Oltre la divisione fra Nord e Sud: la “questione” italiana

Lunedì, 1 Gennaio, 2018

Nell’Europa che riscopre in modo problematico e a tratti preoccupante le identità nazionali quale  fattore di separazione l’Italia si presenta con specifiche peculiarità che dipendono da fattori di lungo periodo della storia nazionale. Se l’opinione pubblica italiana e internazionale hanno teso ad accostare, a tratti in modo forzato, la vicenda catalana al referendum sull’autonomia di Veneto e Lombardia, occorre tuttavia riconoscere le caratteristiche del caso italiano, cercando di ricostruire, sia nella sua profondità storica sia nella sua articolazione sociale, politica ed economica, il quadro delle diverse tensioni che lo attraversano. La richiesta di maggiore autonomia da parte delle regioni più ricche del paese, in particolare le motivazioni politiche e la retorica che sono alla base di questa richiesta, si saldano alla campagna elettorale siciliana, alla sua qualità politica, misura della capacità delle classi dirigenti di esprimere i bisogni profondi del territorio e della classe politica di assumersi la responsabilità di una risposta democratica ad una esigenza di governo.

            Questa giustapposizione fra queste aree diverse del paese non si limita a riproporre la storica dialettica fra Nord e Sud, opponendo una “questione meridionale” ad una “questione settentrionale”. Sono queste categorie storiche che certamente delineano un complesso di questioni e nodi problematici reali. Tuttavia le due “questioni” esistono e sussistono nella misura in cui sono elementi costitutivi di un quadro nazionale: ne sono le due facce, fra loro distinte eppure indissolubilmente legate.

 

            Esiste solo una quaestio meridionale?

Il 20 settembre scorso il direttore generale della Banca d’Italia Salvatore Rossi, in un ampio e dettagliato articolo su Il Foglio, ha ripreso la questione, focalizzandosi su uno dei due “corni” del problema: la questione meridionale. Facendo leva sui dati che emergono da ripetuti rapporti del Centro Studi della Banca d’Italia, Rossi fotografa un’immagine del rapporto fra Nord e Sud nella quale lascia emergere profonde contraddizioni individuando responsabilità che sono in capo alle classi dirigenti locali e non solo nazionali. Assumendo il dato di una spesa pubblica uniforme nel paese, che mira a garantire a tutti i cittadini gli stessi diritti (salute, istruzione, sicurezza, etc.), Rossi osserva che il nodo problematico è rappresentato non tanto dalla quantità di risorse disponibili ma dall’efficacia della spesa e dunque dalla efficienza con cui le istituzioni operano nel meridione. Un aspetto, quello della gestione della spesa pubblica, che si riflette anche sulle dinamiche sociali ed economiche, determinando un quadro generale nel quale gli investimenti e l’iniziativa privata sono scoraggiati o quanto meno ben più difficoltosi che in altre zone del paese. Rossi riassume la “questione meridionale” nella minor dotazione di “capitale sociale” nelle regioni del Sud, definendo questo concetto come: «quella grandezza intangibile che ha a che fare con il senso civico dei cittadini, con la fiducia verso gli altri, con la partecipazione alla vita comunitaria».

 

            Una rilettura storica

Il lungo articolo di Rossi individua alcune questioni di fondo e in particolare due: il rapporto fra ruolo delle pubbliche istituzioni e le dinamiche economico-sociali individuali e collettive e l’importanza di un senso di responsabilità collettiva ampio e radicato. Due elementi che per essere compresi vanno guardati in una prospettiva storica di lungo periodo e che considera i processi storici che attraversano la storia dell’Italia unita. Del resto, già nella prima metà del Novecento, diverse forze politiche e culturali posero la “questione meridionale” in una chiave nazionale, offrendone una interpretazione “italiana”. Così era per Sturzo e Gramsci, così per la cultura di stampo azionista. Già in quelle interpretazioni, pur diverse fra loro per visione e finalità, emergevano alcuni elementi che occorre richiamare.

