Sussidiarietà, meglio diffidare degli inciuci

Giovedì, 23 Agosto, 2018

Anche nel nuovo parlamento, si è costituito un “intergruppo per la sussidiarietà” che ha sfornato un documento sottoscritto da 200 parla­mentari di ogni colore. Una parte di esso è stata pubblicata dal Cor­riere dell’8 agosto. Come in passa­to, per iniziativa dei politici e­spressione di CL, ieri Roberto For­migoni, oggi Maurizio Lupi, il meeting di Rimini darà risonanza a quel documento. Non da oggi, nutro scetticismo al riguardo. Per tre ragioni: perché la parola-con­cetto sussidiarietà, densa e polisemica, cara al magistero sociale del­la chiesa (la si rinviene in tutte le encicliche sociali dal 1931, con la “Quadragesimo Anno” di Pio XI), è diventata un passe-partout, cia­scuno la interpreta a modo suo; per ché ho imparato a diffidare del­le convergenze troppo facili e troppo estese in sede politico-par­lamentare; perla circostanza che a fare da cassa di risonanza alla cosa sia il meeting ciellino.

Sussidiarietà allude a una con­cezione dello Stato che riconosce il primato della persona e della so­cietà, che rispetta e valorizza le formazioni sociali e i corpi intermedi (sussidiarietà orizzontale), non­ché l’autonomia degli enti territo­riali (sussidiarietà verticale). In coerenza con l’articolo 2 e 5 della Costituzione. E questo un tempo nel quale la sussidiarietà ben intesa gode di buona salute presso le forze politiche? Non mi pare.

Nella nostra architettura costi­tuzionale la sede più alta deputata alla mediazione e alla sintesi del pluralismo sociale e territoriale è il Parlamento. Come si concilia con la suggestione del superamento di esso e con enfasi sulla democrazia diretta (decisamente subordinata alla centralità del parlamento) che sembra fare breccia nei 5 stelle? Che, per inciso, apprezzabilmen­te, avevano contrastato la riforma Renzi-Boschi in quanto alterava l’equilibrio costituzionale a tutto vantaggio del governo? Si pensi al­la metamorfosi della visione dello Stato da parte della Lega, passata dalla retorica federalista-autono­mista al centrali­smo e al sovranismo. Proprio da Rimini, ci si è mes­so anche Giorgetti ad adombrare l’i­dea di un ridimen­sionamento del Parlamento. Per il Pd parla la riforma costituzionale bocciata, il cui im­pianto era tutto men che ispirato a una cultura delle autonomie: sia nella verticalizzazione del potere nei rami alti dello Stato, sia nella netta ricentralizzazione nei rap­porto tra Stato e regioni.

Infine, si pensi alla concezione e alla pratica dei rispettivi partiti. Tutti ridotti a comitati a supporto del leader. Nel citato documento si stigmatizza il leaderismo, ma poi scorrendo le firme si ha l’impres­sione che il “mea culpa” sia battuto sul petto degli altri. Tutti e 200 do­vrebbero essere oppositori del lea­derismo in casa propria.

Infine, la sede del meeting riminese. Per circa venti anni, abbiamo conosciuto una certa versione pra­tica della sussidiarietà (un rappor­to malato tra ente pubblico e sog­getti privati) da parte di un attore protagonista di quel movimento e di quell’appuntamento estivo. In­tendo Roberto Formigoni, che del­la sussidiarietà (malintesa) aveva fatto la sua bandiera. Ma sarebbe lecito domandare se la costante fi­logovernativa dei meeting sia cor­rente con una ben intesa sussidia­rietà, che semmai evocherebbe au­tonomia. Verso i governi centrali e quelli locali. La novità del mancato invito ai 5 stelle oggi al governo può essere letta persino come una buona notizia per entrambi, un raro se­gno di chiarezza nelle distinzioni. Reggerà?

Sempre il documento pone en­fasi sul metodo, condensato nelle parole incontro, dialogo, patto, coesione sociale e nazionale Po­tremmo contentarci di molto me­no: quello dell’impegno alla civiltà nel confronto tra differenze leal­mente enunciate. Rispettarsi e ri­spettare il senso e il peso delle pa­role, da non “manomettere” (Gianrico Carofiglio), compresa la parola sussidiarietà, è la precondizione di un proficuo confronto.