La legge sulla “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze"

E’ stata approvata in via definitiva dalla Camera dei deputati, La legge sulla “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze” 

la portata della legge lascia perplessi dal punto di vista giuridico laddove la stessa pur indicando il diverso genus della famiglia, di fatto nella parte normativa richiama e ricalca tutti gli istituti di questa, senza quella chiarezza di diritti e di obblighi previsti dal codice civile. Tale modalità legislativa, non solo non ha risolto alcune rilevanti questioni sia nelle convivenze e nelle unioni, ma lascia notevole e necessario spazio interpretativo alla giurisprudenza, con il rischio che tale necessaria fase creativa venga a nuocere allo stesso istituto tutelato dalla costituzione (art. 29) che è la famiglia.

Da ultimo si segnala come la norma pone questioni rilevanti sotto il profilo etico, non indicando nessuna soluzione alle stesse.

Di fatto si tratta della più profonda modifica alle norme sul diritto di famiglia, senza che il legislatore ne abbia voluto dare evidenza, infatti non si capisce perché non è stato integrato e novellato le norme del codice civile, la difficile convivenza tra le norme del codice civile e questa legge comporterà il rischio che l’interprete per necessità utilizzerà sia per i richiami, ma ancora di più per la  necessità di individuare una norma quelle del codice civile, limitatamente a quelle che riconoscono un diritto, facendo venire meno quel fondamentale equilibrio tra diritti e obblighi su cui è costruito l’istituto civilistico della famiglia. Infatti due sono le possibilità o che la famiglia continui a mantenere la sua connotazione codicistica, con l’assurda conseguenza che saranno molto più gravose le norme per le famiglie nate da matrimonio.

L’altro rischio è che anche l’istituto regolato dal codice civile vada verso uno sfaldamento di quell’equilibrio tra diritti e doveri dei coniugi e dei figli.

Altra criticità è rappresentata dalla diversa disciplina tra la convivenza, di cui poco si è parlato nel dibattito politico, e le unioni civili.

Iniziando la nostra analisi dai commi 36-65 dell’unico articolo, contengono una disciplina della famiglia fondata sulla «convivenza di fatto», evidenziando la prima incongruenza, non potendosi definire di fatto qualcosa che è regolata dalla legge.

 

 

La convivenza

La definizione «uniti stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza materiale e morale», non vincolati da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da unione civile è cosi generica da potersi considerare il genus del istituito della famiglia, piuttosto che la species di questo.

La definizione fondamentale è quella del legame affettivo di coppia che con tale indeterminatezza non potrà che dare luogo ad una ampia e non conforme interpretazione giurisprudenziale da rendere l’istituto assai problematico.

Sono concetti che presentano un inevitabile margine di indeterminatezza, che darà luogo ad ampio contenzioso.

Ad esempio, manca l’obbligo della coabitazione, la temporalità del rapporto, tutti indici per definire oggettivamente quell’affetto richiamato dalla norma da cui discendono obblighi e diritti.

Anche la richiamata reciproca assistenza materiale e morale non è frutto di eteronomia, ma discende da una scelta libera ed autonoma dei componenti della coppia (che però vale ad individuare la fattispecie costitutiva della convivenza medesima, quale disciplinata dalla legge).

Più discutibile l’esclusione, in toto, dei parenti, da ritenersi (art. 77 c.c.) fino al 6° grado, sicché sarebbero escluse dalla applicazione della legge quelle stesse coppie che, nonostante i vincoli di parentela, potrebbero sposarsi, ex art. 87 c.c. (le cui disposizioni, pertanto, in una ottica costituzionalmente orientata, dovrebbero ritenersi applicabili per analogia).

Pure discutibile è l’esclusione (sottesa anche al c. 59) dei soggetti già vincolati da matrimonio o unione civile (nel senso, ovviamente, che uno di loro o entrambi siano sposati o civilmente uniti con terzi): si tratta di coppie di fatto, ed è ben noto che sovente si tratta di coppie di cui uno o entrambi i componenti sono già sposati (in prospettiva, legati da unione civile), pur se separati almeno di fatto; sicché la disposizione in esame riduce, di molto, la sfera di applicazione del nuovo regime.