            In primo luogo, uno sguardo al formarsi della dialettica Nord-Sud suggerisce di non sposare la semplificazione di una arretratezza strutturale delle regioni meridionali al momento dell’unificazione del paese. Certamente il Regno di Napoli rappresentava un caso specifico nel panorama degli stati italiani, non solo per la sua forma istituzionale ma soprattutto per le sue dinamiche sociali ed economiche. Tuttavia la questione meridionale nasce nella misura in cui l’unificazione solidifica e congela il quadro complessivo per ragioni di ordine politico e storico: nello stato unitario appena costituito si determina una saldatura di interessi fra le classi dirigenti dell’Italia del tempo, le cui basi economico-sociali sono assai diversificate o si vengono progressivamente diversificando fra le diverse aree del paese. Si tratta di un quadro destinato a perdurare e della cui problematicità sociale, oltre che economica, si accorgono con sensibilità profondamente diverse, i popolari di Sturzo e i comunisti come Gramsci, che colgono la portata nazionale di una questione che lega il Nord e il Sud. E che questo sia l’intreccio con cui si ha a che fare emerge anche dal modo in cui il fascismo radica e consolida la propria forza politica, intercettando gli interessi della destra industriale nel settentrione, saldandosi agli interessi degli agrari in molte zone del centro Italia (Emilia Romagna e Toscana) e assumendo la difesa del latifondo nel meridione.

            La riforma agraria che i governi De Gasperi varano nel corso della prima legislatura rappresenta il tentativo di recuperare il terreno perduto, rompendo un equilibrio di poteri e interessi e cercando di modificare il quadro sociale delle regioni del Sud, allargando lo spazio di una “borghesia” agraria che era rimasta schiacciata dalla struttura sociale del latifondo. Si tratta di una riforma che tuttavia arriva, per così dire, in ritardo, alla vigilia di uno sviluppo economico di carattere industriale, che si concentra in quelle aree del paese, quelle del Nord, dove già dall’inizio del Novecento il processo di industrializzazione aveva portato con sé, non solo la creazione di infrastrutture, ma anche l’articolazione di un quadro sociale e politico diversificato.

            La storia dell’Italia repubblicana vede diversi tentativi di colmare il divario, che si concretizzano in una serie di interventi “straordinari” – si pensi alla Cassa del Mezzogiorno – che tuttavia non sembrano aver prodotto quel “salto” necessario a rendere uniforme lo sviluppo del paese. I limiti delle politiche per il Sud, non solo nella cosiddetta Prima Repubblica, ma anche nei venti anni della “Seconda”, sono limiti di cultura politica e di azione politica. È mancata cioè la capacità di dare seguito alle analisi storico-politiche del quadro italiano operando sugli assetti più profondi del quadro economico e sociale. Al tempo stessa è mancata anche la capacità di affrontare la questione nel più complessivo quadro “nazionale”, introducendo nel dibattito politico e pubblico il problema di rendere equo lo sviluppo di tutto il paese. Un dato, quello della equità, che integra gli aspetti economici con quelli sociali e pone come prioritaria l’assunzione della dimensione programmatica della Costituzione, intesa come progetto di costruzione di uno spazio pubblico di esercizio positivo dei diritti individuali, comunitari e sociali.

            Tutto questo si è saldato, a partire dagli anni ‘90 del secolo scorso, con una crisi della forma partito che ha aggravato il quadro complessivo della qualità delle classi politiche in tutte le regioni italiane, con effetti vistosi in un Sud nel quale una serie di movimenti civici importanti, ad esempio in Sicilia, Campania e Puglia, nati su temi cruciali come la legalità, non hanno trovato una continuità politica e istituzionale capace di tradurre quelle istanze in progetti di governo di lungo periodo.

 

            Una visione globale e gli strumenti possibili

Su questo contesto si misurano gli effetti non solo di una gestione della spesa pubblica inefficace, disorganica e dispersiva, che Rossi mette in luce nel suo articolo. I processi di sviluppo delle autonomie regionali – a partire dalla Riforma del titolo V della Costituzione – delegando alle Regioni poteri in materie quali l’istruzione, la tutela della salute, le risorse ambientali e in parte energetiche, hanno posto in maniera crescente il problema di come garantire i diritti che a questi settori sono connessi.

            Al netto di eccellenze presenti anche nelle regioni del Sud, la distanza complessiva fra la qualità della garanzia del diritto alla salute fra le due aree del paese mette in questione l’idea che la sua tutela possa essere completamente delegata a istituzioni regionali, senza alcuna forma di controllo da parte dello Stato.

