Stato e Chiesa: il profilo giuridico

Giovedì, 30 Aprile, 2020

La vicenda che ha visto la Conferenza Episcopale Italiana emanare una significativa nota il 26 aprile, dall’eloquente titolo “Il disaccordo dei Vescovi”, a seguito del Dpcm del Presidente del Consiglio con cui, per la fase due, posticipava a dopo il 4 maggio la possibilità di celebrare le messe con la partecipazione di popolo, merita più di una riflessione.

Infatti, è da valutare tale nota, non solo per il rilievo che assume presso l’opinione pubblica, rischiando di produrre uno scontro religioso, ma anche dal punto di vista giuridico, potendo un esame delle norme che regolano tali aspetti fornire una giusta ed equilibrata soluzione alla vicenda.

In particolare, è necessario esaminare i principi che reggono i rapporti tra lo Stato e la Chiesa e  il tema della libertà religiosa in una situazione emergenziale.

La prima affermazione che mi sento di fare è che la forma, nell’ambito giuridico, sorregge sempre la sostanza.

Ripercorrendo quanto è successo dal sorgere della epidemia ad oggi, nei rapporti tra Stato e Chiesa, in materia di divieto alla partecipazione del popolo alle liturgie, mi lasciano perplesso le forme e i modi in cui è stata gestita.

Innanzitutto, condivido l’autorevole affermazione del Presidente della Corte Costituzionale che ricorda “anche in piena fase di emergenza da Coronavirus, il sistema istituzionale e giuridico resta quello previsto dalla Costituzione, nella quale non c’è spazio per alcun diritto speciale”.

Anche in tempi di pandemia, i rapporti tra Stato e Chiesa devono continuare ad essere regolati dall’art. 7 della Costituzione “Lo Stato e la Chiesa sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”.

Così come rimane valido l’art. 19 della Costituzione che sancisce il principio di professare liberamente la propria fede.

Nella propria nota, la CEI ricorda alla Presidenza del Consiglio “si richiama il dovere di distinguere tra la loro responsabilità – dare indicazioni precise di carattere sanitario – e quella della Chiesa chiamata a organizzare la vita della comunità cristiana”.

Rispetto a quanto sostenuto dalla CEI, pur trovando giustificazione nel primo comma dell’art. 7 della Costituzione, credo sia necessario porsi una questione di fondo: quanto verificatosi, ad opera dell’azione del Governo, può realmente qualificarsi come violazione della norma costituzionale sopra richiamata? Esiste veramente un problema di mancata indipendenza della Chiesa?

Personalmente non ritengo che ci sia un tale problema, che il clima sulla libertà religiosa, nel nostro paese, sia tale da compromettere l’autonomia della Chiesa.

Temo che il problema, nel caso di specie, sia più di forma, di attenzione istituzionale, che giustifica il richiamo dei Vescovi all’osservanza di tale principio.

Cosa diversa è sostenere che esista un problema di mancanza di autonomia, che travalichi nel non riconoscimento della libertà religiosa o, ancora peggio, in un comportamento persecutorio nei confronti della Chiesa. 

Temo che esiste un rischio concreto, che qualcuno, anche in buona fede, voglia aprire una disputa tra Chiesa e Stato, così da favorire un contrasto tra clericali e anticlericali, dare vita ad una guerra di religione, risvegliando istinti di minoranze del paese, così da mettere in discussione lo stesso principio costituzionale di cui stiamo discutendo.

Per assicurare l’indipendenza e la sovranità tra Chiesa e Stato, lo stesso art. 7, al secondo comma, indica che lo strumento è quello “pattizio”. Tale norma è fondamentale perché riconosce valore costituzionale a tale principio di condivisione e forza normativa ai patti sottoscritti tra lo Stato e la Chiesa.

Il richiamo all’art. 7 della Costituzione ci permette di portare la questione all’interno di una corretta dialettica istituzionale, così come regolata dal Concordato modificato nel 1984.

Quest’ultimo, nel preambolo, prevede che i principi sanciti dalla Costituzione e le dichiarazioni del Concilio Ecumenico Vaticano II, sono i presupposti su cui si fondano i principi  della libertà religiosa e i rapporti fra la Chiesa e la comunità politica.

