La resistibile ascesa di Salvini

Giovedì, 4 Aprile, 2019

Alcune elezioni regionali (Abruzzo e Sardegna) e l’elezione del nuovo segretario del PD (Nicola Zingaretti) segnano una qualche ripresa di movimento nell’attività politica nazionale, a un anno di distanza dalle elezioni politiche del 4 marzo 2018, che portarono, dopo un’impasse durata oltre un mese, alla formazione di un governo Lega-M5S, frutto di un accordo di potere tra due partiti «reazionari» di diverso orientamento e interesse (cf. Regno-att. 8,2018,193). Le elezioni regionali in Abruzzo e in Sardegna del 10 e 24 febbraio s’inseriscono in una serie di appuntamenti elettorali che culmineranno con le europee del 26 maggio e indicano alcune tendenze politiche di portata nazionale. Come nel caso delle elezioni abruzzesi, quelle in Sardegna evidenziano l’indiscutibile vittoria della coalizione del centro-destra a trazione leghista. La Lega, che con l’operazione governo con il M5S da un lato ha beneficiato e acquisito un’aura di novità (pur essendo nominalmente il partito più vecchio presente in Parlamento) e dall’altro, praticando una forte distinzione dagli alleati di centro-destra (Fratelli d’Italia e Forza Italia), ne assorbe l’elettorato, è diventata il maggior partito nazionale. I sondaggi la descrivono da diversi mesi stabilmente sopra il 30%. E persino in Abruzzo, dove nel 2014 non era presente, la Lega si è imposta come primo partito con il 27,5%. E tuttavia, pur in questo quadro di forte affermazione, Salvini vede, proprio con le elezioni sarde, prospettarsi alcuni limiti a una crescita che per rapidità e proporzioni sembrava sin qui irresistibile. Il tetto sardo La presenza di numerose liste e di formazioni marcatamente autonomiste rende in questo senso difficile una lettura lineare del risultato elettorale sardo, ma qui il partito di Salvini (pur presentandosi per la prima volta in alleanza con molte liste autonomiste) ha raccolto l’11,4%. Alle politiche del 2018, presentandosi con il Partito sardo d’azione, aveva ottenuto il 10,8%. In sé un indubbio successo. E tuttavia questo risultato mostra anche un tetto, un limite all’«irresistibile ascesa» di Salvini. Il suo partito beneficia di un doppio movimento. Interno ed esterno. Dopo il sorpasso di Forza Italia nelle elezioni del 2018, la Lega continua a cannibalizzare l’elettorato interno della sua coalizione, soprattutto quello berlusconiano. Quanto alla sua immagine di «novità politica», essa raccoglie ancora flussi di elettori in uscita da altre formazioni e tra esse la quota più significativa proviene dall’elettorato virtuale del M5S. Tuttavia in Sardegna non c’è stata una crescita leghista paragonabile al trend assegnatole dai sondaggi nazionali. Nonostante il protagonismo in campagna elettorale del ministro degli Interni, la Lega mostra proprio in Sardegna il suo limite e, pur di fronte al crollo del M5S e alla sconfitta della coalizione di centro-sinistra come formazione politica, si ferma dietro al 13,5% del PD. Primo partito in una realtà politica alquanto frantumata. La costante campagna elettorale fatta stando al governo sui temi dell’immigrazione e della sicurezza, sulla retorica sovranista e sull’antieuropeismo hanno premiato il partito di Salvini. Ma questa linea politica marcatamente di destra nei contenuti e radicalizzata nei modi, se segna uno spostamento dell’asse politico all’interno del centro-destra con un indebolimento delle componenti moderate, mostra già anche i suoi limiti. Di tempo e di sostanza. Non può durare all’infinito, troppo oltre emergenze reali e/o inventate, e sconta il rapporto con la realtà. Il nazionalismo è stato un buon collante in un clima di paura e d’insicurezza, ma l’economia italiana ha bisogno dell’Europa e questo è ben chiaro a una componente significativa del voto leghista, soprattutto al Nord. Un secondo significato politico nazionale che le recenti elezioni regionali segnalano è quello della crisi profonda dei 5 Stelle. Sia nelle elezioni abruzzesi sia in quelle sarde il movimento subisce rispetto alle elezioni politiche di un anno fa un autentico crollo. Il M5S era il primo partito alle politiche sarde di un anno fa con il 42,5%, superando le due coalizioni di centro-destra e di centro-sinistra. Ora si ferma a un modesto 9,5%. Meno eclatante la sconfitta in Abruzzo (dal 40% al 20%), ma indice di una virtualità dell’elettorato del M5S che rende difficile un radicamento territoriale al partito di Di Maio. L’eccesso e la rapidità di crescita nelle due elezioni politiche del 2013 e del 2018 e la pessima (per non dire devastante) prova di governo fin qui offerta al paese, non possono che condurre a un ridimensionamento elettorale del movimento e a una sua crisiridefinizione politica. Lo si vedrà meglio alle europee. Ma se proseguirà la «smobilitazione» elettorale in atto, a essa dovrà corrispondere un processo di ridefinizione della forma del movimento e del suo personale politico. Speranza dalle primarie Il destino del Partito democratico non sembra consegnato