E’ da ritenersi che, in via interpretativa (certo, con una forzatura del dato normativo) quest’ultimo sia applicabile almeno alle coppie di fatto di cui uno o entrambi i componenti sono legalmente separati, atteso che lo stato di separazione è considerato come propedeutico al divorzio, cfr Cass. 1 aprile 2014, n. 7533, Foro It., 2014, I, 2124 (certo, in tal modo, si escludono comunque le parti dell’unione civile, per la quale – come detto – non è prevista la separazione).

Altra contraddizione si trova nel comma 36 si limita a prevedere che «ferma restando la sussistenza dei presupposti di cui al comma 36, per l'accertamento della stabile convivenza si fa riferimento alla dichiarazione anagrafica di cui all’articolo 4 e alla lettera b), comma 1, dell’articolo 13 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223»; in sostanza quindi la convivenza è provata dalla dichiarazione anagrafica (che però manca se non c’è coabitazione), anzi è prevista la possibilità di una prova diversa in particolare della insussistenza dei presupposti di cui al co. 36, dall’altro – e specularmente – è ammessa la prova della ricorrenza della convivenza (nei termini di cui al comma 36), nonostante la mancanza della dichiarazione anagrafica.

 

I rapporti economici e patrimoniali

La legge non prevede un regime patrimoniale della convivenza: continueranno ad operare, quanto ai beni acquistati dai conviventi, assieme o separatamente, le ordinarie disposizioni civilistiche (anche in tema di comunione ordinaria); così, con riferimento ai conti correnti cointestati , resta operante l’art. 1298 c.c. (che però, proprio con riferimento ai rapporti tra i conviventi, ha suscitato delicati problemi interpretativi, quanto al superamento della presunzione alla stregua della quale le parti dei creditori solidali si presumono uguali, se non risulta diversamente).

L’unico rilevante rapporto giuridico tra i conviventi, disciplinato dalla legge, discende non dalla convivenza in sé, ma dalla circostanza che l’uno presti la propria attività lavorativa all’interno dell’impresa dell’altro, e a suo favore: cfr il co.46, che ha introdotto l’art. 230 ter c.c., disposizione costruita sul modello dell’art. 230 bis.c.c., impresa familiare ma, discutibilmente, con delle varianti lessicali che potrebbero però essere ritenuti non solo tali, con conseguenti possibili incertezze interpretative (specie con riferimento al diritto, del convivente – lavoratore, al mantenimento, oltre che agli utili e agli incrementi, diritto - incomprensibilmente - non espressamente richiamato dalla nuova disposizione).

Per il resto, coerentemente le nuove disposizioni, più che i rapporti giuridici tra i conviventi, disciplinano quelli che insorgono tra i conviventi e i terzi, cfr i commi 38 ss; così, ad es., sono estesi ai conviventi i «diritti spettanti al coniuge nei casi previsti dall'ordinamento penitenziario» (comma 38); il «diritto reciproco di visita, di assistenza nonché di accesso alle informazioni personali» in caso di malattia e ricovero (comma 39); i diritti nell'assegnazione di alloggi di edilizia popolare (comma 45), mentre il comma 40 prevede che ciascun convivente di fatto può designare l’altro quale suo rappresentante con poteri pieni o limitati, tra l’altro, in caso di malattia che comporta incapacità di intendere e di volere, per le decisioni in materia di salute.

Mentre appare un'altra forzatura del legislatore che detta una (embrionale) disciplina delle scelte di fine vita (per non dire del testamento biologico), riconoscendo ai conviventi facoltà che allo stato sono negate ai coniugi e ai componenti dell’unione civile.

 

La fine della convivenza

La legge non disciplina espressamente la fine, rectius la cessazione della convivenza; ma è evidente, alla stregua dei principi generali, che questa si verifica con la morte di uno dei conviventi, ovvero con il venir meno di uno dei presupposti, positivi o negativi, che consentono di configurare una convivenza disciplinata da una delle parti (es. il matrimonio o l’unione civile di uno dei conviventi con un terzo, ma anche il venir meno dell’affectio: il che poi potrebbe portare rilevanti problemi probatori).

Evidentemente cessata la convivenza cessano anche gli effetti giuridici che la legge vi riconnette, tra le parti e verso i terzi , il che pure potrà porre dei problemi applicativi (si pensi ai poteri rappresentativi conferiti ai sensi del comma 40 cit). 

Non mancano però effetti giuridici nuovi, tra le parti e verso i terzi, scaturenti proprio dalla cessazione della convivenza.

