Quando un virus “sale in cattedra”

Giovedì, 26 Marzo, 2020

Quando un virus “sale in cattedra”: una delle “mine vaganti” del nostro tempo

Per fortuna, so che l’espressione appare quasi irriverente in questi giorni, siamo giunti a uno stadio dell’emergenza in cui, se da un lato questa non cessa di essere instancabilmente aggredita e combattuta, dall’altro le polemiche – salvo qualche resistentissima eccezione – stanno piano piano lasciando il campo alla costruzione, alla progettualità di un dopo che, comunque, questo è certo, ci sarà. E tutte le proposte in questa virtuosa direzione – a partire da quelle economiche, ma che poi toccano il piano sociale, istituzionale, e così via, a un livello nazionale ma poi quantomeno anche europeo - paiono muovere da una stessa consapevolezza, capace di imprimere a ciascuna e a tutte insieme, un valore aggiunto, un diverso vigore: si tratterà, questa volta davvero, di ripartire da un punto zero, tanta è stata la scientifica “maestrìa” di questo virus nel barrare, con penna rossa, le nostre conquiste, le nostre certezze, le nostre abitudini, anche di libertà, il nostro stile di vita, cambiando così i connotati del tempo che, al di là delle tante differenze, abbiamo sentito comunque sempre come nostro.

Una volta deciso l’ingresso nel mondo occidentale, scegliendo come primo terreno di sperimentazione proprio il nostro Paese - peraltro colpendolo al cuore, azzerando quella fisicità relazionale che, così intensa, è uno dei tratti più distintivi del nostro stare insieme - l’emergenza del Covid-19 pone i sistemi democratici di fronte a sfide completamente nuove.

Il virus, per definizione, infetta (e questo lo fa molto bene) e può essere letale (e questo non è da meno). Tuttavia, soprattutto quando agisce con tale autorevolezza, scientificità, efficacia ed efficienza, sta forse a noi provare un azzardo e svelarne anche un lato più “umano”, che possa fungere da insegnamento.

In fondo, è “grazie” a questo virus che, nel giro di una manciata di giorni, stiamo vivendo sensazioni o del tutto nuove o comunque, mai avvertite in maniera compiuta. Solo alcune, tra le tante. La paura, ma quella vera, quella che neanche il terrorismo internazionale è riuscito a infonderci in pieno, quella che entra nella carne viva di tutti senza porsi il problema di operare distinzioni di sorta: avere a che fare con la paura (vera) aiuta a rifuggire da quelli che sono solo spauracchi continuamente agitati ad arte; il limite dell’essere umano, persino in un’epoca di traslazione dallo stadio umano al posthuman: e allora ci si potrà interrogare sulla stessa “natura umana”, e sulla sua finitudine (Bodei); il valore vitale di ciò che è pubblico (sistema sanitario, ma non solo): serve per cogliere il senso più profondo del dovere tributario (artt. 2 e 53 Cost.) e per pretendere decisioni politiche di bilancio adeguatamente orientate; la sicurezza, nell’affidarsi, in alcuni settori, alla scienza: anche questa è fatta di orientamenti diversi, ma l’autorevolezza del sapere scientifico, costruito sulla ricerca (art. 33 Cost.), è risorsa troppo importante per essere piegata a giochi di parte; la responsabilità, sperimentando quanto i nostri comportamenti individuali, persino i più banali, possano incidere sull’intera comunità cui apparteniamo: si è cittadini quando si avverte che il bene personale è strettamente connesso col bene dell’altro (artt. 2 e 3 Cost.). Qui la legge se può qualcosa, è forse comunque poco, giocandosi invero molto sull’educazione, “che è anche sensibilizzazione alla dimensione della doverosità a prescindere della sanzione; che è arte di far divenire spontaneo il comportamento virtuoso e solidale” (Dalla Torre); che è promozione di uno sguardo empatico sul mondo da costruirsi sulla capacità di mettersi (anche) dalla parte dell’altro, o, per dirla con le splendide parole di Martha Nussbaum, «to think what it might be like to be in the shoes of a person different from oneself»; ancora, l’angoscia nel restare separati, divisi, isolati: un monito alla gestione della complessità secondo logiche sovraniste, imperniate sui confini e sui muri da erigere; infine, perché no, anche la noia di una vita di sola relazionalità virtuale con gli altri: occorrerà pensarci alla fine di questa emergenza, e provare a ridosare l’utilizzo del nostro tempo.

Ho parlato volutamente di sensazioni. Perché siano un di più, perché si tramutino in consapevolezze “timotiche” (Sloterdijk), utili per l’agire futuro, è necessario farle sedimentare nel tempo. Per non disperdere questo bagaglio di esperienze occorrerà lavorarci su, oltre l’emergenza. Avendo però già la certezza delle lenti da indossare: quelle dei principi di cui è intriso e irradiato il tessuto della nostra Carta costituzionale, che proprio rispetto a tutte quelle “sensazioni”, ma non solo, offre, sin dall’inizio e di continuo, un patrimonio di ancoraggi e traiettorie di grandissima ricchezza.

Abbiamo, in questa direzione, una carta importante da giocare: la legge n. 92 del 2019 ha istituito, a partire dal prossimo anno scolastico, nelle scuole di ogni ordine e grado, l’insegnamento trasversale e obbligatorio di educazione civica, a fondamento del quale “è posta la conoscenza della Costituzione italiana”, perché gli alunni possano “sviluppare competenze ispirate ai valori della responsabilità, della legalità, della partecipazione e della solidarietà” (art. 4, comma 1). Perché non sia un’occasione sprecata, occorre prenderla sul serio, a partire, per esempio, dalla necessità di un adeguato percorso di formazione degli stessi insegnanti.

Non basterà, certo, da sola. Tanti saranno gli ingranaggi da resettare. Ma azionare, comunque, la leva culturale, anche attraverso un true interdisciplinary engagment, è un passo ineludibile affinché, a maggior ragione di fronte a sfide inimmaginabili, l’uomo recuperi il senso delle cose attraverso il coraggio di riflettere (nuovamente) sulle cose. È, in fin dei conti, il nostro stesso destino nel mondo che viene rimesso in discussione grazie al rimescolamento di flussi direzionali che parevano irrimediabilmente tracciati e inattaccabili. Il Covid-19 si sta rivelando una di quelle “mine vaganti” che, prendendo in prestito le parole di un bellissimo film di Ferzan Özpetek, “servono a portare il disordine (...), a scombinare tutto, a cambiare i piani”. Se volesse davvero “salire” in cattedra, come tutti i buoni maestri non dovrebbe riscrivere lui il destino dei suoi alunni, ma offrire a questi i migliori strumenti per farlo. Tocca, comunque e sempre, a noi. Per fortuna.