Riforme. Sarà la volta buona?

Incrociamo le dita. Dopo circa trent'anni di estenuanti discussioni, forse siamo alle viste di una estesa riforma della seconda parte della Costituzione: un bicameralismo non più paritario, cioè un Senato non fotocopia della Camera, e una revisione del rapporto tra Stato centrale e sistema delle autonomie territoriali. A integrazione, con legge ordinaria e non costituzionale, la riforma della pubblica amministrazione. Che è la condizione dell'efficacia di tutte le buone riforme, comprese quelle economico-sociali. Al netto dei tecnicismi, quali il senso e l'obiettivo delle riforme in cantiere? In estrema sintesi: una macchina pubblica più snella ed efficiente, uno Stato più moderno, un procedimento legislativo più celere e meno estenuante, un sistema delle autonomie al riparo da sovrapposizioni, conflitti, sperperi.
È una buona notizia. Le istituzioni sono come il vestito della società. Dopo sessantasei anni dalla promulgazione della Costituzione la società ha subito una profonda evoluzione e, per quanto i costituenti siano stati saggi e lungimiranti, la seconda parte della Carta è quella che più porta i segni del tempo. Del resto, loro stessi erano consapevoli che la più riuscita e la più longeva sarebbe stata semmai la prima parte, quella dove sono stati scolpiti principi e diritti che resistono al tempo. In verità, non si era partiti bene: la retorica della velocità mal si addice agli interventi sulla Costituzione, sbagliata e demagogica l'enfasi posta sulla riduzione dei costi della politica (un problema serio e giustamente avvertito dalla pubblica opinione, ma non il problema principe quando si mette mano all'architettura dello Stato), una esorbitante ingerenza del governo su materia genuinamente parlamentare, una polemica sopra le righe coni i "professoroni" su materia che invece prescrive competenza, studio, approccio sistemico.
In corso d'opera, si sono corretti una parte di tali errori e sembra si sia vicini all'approdo: un Senato delle regioni e delle autonomie espresso da elezioni di secondo grado e dunque diverso per composizione e per funzioni dalla Camera politica cui sola compete dare la fiducia al governo; una revisione del rapporto tra Stato e regioni che corregga la sbornia della stagione nella quale si è inseguita la parola magica del federalismo; una pubblica amministrazione più semplice e amica del cittadino. Dopo il primo passaggio al Senato, si dovranno operare ulteriori correzioni specie per quanto attiene ai bilanciamenti e agli organi di garanzia, che non possono essere consegnati alla disponibilità delle maggioranze politiche contingenti. Specie se si considera il combinato disposto con la legge elettorale in cantiere, denominata Italicum, a impianto fortemente maggioritario. Questo circa il merito. Circa il metodo, sembra si profili finalmente un consenso largo. Essenziale per le riforme costituzionali, trattandosi delle regole che presiedono alla vita della casa comune che è la Repubblica. Non più riforme varate a colpi di maggioranza politica occasionale.
Tuttavia, la partita ancora non è chiusa e va seguita con lucido discernimento critico. Deragliamenti sono sempre possibili, specie in un tempo quale il nostro, ove si richiede di ridisegnare gli organi e i poteri dello Stato, tenendo tuttavia fermi i principi e i diritti fondamentali concepiti in una stagione singolarmente feconda proprio perché drammatica. Una stagione nella quale le parole dignità, persona, diritti preesistenti allo Stato avevano un senso pregnante e un eco universale. Merito e metodo seguito per le riforme istituzionali (comprese talune forzature, sino alla indebita demonizzazione dei dissensi leali e argomentati) ci consegnano tuttavia una questione cruciale e tuttora colpevolmente trascurata: quella dei partiti e, segnatamente, della loro democrazia interna ex art. 49 della Costituzione. Che non è problema che riguardi solo la vita interna ai partiti stessi, ma che decide più generalmente della qualità della nostra democrazia. Come ignorare che la spinta verso la figura del partito personale e verso democrazie maggioritarie e decidenti esiga non già la mortificazione ma semmai il rafforzamento del partito inteso come soggetto collettivo contrassegnato da una effettiva e vivace democrazia interna? Come tacere l'impressione che, nel PD, a una sana e aperta dialettica interna si va sostituendo la gara ad applaudire il leader?