Sostanzialmente la Chiesa e lo Stato fanno riferimento agli atti che maggiormente rappresentano la loro visioni del mondo.

Nell’art. 1 dell’Accordo, lo Stato e la Chiesa riaffermano, ciascuno nel proprio ordine, la rispettiva indipendenza e sovranità, impegnandosi al pieno rispetto di tali prerogative nei loro rapporti.

Tale norma, indica la necessità di stabilire rapporti che rendano effettive l’indipendenza e l’autonomia, ciascuno nel proprio ordine, cioè negli ambiti che rispettivamente gli competono.

Applicando tali principi alla situazione contingente di una gravissima pandemia, possiamo sostenere che lo Stato ha il compito di contenere il diffondersi del contagio e di assicurare le cure agli ammalati; mentre, la Chiesa ha il compito di assicurare al popolo di Dio di vivere la propria fede, anche in un momento di emergenza.

Sempre l’art. 1, afferma che la collaborazione è finalizzata alla promozione dell’uomo e al bene del Paese. Queste finalità condivise, impongono che tali beni-interessi devono guidare i rapporti tra le parti, giustificando anche la possibilità che, in contesti eccezionali, possa verificarsi un potenziale sbilanciamento a favore di una delle parti.

Pertanto, appare plausibile che per i suddetti beni, la Chiesa accetti che la sua vita sacramentale subisca limiti.

Anche l’intervento di Papa Francesco va in questa direzione laddove dice “in questo tempo, nel quale si incomincia ad avere disposizioni per uscire dalla quarantena, preghiamo il Signore perché dia al suo popolo, a tutti noi, la grazia della prudenza e della obbedienza alle disposizioni, perché la pandemia non torni

Il Papa riconosce il valore di obbedire alle norme dell’autorità civile, perché sono finalizzate al bene degli uomini.

Se possiamo essere d’accordo che il problema non è tanto la illegittimità di limitare le celebrazioni con la presenza di popolo, non possiamo condividere che tale limitazione possa avvenire senza un percorso condiviso e un ruolo riconosciuto della Chiesa nel cercare il bene dell’uomo.

Tale giusta prerogativa della Chiesa è peraltro statuito dall’art. 2 dell’Accordo che prevede che “la Repubblica italiana riconosce alla Chiesa cattolica la piena libertà di svolgere la sua missione pastorale, educativa e caritativa, di evangelizzazione e di santificazione. In particolare é assicurata alla Chiesa la libertà di organizzazione, di pubblico esercizio del culto, di esercizio del magistero e del ministero spirituale”.

A mio parere, sapendo di far torcere il naso a chi valorizza una interpretazione più letterale della norma, la libertà della Chiesa può essere limitata legittimamente per l’interesse dello Stato, solo quando questi persegue quei beni condivisi, indicati nell’art.1 dell’accordo.

Mentre non può essere derogato il metodo della condivisione.

Mi sembra che vada in questa direzione anche quando dichiarato il 28 aprile u.s. dal sottosegretario della CEI alla stampa “la volontà dei Vescovi è di andare avanti col dialogo costruttivo con il governo nel momento in cui si lotta perché la pandemia non torni a livelli appena superati”.

Mi permetto di auspicare la necessità che venga definito un percorso condiviso, la creazione di un gruppo di lavoro misto tra lo Stato e la Chiesa che, alla luce delle evidenze sanitarie, decida tempi per il ritorno alla vita ordinaria della Chiesa e definisca protocolli di sicurezza.

Credo che sia giusto sottolineare, pur nella fatica e nella sofferenza di non poter vivere pienamente i Sacramenti, come gli strumenti di comunicazione abbiano dato pieno supporto a vivere il nostro essere Chiesa.

Diversi, peraltro, sono i segnali che ci dicono che tale attenzione abbia aiutato qualche fratello distante a riavvicinarsi.

Spero che quanto fin qui scritto possa contribuire ad una riflessione serena finalizzata ad evitare strumentalizzazioni di un tema rilevante che, comunque, non può giustificare uno scontro.

Avv. Giuseppe Cannella