In primo luogo va richiamato il comma 65, secondo cui «in caso di cessazione della convivenza di fatto, il giudice stabilisce il diritto del convivente di ricevere dall’altro convivente e gli alimenti qualora versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento».

Il disegno originario prevedeva addirittura un diritto al mantenimento; il testo definitivo, malissimo formulato, si limita al riconoscimento del diritto agli alimenti (la disposizione ricalca l’art. 438, 1° comma c.c.) è un palese  riflesso della solidarietà postmatrimoniale, fondata sull’art. 2 Cost., ma comunque suscita perplessità anche di ordine costituzionale, in quanto la convivenza - a differenza del matrimonio (e delle unioni civili) si fonda pur sempre su una libera scelta, sempre revocabile.

La disposizione, oltretutto, continua prevedendo che «gli alimenti sono assegnati per un periodo proporzionale alla durata della convivenza e nella misura determinata ai sensi dell’articolo 438, secondo comma, del codice civile»;  non è chiaro il riferimento alla proporzione con la durata del matrimonio: evidentemente il diritto agli alimenti non potrà essere riconosciuto per un periodo più lungo della durata della convivenza.

Vanno poi richiamate le disposizioni in materia di sorte della casa familiare in caso di morte di uno dei conviventi, cfr commi 42-44; in particolare il comma 42 dispone che «in caso di morte del proprietario della casa di comune residenza il convivente di fatto superstite ha diritto di continuare ad abitare nella stessa per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni. Ove nella stessa coabitino figli minori o disabili del convivente superstite il medesimo ha diritto di continuare ad abitare nella casa di comune residenza per un periodo non inferiore a tre anni»; si tratta di una disposizione innovativa, che sembra introdurre una nuova fattispecie di successione necessaria (ed un nuovo diritto domeiicale).   

 

I contratti di convivenza

Il profilo più significativo del nuovo regime concerne il nuovo e tipico «contratto di convivenza», con il quale i conviventi possono «disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune», cfr co. 50. 

L’oggetto è delineato dal comma 53: «Il contratto può contenere a) l’indicazione della residenza; b) le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo; c) il regime patrimoniale della comunione dei beni, di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile»; il comma 56 preclude l’apposizione di condizioni o di termini.

La legge tipizza quindi la causa del contratto, e ne delimita l’oggetto; restano estranei alla disciplina pattizia, i rapporti personali tra i conviventi (ma vi è però l’indicazione, che è scelta, della residenza), nonché i rapporti relativi alla stessa cessazione della convivenza (es. con riferimento agli alimenti, oggetto oltretutto di diritto indisponibile, almeno fino a quando non diventa attuale la fattispecie costitutiva).

Naturalmente il principio di determinatezza dell’oggetto impone alle parti di specificare “come”, con quale modalità, ciascuno di essi contribuisce alle necessità della vita in comune.

Inoltre le parti ben potrebbero optare per il regime della comunione convenzionale (sarebbe invece superfluo il riferimento alla separazione dei beni, che, per le coppie di fatto, costituisce la regola, in base ai principi generali); in dottrina si è osservato che «I conviventi potranno qualificare le attribuzioni patrimoniali già eseguite dall’uno o dall’altro, dando vita a negozi di accertamento (così prevenendo domande di ripetizione o di arricchimento senza causa alla cessazione della convivenza), potranno predeterminare il contributo del partner ad un’eventuale futura impresa familiare, potranno ancora creare vincoli di destinazione a favore della famiglia di fatto (art. 2645-ter c.c.)» (BONA).

   

Tutto quello che è estraneo alla causa ovvero all’oggetto tipico potrebbe certo essere oggetto di negozi atipici, anche accessori a quello di convivenza, suscettibili del giudizio di meritevolezza di cui all’art. 1322 cpv c.c. ; sicuramente non potranno essere oggetto di disciplina pattizia i rapporti patrimoniali con i figli, vertendosi in materia di diritti indisponibili.

Quanto alla formazione, dovrebbero operare i principi generali, con l’avvertenza che si tratta di contratto formale, cfr comma 51: «il contratto (…), le sue modifiche e la sua risoluzione, sono redatti in forma scritta, a pena di nullità, con atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da un avvocato».

Vi è di più: il medesimo comma 51 continua disponendo che questi ultimi attestano la conformità del contratto alle norme imperative e all’ordine pubblico; in mancanza, evidentemente, il contratto non ha efficacia.

