Un punto di vista sulle unioni civili

Lunedì, 2 Novembre, 2015

Quando si parla della nuova legge in itinere sulle unioni omosessuali è difficile sottrarsi alla pressione delle opposte tifoserie, che sul tema non ammettono mediazioni e discussioni.

Vi sono i sostenitori del matrimonio gay senza se e senza ma, che considerano qualunque argomento contrario come figlio di una cultura oscurantista se non in fondo omofoba.

Vi sono gli oppositori a prescindere, che sostengono che qualunque apertura in quella direzione sia la porta di ingresso per una slavina legislativa che si porterà dietro la fine della famiglia tradizionale.

È davvero difficile, in questo contesto alimentato ad arte da larga parte del sistema mediatico, riuscire a scendere sotto la superficie delle emozioni, per incamminarsi sul sentiero più impegnativo, ma più costruttivo, della ragione e della riflessione.

E bisogna ammettere che questo clima influisce pesantemente anche sul legislatore, che non sempre riesce a mantenere la freddezza dovuta in scelte così rilevanti per la vita del paese.

Vale la pena allora di provare a riallineare argomenti e ragioni che ci possono aiutare a tracciare i confini della strada che il parlamento italiano sta cercando di percorrere.

Cominciando col ricordare che l'Italia è uno dei pochi paesi occidentali a non essersi ancora dotata di una disciplina specifica che regolamenti la vita in comune di coppie omosessuali, esponendosi così alle censure della corte europea dei diritti dell'uomo, che da ultimo con una sentenza dell'estate 2015 ha considerato questa lacuna legislativa lesiva di principi incardinati nella convenzione dei diritti dell'uomo.

D'altro canto è almeno dal 2010 che la corte costituzionale italiana ha espressamente statuito che il legislatore deve intervenire in materia, con una famosa decisione con cui ha sottolineato che, secondo i principi costituzionali, non vi è alcuna necessità di riconoscere il matrimonio omosessuale, e purtuttavia è doverosa una apposita disciplina in quanto la coppia omosessuale rappresenta una specifica formazione sociale tutelata ai sensi dell'art. 2 della costituzione.

Ed è proprio nel solco di questa pronuncia che ha deciso di muoversi il legislatore, partendo dal riconoscimento implicito della peculiarità del matrimonio, riservato alle coppie eterosessuali in quanto ontologicamente differente da qualunque altro rapporto, e cercando dunque di costruire una disciplina autonoma e specifica per le coppie omosessuali.

Su questo terreno si è trovata un'ampia convergenza, anche all'interno del partito democratico, che per articolazione interna e rappresentatività parlamentare può a buon titolo definirsi, sotto questo profilo, uno spaccato del paese.

Come spesso accade, peraltro, se sul piano dei principi si è trovato un sostanziale accordo, è poi nella traduzione normativa che si sono sperimentate difficoltà e mediazioni complicate.

In primo luogo nella definizione e articolazione dei diritti e dei doveri discendenti dalle unioni civili omosessuali: è chiaro infatti che un rimando massiccio e continuo alle norme sul matrimonio, quale dato rivenire nel testo inizialmente proposto dalla relatrice della legge, contraddirebbe la premessa su cui si fonda la nuova normativa, facendo entrare dalla finestra ciò che era rimasto fuori dalla porta, ovvero una sostanziale equiparazione di matrimonio e unione civile.

Sotto altro profilo, non poche difficoltà ha suscitato un'altra previsione normativa contenuta nella proposta, quella che disciplina la possibilità di adozione, da parte di un partner dell'unione civile, del figlio biologico dell'altro (cd. stepchild adoption).

Una previsione ispirata all'apprezzabile tentativo di garantire i minori che crescono in una famiglia omogenitoriale, che hanno il diritto di vedersi riconosciuta la possibilità di una continuità affettiva mediante la costituzione di una relazione giuridica speciale col partner del genitore biologico.

Tuttavia una norma che rischia, così come concepita, di consentire di fatto ciò che per legge si è espressamente deciso di non rendere possibile, ovvero l'adozione per le coppie omosessuali, incentivando per questa via anche pratiche estremamente criticabili, come la maternità surrogata (altrimenti detta utero in affitto).

Su questi aspetti la discussione, soprattutto interna al partito democratico, è tutt'altro che chiusa.

Eppure terreni di intesa sono certamente possibili, e credo non sia mai stata così vicina la possibilità di arrivare in fondo al percorso legislativo.

Alla condizione però di un disarmo bilaterale.

Da un lato occorre cioè accettare davvero, e non in modo fittizio e simulato, il compromesso raggiunto sulla costituzione di un istituto distinto dal matrimonio per le unioni tra omosessuali. Occorre in altre parole evitare espedienti o escamotage, anche di natura lessicale, finalizzati ad una equiparazione di fatto, magari lasciando margini di ambiguità e incertezza che si spera vergano colmati in via interpretativa a suon di sentenze.

È ben noto, tanto per fare un esempio, che la corte costituzionale austriaca ha legittimato oltralpe le adozioni da parte di coppie omosessuali, che il legislatore aveva espressamente vietato, perché in quell'ordinamento era già prevista la stepchild adoption, e si è ritenuto contrario al principio di ragionevolezza ed eguaglianza consentire l'una cosa e non l'altra.

Se dunque si introducesse così com'è ora ipotizzata la stepchild adoption in Italia, occorre sapere che si profilerebbe una possibile introduzione dell'adozione tout court per le coppie omosessuali per via giurisprudenziale.

Un esito auspicato da alcuni, deprecato da altri, ma che certo non costituisce oggi il terreno di intesa raggiunto, che andrebbe invece salvaguardato.

Dall'altro lato occorre accettare, una volta per tutte, il principio tutto politico, ma ineludibile, della mediazione possibile nel contesto dato.

Fa sorridere vedere chi oggi si oppone a questa legge in nome di cosiddetti principi non negoziabili, che si affanna a proporre soluzioni legislative più light, che riconoscono alle coppie omosessuali solo alcuni diritti di natura personale. Fa sorridere perché si tratta degli stessi che si misero di traverso ai Di.Co., le dichiarazioni di convivenza elaborate dal governo Prodi, che erano esattamente la stessa cosa, un riconoscimento di alcuni diritti e poco più. Una ipotesi normativa nettamente più 'leggera' rispetto a quella oggi in discussione, la quale ultima però costituisce, qui ed ora, la mediazione possibile più avanzata.

Al fronte cattolico più oltranzista direi dunque: avete sbagliato una volta, avete fatto le barricate contro una ipotesi di legge che oggi, a posteriori, considerate opportuna, perseverare nell'errore sarebbe davvero diabolico.

Se dunque si vuole davvero raggiungere il traguardo, se si vuole riconoscere dignità ad un rapporto di coppia non fondato sulla diversità di genere, perché comunque si tratta di un legame apprezzabile per l'ordinamento, ebbene oggi la strada maestra è di fronte a noi: si tratta solo di volerla percorrere senza forzature e infingimenti.