Mali, Libano e gli altri: quale politica estera per i paesi al confine

Martedì, 3 Novembre, 2015

Per capire più a fondo l’origine e i caratteri del terrore che ha colpito il cuore dell’Occidente a Parigi, dobbiamo guardare ai confini di quella porzione di mondo che ci è più familiare. Confini geopolitici che è difficile scorgere se continuiamo a dividere il mondo come si è fatto per anni, evitando pigramente di comprendere il tanto che è mutato; perché, come ha scritto Claudio Magris: “I confini vengono spostati, spariscono e improvvisamente ricompaiono: con essi si trasforma in maniera errabonda il concetto di ciò che chiamiamo Heimat, patria”.

Per comprendere i contorni nuovi dell’Occidente e rispondere con più consapevolezza e determinazione all’attacco subito, dunque, è proprio ai luoghi di margine che dobbiamo volgere il nostro sguardo. Per questo sbaglieremmo a sentire l’attentato che c’è stato in Mali distinto e distante da noi.

Il Mali come il Libano, la Tunisia, il Kenya; ci sono nazioni che vengono colpite perché esse sono in transizione, tra molte contraddizioni, verso sistemi democratici, plurali, in cui possono convivere sciiti e sunniti, cristiani e musulmani, e che possono dimostrare la validità e applicabilità dei concetti di libertà, democrazia, diritti umani, sistemi economici aperti anche fuori dal campo occidentale.

Gli attentati di Bamako e Beirut ci dicono che una delle linee del fronte contro il terrorismo islamista passa da qui; dalla capacità che hanno e sviluppano nazioni più fragili, di compiere fino in fondo la loro transizione. E dalla capacità del mondo libero e democratico di aiutarli, creando un argine al terrorismo, sostenendo proprio gli esperimenti di democrazia e le istituzioni dei paesi più esposti. Consapevoli che la democrazia, come ammoniva Günter Grass, ha il passo della lumaca.

In questi giorni si discute molto dell’opportunità di impiegare o meno lo strumento militare in Siria, contro Daesh. Avere una strategia di politica estera non significa però solo sapere quando impiegare lo strumento militare. La prima sfida in questo senso riguarda la possibilità di ripensare al nesso tra cooperazione internazionale e sicurezza. Tradizionalmente, i programmi di cooperazione allo sviluppo hanno come obiettivo la lotta contro la povertà e il miglioramento delle condizioni di vita dei beneficiari, ed è un tabù pensare di destinare queste risorse per programmi di sicurezza.

Sappiamo però che senza sicurezza non può esserci sviluppo e che solo istituzioni endogene stabili e legittime garantiscono la sicurezza.

Lo vediamo anche in Mali: contro gli attentatori le forze speciali Usa e Francia hanno dato un contributo militare decisivo, ma se si dà l’idea che le istituzioni nazionali siano commissariate nel monopolio della violenza non sarà possibile sconfiggere né il terrorismo islamista né pacificare le ribellioni tuareg che vi hanno fatto da retroterra.

 Non sarà semplice creare programmi di cooperazione nel settore dell’ordine pubblico, perché va sovvertito un forte pregiudizio che vede gli operatori della cooperazione come ortogonali al settore della sicurezza; perché spesso gli aiuti, attraverso la creazione di strutture parallele, indeboliscono le istituzioni formali di un paese (in Mali, ad esempio il 13% del Pil nazionale viene dai donatori internazionali), e perché in questi paesi esperimenti di questo tipo hanno fallito precedentemente (l’impreparazione dell’esercito maliano e poi il colpo di stato del 2012 hanno colto di sorpresa soprattutto gli Stati Uniti che avevano un programma di cooperazione nell’ambito del controterrorismo con il paese dal 2005).

Ma questo terreno è decisivo. In paesi come la Tunisia, il Libano o la Giordania, invece, dove la minaccia terroristica sta colpendo soprattutto le economie (il 7% del Pil tunisino deriva dal turismo; le esportazioni dal Libano alla Siria si sono ridotte di un quarto in questi anni di guerra secondo le stime della Banca mondiale) serve ripensare a strumenti di cooperazione economica e di incentivazione degli investimenti che stiano a metà strada tra i tradizionali aiuti allo sviluppo e le politiche commerciali che dovrebbero aprire ai nostri prodotti i mercati in quella regione.

Si tratta di immaginare da un lato strumenti pubblici che assicurino le imprese dei paesi occidentali contro il rischio instabilità; di pensare a programmi di cancellazione del debito per questi che sono paesi a medio reddito (e quindi non hanno beneficiato delle iniziative di remissione del debito); e infine di sviluppare programmi di graduale ma costante apertura dei nostri mercati, che aiutino a rafforzare quei settori produttivi che creano occupazione.

Infine, serve rivedere il modello di cooperazione politica con i paesi del Medio Oriente e del Nord Africa. Prima delle primavere arabe, pensavamo che le autocrazie garantissero la stabilità. Il crollo di questi regimi ci ha restituito la fragilità della nostra intuizione. Gli esperimenti democratici dopo le primavere arabe dell’Egitto o della Libia, peraltro falliti, non hanno impedito il moltiplicarsi di tensioni e conflitti. Fa eccezione solo la Tunisia.

Occorre quindi trovare capacità di dialogo per influenzare a più livelli (istituzionale, civile, mediatico) le transizioni dei paesi del Mediterraneo verso sistemi democratici. L’attribuzione del premio Nobel per la pace al Quartetto per la Tunisia certifica che le transizioni di successo sono tali solo se coinvolgono la società tutta. Reimpiantare su presupposti diversi il dialogo significa, ad esempio, dissuadere l’Egitto, che è un alleato cruciale, dalle azioni di forte repressione che perpetra, perché rischiano di contribuire alla destabilizzazione interna. Ugualmente, nel dialogo con un’altra potenza regionale come la Turchia, dobbiamo essere in grado di non accettare lo scambio tra il non vedere i gravi episodi di violenza interna durante la campagna elettorale e la disponibilità a gestire due milioni e mezzo di profughi siriani.

Solo se riusciremo a sviluppare strumenti efficaci di politica estera saremo in grado di mantenere questi paesi dentro un argine di ordine internazionale, evitando che sprofondino nel caos e si trasformino in un’altra Libia o in un’altra Somalia.