all’estinzione. Le due elezioni regionali confermano tutta la crisi del PD, ma anche l’arresto della sua emorragia di voti, soprattutto verso il M5S. Ma il dato più confortante per il partito sono state ancora una volta le primarie per la scelta del segretario, che archiviano la lunga transizione del dopo Renzi e mettono capo a nuovi equilibri e nuove relazioni all’interno del partito. Le primarie in sé più che il confronto tra i candidati Zingaretti, Martina, Giachetti. La vittoria di Zingaretti era scontata, non così la partecipazione. La forte partecipazione (oltre 1,5 milioni) il 3 di marzo segnala la disponibilità di una parte dell’elettorato del centro-sinistra a partecipare. È stato acutamente osservato da Arturo Parisi – l’inventore delle primarie del centro-sinistra – che si è trattato di una partecipazione mossa prevalentemente da preoccupazione: «A spingere gli elettori ai gazebo non è stata la scelta del segretario, e neppure il desiderio d’accorciare la distanza che ci separa da un cambiamento percepito imminente, come accadde, ad esempio, nelle prime primarie del 2005, quelle dette “per Prodi”. La domanda che dominava i votanti era “dove stiamo andando a finire?”. E immediatamente dopo “contate su di me, io ci sono”». Poi ci sono tutti gli elementi critici. Ilvo Diamanti ha osservato che si è trattato di una tipologia di elettore sopra i 50 anni e numericamente in calo nelle ex «regioni rosse». Sul piano politico si deve aggiungere che i tre candidati non rappresentavano un avanzamento della figura politica del partito dopo le sconfitte renziane, ma semmai un arretramento. Il PD di oggi somiglia più al vecchio PDS preulivista che a un partito democratico a vocazione maggioritaria. Non ne ha la visione, non ne ha la leadership, non ne ha il progetto. Il rapporto con i 5 Stelle è sintomatico. I vertici del PD hanno assunto (meglio sarebbe dire non hanno mai dismesso) la mentalità proporzionalista, che oggi una pessima legge elettorale consente loro di mettere in pratica. Era quella mentalità che, all’indomani della sconfitta elettorale del 4 marzo 2018, faceva dire a gran parte del gruppo dirigente PD che si doveva tentare un accordo con il M5S e andare al governo. Più che una visione politica si trattava ancora una volta di un principio di appagamento. Meglio l’uovo del potere oggi che la gallina del rinnovamento domani. Su questo la residua forza politica di Renzi, opponendosi all’accordo con Di Maio, ha impedito la fine del PD. Il ruolo democratico del PD Oggi che Renzi è politicamente tramontato, a motivo dei troppi errori di conduzione della politica di rinnovamento del partito e del paese, il gruppo dirigente del PD deve provare a ripartire recuperando tutto il ritardo di visione storica nel quale è rotolato. Il primo rischio è la lettura di una facile ripresa del proprio elettorato a partire dalla crisi dei 5Stelle. Non esiste più «il proprio elettorato». È la vecchia visione comunista di chi pensa allo «zoccolo duro» o alla «ditta», secondo la quale basterebbe essere un po’ più di sinistra per recuperare il popolo della sinistra. Non vi sono elettori, per usare un’espressione andreottiana, «in libera uscita», destinati prima o poi a rientrare nelle caserme. Quella fase storica si è consumata definitivamente. Gli elettori vanno conquistati ex novo, uno a uno. Ogni volta. Il voto d’appartenenza si va estinguendo con le appartenenze. In secondo luogo non vi è alcuna sovrapposizione tra autodefinizione di «sinistra» e voto al PD. La sinistra come tale elettoralmente non conta più del 7%. Una quota sufficiente a stare minoritariamente in un sistema proporzionale, ma non a competere per il governo del paese. Se il 59% di quelli che hanno votato Zingaretti non si autodefiniscono di sinistra, anzi rifiutano quella etichetta, cosa dobbiamo immaginare complessivamente dell’insieme degli elettori? E questo è il terzo aspetto. Il PD non può accontentarsi, grazie alla crisi del M5S, di essere un partito un po’ sopra il 20% e di fare opposizione. Tocca al PD, anche in virtù dell’evoluzione in corso nel centro-destra, riavviare un processo di ricostruzione del bipolarismo, sapendo da un lato che solo il cambio della legge elettorale può consentire la ripresa del cambiamento del sistema politico e della sua governabilità. Dall’altro lato il ricambio democratico passa attraverso una ripresa dello schema coalizionale di tutto il campo del centro-sinistra, con il quale il PD deve tendenzialmente identificarsi per riassumerlo e non esserne una parte. Solo così sarà possibile misurarsi con quello che sarà domani l’esito politico-elettorale dei 5 Stelle, evitando rincorse e facili accordi. Al momento la politica italiana segna ancora il passo. Lega e M5S stanno fortemente attaccati al loro accordo di potere, sapendo che oltre questo governo scellerato si potrebbe ridiscutere tutto. Ma in quel momento servirà al paese un’alternativa. Ed è questo il ruolo democratico del PD.

 

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