Società’ ed economia 4.0. Minaccia od opportunità per un nuovo umanesimo?

Giovedì, 17 Maggio, 2018

Come robot avrei potuto vivere per sempre, ma dico a tutti voi oggi che preferisco morire come uomo che vivere per tutta l’eternità come macchina. Per essere riconosciuto per chi sono e per ciò che sono. Niente di più, niente di meno. Non per la gloria, per l’approvazione, ma per la semplice verità di questo riconoscimento. È stato l’elemento propulsivo di tutta la mia esistenza e devo riuscire a ottenerlo se voglio vivere o morire con dignità. ( da: L’Uomo Bicentenario)

Le ondate successive di innovazione tecnologica e digitale accompagnate dalla crisi finanziaria che si è abbattuta sulle società occidentali insieme ai processi di globalizzazione stanno generando senso di smarrimento in molti, rancore e rabbia in tanti, per altri crescita e sviluppo, in tutti la consapevolezza di essere in territori sconosciuti. Un panorama fortemente disomogeneo carico di tensioni economiche e sociali. In questa situazione le scelte che si faranno in questi anni , condizioneranno il futuro della nostra società e la qualità sociale ed economica dell’Italia dei prossimi vent’anni.

In questo senso è un periodo di straordinaria opportunità tipica dei momenti di ricostruzione,

di ripensamento e riorganizzazione, ma le uscite positive richiedono capacità di fare sistema, di unire le forze per un progetto comune, di pensare nuovi modelli di inclusione sociale che proteggano gli esclusi e gli emarginati da questi cambiamenti .

Sono le classi dirigenti italiane a tutti i livelli: politiche, burocratiche, economiche, formative, all’altezza di questo compito?

 

Alcune consapevolezze.

Comprendere la natura dei fenomeni che si devono guidare è il primo ed imprescindibile passo per progettare il futuro.  

Fra le tante caratteristiche di questa nuova realtà certamente le seguenti sono fra le più importanti: rapidità dell’innovazione-capacità di fare sistema-competenze-welfare

 

Rapidità dell’innovazione.

La diffusività dell’innovazione segue quella che nel 1965 uno studioso di informatica Gordon Moore, colui che fondò l’Intel (il microprocessore che c’è in ogni nostro computer dove sulla scocca leggiamo “Intel inside” ), considerò che la potenza dei processori al silicio sarebbe cresciuta ad un ritmo costante rispetto al prezzo , permettendo di aumentare

in modo esponenziale la loro capacità senza diventare più costosi (le due leggi di Moore poi ulteriormente aggiornate ed integrate).

La maggiore efficienza ed economicità ha reso possibile la diffusione di queste applicazioni non solo nei processi produttivi, ma anche in quello dei servizi e nella vita quotidiana.

Secondo autorevoli studiosi i trend di diffusione della robotica nei prossimi anni non riguarderà tanto il processo produttivo quanto quello dell’uso domestico.

I numeri sono impressionanti! A fronte di circa 1,5 milioni di robot nell’industria, e di circa 300 mila  nei servizi e nel mondo sanitario, ben oltre 40 milioni verranno immessi nel mercato dell’uso domestico ( casa , scuole, uffici)

Gli effetti occupazionali se sono stati depressivi fino ad ora, in quanto questa diffusione applicata ai settori produttivi, dalla robotica alla meccatronica, ha progressivamente sostituito l’intervento umano nel processo produttivo, potrebbero riprendere con la nascita di nuove imprese che forniscano questi beni/servizi e quindi in definitiva nuovi occupati.

Nel frattempo occorre gestire la transizione soprattutto nelle imprese di più antica meccanizzazione come quella automobilistica. Non si può nascondere che in Germania l’ultima trattativa sindacale giunge ad un accordo di lavoro di 28 ore settimanali, quasi un part time.

D’altro canto questa nuova fase dello sviluppo potrebbe far riconsiderare quell’antagonismo uomo macchina che ha generato nuove forme di luddismo e di esclusione.

Ciò significa però impatto sul mercato dei capitali, sulle competenze, sui processi.

Entrare in questa onda di innovazione significa per una nazione scegliere tra prosperità e declino, tra un ruolo di attore protagonista o replicante in cerca di padrone.

La rapidità di adeguamento a questa nuova domanda è fattore chiave del successo per una nazione. L’Italia e la sua classe dirigente ha la consapevolezza di questo senso dell’urgenza?

 

Capacità di fare sistema

Augias nel suo libro “Questa nostra Italia” fa un punto della situazione sulla fase di stallo in cui siamo arenati.  “Quando si è chiusa la fase internazionale dalla quale, collocati lungo la linea di faglia tra i due blocchi, abbiamo ricavato notevoli benefici, quando sono finiti gli anni grassi, l’enorme sforzo compiuto per rimetterci in piedi dopo le devastazioni della guerra, quello grazie al quale un paese agricolo-patriarcale arretrato balzò in poche anni ai vertici dell’economia industriale, ha presentato come si usa dire il conto”. Sono ormai più di 20 anni che la produttività ristagna e la crescita, al netto della grave crisi, oscilla attorno all’1%.

In questo scenario, salvo alcune eccezioni, la grande impresa è scomparsa. E’ una battaglia, quella delle grandi imprese, che come paese abbiamo perso. Resta la piccola, ma a questo punto molto più importante la media impresa su cui far leva per guardare al futuro con speranza. Ma a condizione che si abbandonino modelli solipsistici tipicamente italiani. Scegliere di fare sistema, non è una possibilità fra diverse opzioni è una imperiosa unica strada necessitante.