            Al tempo stesso rischia di avere effetti ancor più distorsivi l’applicazione di criteri di redistribuzione delle risorse e degli investimenti pubblici che “premi” il merito, confondendo troppo spesso quest’ultimo con l’efficenza. Si tratta di una logica introdotta, ad esempio, nel sistema universitario e della ricerca, che inevitabilmente crea una disparità fra quelle istituzioni accademiche di eccellenza, concentrate nelle regioni del Nord, che avranno accesso a risorse ancor più ampie, e le altre realtà che invece non avranno alcuna risorsa per crescere e incidere nel lungo periodo sul loro contesto.

            L’esigenza di non scindere la “questione meridionale” da quella “settentrionale” e di ricomprenderla in una più approfondita comprensione delle dinamiche del paese si radica dunque sull’appartenenza alla comune storia italiana ed europea, ma trova una giustificazione anche nella costruzione di una politica capace di fare dello sviluppo dei diritti individuali e comunitari la propria stella polare. Questo impone di affrontare una serie di punti:

 

1) ripensare il ruolo dello Stato e delle istituzioni pubbliche in una chiave funzionale alla creazione delle condizioni necessarie per un esercizio effettivo dei diversi diritti;

2) riconsiderare la distribuzione dell’autorità fra le diverse istituzioni nazionali, regionali e locali in una chiave di federalismo che adotti il principio di sussidiarietà – orizzontale e verticale – come misura dell’esercizio del potere;

3) ridefinire la forma e le finalità della spesa pubblica e al tempo stesso dell’organizzazione fiscale con una particolare attenzione per le “leve” dell’economia (energia, comunicazione, trasporti, istruzione, ricerca, tutela ambientale) che devono essere governate come beni comuni, come beni pubblici, in una prospettiva europea.

 

Affrontare questa serie di nodi implica certamente riprendere la discussione sulla struttura dello Stato e sulle articolazioni istituzionali della Repubblica. Implica, cioè, riprendere il progetto di uno Stato federale che sia ben altra cosa dalla estrema semplificazione del “padroni a casa nostra” ma si fondi su quel principio di sussidiarietà orizzontale e verticale che finalizza ogni istituzione alla cura dei diritti e che al tempo stesso rimodella l’intera azione politica nei termini di una prossimità. In questa logica, diritti come quello alla salute o all’istruzione o compiti come la promozione della ricerca e la cura del patrimonio ambientale non possono essere confinati entro ambiti regionali, poiché rappresentano beni comuni e condivisi da realtà regionali diverse e trovano proprio nella dimensione statale quel quadro unitario di sviluppo che li rende veramente efficaci.

            Serve allora accompagnare l’esercizio dell’autorità regionale con una funzione politica dello Stato e con una visione europea che diano un quadro unitario finalizzato a rendere effettiva la cura dei diritti. Il federalismo che si impernia sulla sussidiarietà si disegna come una collaborazione e una cooperazione fra le istituzioni ai vari livelli e al tempo stesso fra il piano istituzionale e quello sociale ed economico, dando alla politica quella funzione “architettonica” che le è propria. Una funzione che non tende a diventare onnicomprensiva e a saturare ogni spazio della realtà, ma si assume la responsabilità di ordinare le diverse realtà dentro un orizzonte comune.

            Più che una questione meridionale o una questione settentrionale esiste allora una questione italiana, che significa la capacità del paese di costruire orizzonti politici possibili e capaci di affrontare le esigenze del paese non in termini di “emergenze” e dunque non con lo strumento degli interventi “straordinari”. Occorre piuttosto una visione prospettica dell’Italia, della sua storia, della sua pluralità, nella quale chiamare i cittadini alla responsabilità e all’esercizio di una civicità pienamente cosciente e che comprende che il bene comune fondamentale è non lasciare indietro nessuno in un processo di sviluppo che guarda allo spazio europeo. Si tratta cioè di sviluppare una visione integrale dell’ambiente in cui le diverse comunità, a diversi livelli, vivono e convivono, per governarlo consapevoli della sua profondità storica e dell’esigenza di aprire a quel futuro europeo che è tutto da costruire.