M5S, congresso clandestino?

Giovedì, 12 Novembre, 2020

La recrudescenza della pandemia e le elezioni Usa hanno oscurato gli Stati generali del M5S. Forse la cosa non dispiace ai suoi maggiorenti, perché mette il silenziatore su conflitti che potrebbero produrre la deflagrazione del movimento.

Ma non è una buona notizia perché si tratta pur sempre della forza di gran lunga maggioritaria nell’attuale parlamento in preda a una crisi che esigerebbe semmai il contrario: una decisiva, urgente ridefinizione identitaria. Non la pretesa/illusione di esorcizzare i problemi e di dissimulare le differenze.

Per converso, apprendiamo che, alle assemblee locali, avrebbero partecipato solo 8.000 dei 115.000 iscritti, che non saranno resi pubblici i voti raccolti da coloro – trenta in tutto – che potranno prendere la parola nella giornata di domenica prossima, conclusiva degli Stati generali. Ripeto: un confronto limitato a un solo giorno, senza distinte mozioni e con trenta rappresentanti. Altamente probabile che nessun nodo sia sciolto. Sarebbe l’ennesima occasione mancata.

Forse è lessico antico cui il M5S è refrattario, ma lo adotto di proposito. Semplificando, i nodi da sciogliere al congresso, alias Stati generali, sarebbero due: l’identità politica, con il corollario delle alleanze più coerenti con essa in Italia e in Europa, e la forma partito.

Si può rappresentare la partita così: vi è chi rivendica la fedeltà alle origini lamentando il loro abbandono e chi, per converso, interpreta il percorso seguito dal M5S come una positiva evoluzione, un processo di maturazione politica. Merita allora fare sintetica memoria delle fasi che hanno scandito tale percorso. Non trascurando l’antefatto. Alludo agli spettacoli di Beppe Grillo che, con linguaggio iperbolico e in forma teatrale, sollevava questioni quali l’ambiente, l’energia, i rifiuti, il digitale, il reddito di cittadinanza, la difesa dei piccoli azionisti nelle grandi società, cioè le derive oligarchiche del capitalismo.

Temi, in senso lato, di sinistra. Con la sua provocatoria richiesta di aderire al neonato Pd e di partecipare alle sue primarie. Quanto al M5S: il varo di un movimento di cittadinanza attiva con l’avvio su larga scala dei Meetup; la decisione di partecipare alle elezioni e dunque di accettare la sfida della democrazia rappresentativa; dopo una legislatura all’opposizione in parlamento, l’ulteriore passo, quasi obbligato, grazie al 33% del 2018, di cimentarsi con la responsabilità di governo; a tal fine l’abbandono del totem dell’autosufficienza e l’apertura alla collaborazione con altri gruppi per mettere insieme una maggioranza parlamentare, prima con la Lega e poi con il Pd e il centrosinistra; il sostegno al Conte due propiziato dal decisivo voto all’europarlamento sulla von der Leyen.

Un po’ - non mi si fraintenda - il corrispettivo di ciò che, a suo tempo, rappresentò per FI l’ingresso nel PPE in termini di accreditamento politico europeo. Di qui la domanda: è il caso di rinnegare tale percorso e tornare alle origini del movimento allo stato nascente? Più ancora: è possibile? E in che cosa esattamente consistono le origini? Nel movimentismo civico di contestazione della cattiva politica e dei suoi privilegi o non anche e soprattutto nell’azione condotta, dentro le istituzioni, per implementare, pur con alterne fortune, nelle leggi e nella società le issues su accennate?

Cioè i temi civico-sociali-ambientalisti, che mi pare trovino eco nelle elaborazioni del sociologo De Masi. Ad avallare l’apertura alle alleanze è intervenuto di recente un voto di iscritti, e, più in concreto, a incoraggiare la collaborazione con il Pd hanno provveduto i cittadini, mostrando la permeabilità tra i rispettivi elettorati anche a dispetto delle esitazioni dei vertici (si veda lo studio dell’Istituto Cattaneo), nonché la testimonianza degli esponenti del M5S al governo avvalorata dall’esperienza-paragone con il partner di governo precedente.

È significativo che se ne sia convinto anche Di Maio, che vi si è opposto a lungo. Del resto, da sempre, gli osservatori più attenti hanno sostenuto che vi fossero meno distanze dal Pd rispetto alla Lega. Ma tale percorso e le scelte a esso sottese dovrebbero essere finalmente e solennemente suggellate appunto da un congresso.

I custodi della sacralità delle origini – tipo Di Battista – fanno leva criticamente sul sensibile calo dei consensi, ma esso si spiega appunto con l’assunzione di responsabilità di governo che costringono a operare scelte le quali inesorabilmente piacciono ad alcuni e allontanano altri. Più chiaramente: a porre fine alla teoria opportunistica del né di destra né di sinistra, che ha premiato elettoralmente ma che, alla distanza, si rivela impraticabile. Di più: proprio i “puristi”, che rifiutano con sdegno il professionismo politico, dovrebbero essere i più risoluti nel concepire il M5S e il consenso a esso non come un fine in sé ma come un mezzo per servire il paese.

Sui due nodi del dilemma tra movimento e partito e del rapporto con la piattaforma Rousseau, nodi posti da Casaleggio in un suo tagliente post, si deve una risposta, che non può essere di natura legale ma politica.

 

Telegraficamente:

1) con umiltà si dovrebbe riconoscere che è concettualmente impropria la nozione di portavoce o di “dipendente” dei cittadini assegnata ai “rappresentanti della nazione” in parlamento. Essa contrasta con il delicato e impegnativo “lavoro” di elaborazione-mediazione prescritto dal concetto di rappresentanza. Non sorprende che, con il tempo, gli eletti si siano ribellati a tale diminutivo;

2) si dovrebbero altresì riconoscere i limiti del “metodo Rousseau” sia con riguardo alla formulazione drasticamente semplificata e talvolta tendenziosa dei quesiti (a suggerire la ratifica di decisioni già assunte), sia per quel che attiene alla selezione dei candidati, per l’esiguo numero dei partecipanti e con esiti qualitativi non sempre brillanti;

3) proprio chi si batte per il buon nome del movimento-non partito dovrebbe semmai difendere l’autonomia del Movimento politico dalla piattaforma Rousseau quale strumento a suo servizio;

4) l’enfasi sulla partecipazione della base e la massima (discutibile) dell’uno vale uno mal si conciliano con il principio ereditario (nel post Casaleggio menziona tre volte il padre).

Ciò detto, è mia opinione che il congresso, pardon, gli Stati generali sarebbero un passaggio chiarificatore a condizione che si concretassero in un franco, trasparente confronto tra posizioni distinte e rappresentate come tali, grazie al quale risulti chiaro chi sostiene che cosa.

Sarebbe bene che il confronto non fosse cloroformizzato, che non ne sortissero organigrammi negoziati a tavolino che accontentino tutti. Con il rischio di non sciogliere alcun nodo e di trascinarsi i problemi. Avrebbe il sapore dei caminetti dei vecchi partiti. Un epilogo paradossale per un non partito. Spero di essere smentito, ma, al momento, non mi pare di scorgere i presupposti di un vero congresso.