Fra i diversi megatrends in atto come andamenti demografici e migrazioni, vi è anche quello della interdisciplinarietà.  Poiché non è più sufficiente produrre beni e gestirli su piattaforme, ma, è necessario ridurre costi e rischi della ricerca di base promuovendo ecosistemi innovativi che internalizzino “economie esterne” di informazione e di interconnessione tra imprese per raggiungere quella massa critica che consente di competere. Per fare ciò è necessario un minimo di coordinamento strategico. Occorre una politica industriale. Non necessariamente un nuovo dirigismo, ma una capacità diffusa di fare sistema.

E qui il punto debole dell’Italia emerge in tutta la sua dimensione. Anche l’ottimo progetto di Industria 4.0 ha trovato in questa debolezza un suo limite.

Lo spirito italico tanto coraggioso in molte sfide imprenditoriali tende poi ad un campanilismo che sfocia nell’anarchia e nell’insofferenza di regole e di processi di condivisione.

I contorcimenti della politica non aiutano a sviluppare questo approccio.

Occorrerebbero classi dirigenti politiche, industriali, burocratiche che rimettessero al centro l’interesse nazionale rafforzando i due processi alla base della costruzione di un sistema: il processo realizzativo e il processo di controllo. Sono due fasi indispensabili per giungere ad un risultato positivo e sono le due aree di maggior carenza del sistema Italia che dopo la brillante creatività ideativa si impantana appunto nelle due fasi successive.

 

Competenze e Welfare alla ricerca di un nuovo umanesimo.

Le trasformazioni in atto necessitano di nuovi mix di competenze. Competenze non solo digitali ma anche gestionali ed in continua evoluzione in una susseguente interazione tra istruzione, formazione, riqualificazione ed innovazione tecnologica.

Competenze che si acquisiscono in una connessione tra luoghi di formazione, scuole professionali e imprese al fine di evitare il disallineamento tra domanda e offerta di lavoro che si sta producendo in Italia . Secondo Unioncamere e Anpal la difficoltò segnalata dalle imprese di trovare il candidato più idoneo passa dal 12% dei contratti totali del 2016 ad oltre il 21% nel 2017.

In Italia la scuola professionale forma 8.000 persone all’anno quando dalle scuole tedesche ne escono 800.000 all’anno.

Sono gap che hanno un costo sociale oltre che economico.

Queste trasformazioni hanno ricadute non solo industriali e scientifiche, ma anche enormi trasformazioni economico sociali.

In Europa le politiche neoliberiste abbracciate senza spirito critico, in modo ineludibile (come diceva la Thacher “non c’è alternativa”), hanno messo in crisi la caratteristica principale delle società europee: il loro welfare. Welfare che non nasceva dal nulla ma da una visione solidaristica della società in contrapposizione a quella individualistico economicista americana che riduceva il singolo individuo a onnipotente consumatore. Una visione che sapeva conciliare anche con forme innovative di cooperazione stato e mercato, società e comunità.

Si prospetta un futuro in cui si oscilla tra discontinuità occupazionali  e aristocrazie di minoranze iper specializzate,  dove anche nei periodi di occupazione si parla di part time , dove i processi di automazione  competono  e cooperano con il lavoro umano, ma in cui l’ intelligenza artificiale in rapida e costante evoluzione, al di là degli spettacolari utilizzi di milardi di informazioni, pone il serio tema della trasparenza degli algoritmi e  la generazione di vuoti di conoscenza e quindi di controllo nei processi di scelta e di risultato degli stessi algoritmi. E’ facile comprendere le ricadute anche sui livelli di libertà individuali. Inoltre, i cambiamenti dei modelli organizzativi del lavoro dove sempre più dominano strutture piatte poco gerarchizzate forse non pongono un nuovo problema del tema del valore lavoro? Infine se tutto ciò avviene in una prospettiva ordoliberista non è vero che non usciamo più da una spirale di bassi salari, compressione della spesa pubblica, distruzione di welfare, accentramento di ricchezza in pochi individui o gruppi?

Sono temi che fanno intravedere che per cogliere le opportunità, evitando di essere travolti dalle minacce che inevitabilmente a queste si accompagnano, come potrebbe essere un’implosione sociale generata dagli esclusi della terra, occorre adoperarsi alla fatica di elaborare una visione della società che accompagni il cambiamento, mantenendo la centralità della persona umana. Una società che sappia generare fiducia e con essa legittimazione.

A fianco del ruolo fondamentale della direzione d’impresa è indispensabile il ruolo della politica che è l’unica in grado di rifiutare un pensiero frammentario a favore di una capacità inclusiva di un pensiero politico che abbia al centro l’unica e sola forza in grado di unire la società: la persona umana e il suo valore.

Occorre ripensare non solo Mounier ma anche il personalismo comunitario di Olivetti, occorre rivalutare e ripensare l’approccio keynesiano dell’economia, occorre rilanciare la dottrina sociale della chiesa dove vige il primato della società rispetto allo stato, dove il principio di sussidiarietà è un cardine di sviluppo sociale.

E’ un campo appassionante su cui i cristiani dovrebbero interrogarsi e cimentarsi per individuare strade nuove, dove la dignità della persona sia il motivo per cui vale la pena di vivere la straordinaria se pur imperfetta avventura umana come intuiva il robot dell’Uomo bicentenario di cui in apertura la citazione.