Quella leadership che manca all’Europa

Sabato, 18 Aprile, 2020

Ci troviamo di fronte all’ennesima decisiva riunione europea. Il summit digitale dell’Eurogruppo ha portato nuovamente in primo piano le contraddizioni ma anche le potenzialità dell’Ue, nel momento in cui ci si trova ad affrontare la più grave crisi globale dal secondo conflitto mondiale. Al netto delle divergenze e delle mediazioni che soltanto il prossimo Consiglio europeo potrà sciogliere, l’Europa non è stata assente in questa crisi. Ha già fatto parecchio e altro farà nelle prossime settimane. La Bce, dopo la scivolata di Lagarde, è già andata oltre il Qe. La Commissione, oltre a sospendere il Patto di Stabilità, ha lanciato il piano Sure per finanziare i sussidi di disoccupazione e la Bei ha già immesso denaro per le piccole e medie imprese. Si potrebbe discutere su che senso abbia, in questa fase emergenziale e tesa, puntare al “bersaglio grosso” degli Eurobonds e non accontentarsi delle obbligazioni, comunque sottese sia al fondo Sure, sia alla proposta francese (e sostenuta anche da Spagna e Italia) che condurrebbe ad emettere obbligazioni a garanzia europea esclusivamente finalizzate a finanziare progetti connessi con la ripartenza dopo la pandemia.

Tutto ciò è fondamentale e nessuno lo nega. Anche molto tecnico e non si vuole certo contestare l’importanza della dimensione economico-finanziaria in questa congiuntura di crisi. Ma è altrettanto determinante definire quale leadership sarà in grado di declinare politicamente il volontarismo necessario per portare a termine salvataggio e ripartenza dei Paesi europei e di conseguenza dare un futuro all’Ue.

Ebbene da un lato abbiamo la Francia di Emmanuel Macron, il quale da oltre un biennio martella sulla necessità che l’Europa si ripensi in termini di strategia e di collocazione nel nuovo mondo dominato dall’embrionale quanto instabile bipolarismo Washington/Pechino. Giunta l’ondata del Covid-19, l’inquilino dell’Eliseo aveva già una sua narrazione per la crisi, fondamentalmente centrata sulla riscoperta di una sovranità europea. Nella lettura macroniana la perdita di centralità dello stato nazione, legata alla globalizzazione, dovrebbe trovare un suo surrogato e una sua trasposizione a livello europeo. Naturalmente si tratta, in linea con la tradizione storico-politica di questo Paese, di un europeismo appunto franco-centrico.

Ed è proprio qui che dovrebbe inserirsi l’altro pilastro di questo europeismo che, come la storia del processo di integrazione ricorda, difficilmente può avanzare senza la componente tedesca. Il punto è capire se la Germania del 2020, con la guida di un’Angela Merkel a fine corsa, è in grado di mettere sul piatto della bilancia la sua leadership politica. La questione provocatoria, ma sino ad un certo punto, è la seguente: Berlino vuole mancare il suo appuntamento con la storia? O è pronta finalmente ad abbandonare il suo status di leader riluttante?

Il problema di Merkel è interno ed è ancora una volta strettamente legato all’esercizio della sua leadership. Nessuno nega la complessità di spiegare alla propria opinione pubblica i vantaggi di una declinazione cooperativa dell’europeismo tedesco. Ma qualcuno crede che fu facile per W. Wilson convincere il cittadino medio americano, dell’importanza di coinvolgere gli Stati Uniti nel primo conflitto mondiale? E vogliamo parlare del lavoro pedagogico avviato dalla metà degli anni Trenta da F.D. Roosevelt per far capire all’opinione pubblica isolazionista che la più grande minaccia per gli Usa si trovava al di là dell’Atlantico ed era costituita dalle farneticazioni di Adolf Hitler? L’impressione è che nemmeno di fronte a questa crisi Merkel si stia spendendo più di tanto per accreditare l’idea che l’interesse nazionale tedesco in realtà coincide con quello europeo.

Per fare una battuta si potrebbe dire che Merkel si è fermata laddove aveva ricevuto il testimone dal “padre” politico (poi freddamente ripudiato) Helmut Kohl. Il cancelliere della riunificazione, proprio per ottenere il via libera europeo alla storica unità, aveva optato per una europeizzazione della Germania, in larga parte poi compensata da una germanizzazione dell’Europa via Trattato di Maastricht. La storia è finita qua, però, si potrebbe affermare parafrasando Fukuyama. Niente più esercizio della leadership politica. I tempi sarebbero maturi per un salto di qualità, ma al momento non si nota questa volontà provenire da Berlino. Se questa critica può apparire vuota o retorica, non ci vuole molto a riempirla di concretezza. Cosa significherebbe oggi esercitare tale leadership? Due esempi.

Prima di tutto accettare l’utilizzo del Mes, ma a ridottissima condizionalità, significherebbe per una volta smettere di usare lo spauracchio del rischio populismo interno e pensare, sempre per una volta, quanto l’atteggiamento opposto abbia incentivato sino ad oggi la crescita dei populismi in giro per l’Europa (caso italiano docet).

Altro esempio concreto: accettare la proposta francese di garanzia dell’Ue per obbligazioni europee finalizzate alla ricostruzione post-pandemia. Questo implicherebbe abbracciare una chiara logica cooperativa e soprattutto avrebbe come effetto decisivo quello di depotenziare la frattura fra nord e sud dell’Europa. Di fronte ad un segnale tedesco, i “volenterosi carnefici” della nuova Lega Anseatica (Olanda e Finlandia su tutti) ritornerebbero certamente nei ranghi.

L’8 marzo 2010, praticamente dieci anni fa, in piena crisi economico-finanziaria, la copertina di Newsweek titolava: “Waiting for Merkel”. Merkel arrivò (chiedere ai greci…), ma a salvare l’Ue ci pensò Mario Draghi. Siamo ancora a quel punto? A leggere le recenti parole dell’ex ministro delle finanze Schäuble sembrerebbe di sì. Scorrendo quelle del candidato alla leadership della Cdu Röttgen: “il no categorico ai Coronabond è economicamente fondato, ma emotivamente letale”, sembra che qualcosa si muova. Che il tempo della svolta sia giunto?