberazione dal rischio dell’arretratezza e dal risucchio nella povertà. Una riconferma dei valori costituzionali e della nostra democrazia. Una ripresa del cantiere europeo.

Non andrà tutto bene se non avviamo il cambiamento. Cambiare vuol dire anche soffrire all’inizio per un futuro migliore. E’ tutto ciò un sogno? Anche i partigiani sognarono un mondo migliore, in parte ci riuscirono, in parte furono traditi o fallirono.
Ma possiamo sperare ed incamminarci su vie nuove senza un sogno?