Perché il contratto produca effetti verso i terzi, divenendo opponibile, il professionista che l’ha ricevuto o ha autenticato le sottoscrizioni deve, nel termine di dieci giorni, «trasmetterne copia al comune di residenza dei conviventi per l’iscrizione nell’anagrafe»: anche qui, evidentemente, si manifesta l’utilità dei (non previsti) registri di convivenza.

Si tratta di contratto sempre modificabile dalle parti (con riferimento al regime patrimoniale cfr il co. 54), la legge ne disciplina anche, analiticamente, la risoluzione (possibile, cfr il comma 59, per: «a) accordo tra le parti; b) recesso unilaterale; c) matrimonio o unione civile tra i conviventi o tra un convivente ed altra persona; d) morte di uno dei contraenti»).

Di rilievo i commi 60-61 che, con riferimento al recesso unilaterale, prevedono non solo la forma solenne, ma anche l’inedito ed inutile onere, per il professionista di notificare copia del recesso all’altro contraente all’indirizzo dichiarato nel contratto (quid iuris, allora, se la avviene ad istanza del convivente e non del professionista?). 

Il co. 57, infine, disciplina le fattispecie tipiche di nullità insanabile del contratto (di particolare interesse la fattispecie sub b), la violazione del comma 36, vale a dire la stipula del contratto fuor dai casi in cui si può ravvisare una convivenza di fatto.

 

Le unioni civili tra persone dello stesso sesso

La legge ha istituito “l'unione civile tra persone dello stesso sesso quale specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione”, come enuncia, solennemente, dal 1° comma.

E’ un istituto riservato esclusivamente alle coppie di persone dello stesso sesso unite da stabile legame affettivo e comunanza di vita, e nettamente distinto dal matrimonio, invece riservato alle sole coppie eterosessuali.

Il riferimento alle formazioni sociali, nonché (pleonasticamente) all’ art. 2 Cost. costituisce un chiaro riferimento a Corte Cost. 15 aprile 2010, n. 138, id., 2010, I, 1361, che appunto su tale disposizione costituzionale radicava i diritti delle coppie omosessuali.

Le nuove disposizioni, presentano una ambiguità di fondo, ai limiti della schizofrenia legislativa: alle coppie omosessuali unite in unione civile sono riconosciuti diritti e doveri coincidenti, in ampia parte, con quelli che competono ai coniugi, nel matrimonio; nello stesso tempo, però si è evitato di riprodurre o richiamare (ma non del tutto) le disposizioni che, sotto un profilo in primo luogo simbolico, potessero con più forza evocare il matrimonio.

Nondimeno l’impronta matrimoniale (l’unica forma di famiglia fino ad ora disciplinata dalla legge) è preponderante.

Né v’è da temere che, così procedendo, il legislatore abbia realizzato una sostanziale equiparazione tra matrimonio e unione civile, che sarebbe invece preclusa da Corte Cost. 1382010 cit. (confronta anche Corte Cost. 11 giugno 14, n. 170, Foro It., 2014, I, 2674) impone semmai l’introduzione di una “convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima”; così anche la giurisprudenza di legittimità, cfr Cass. 21 aprile 2015, n. 8097, Foro It.., 2015, I, 2385 e ancor più chiaramente 9 febbraio 2015, n. 2400, Foro It., 2016, I, 296 che, pur negando alle coppie omosessuali il diritto al matrimonio, invoca, quasi a mò di corrispettivo, l’introduzione di uno statuto di diritti e doveri coerente con il rango costituzionale di tali relazioni).

 

La disciplina degli impedimenti e delle nullità è costruita, in parte attraverso la tecnica del rinvio, su quella matrimoniale (nonostante la portata simbolica di tali disposizioni), pur con qualche rilevante variante.

La disciplina dell’unione civile diverge invece totalmente da quella del matrimonio con riferimento alla stessa formazione del vincolo.

Il comma 2 si limita ad enunciare che l’unione civile è costituita mediante dichiarazione resa da due persone dello stesso sesso di fronte all’ufficiale dello stato civile, ed alla presenza di due testimoni; il legislatore, d’altronde,  evita di riferirsi alla celebrazione, riferendosi sempre alla costituzione del legame (concetto che però va ben oltre una mera registrazione anagrafica).

Per il matrimonio, invece, è prevista una ampia ed organica disciplina che concerne, tra l’altro, le pubblicazioni (art. 93- 100 c.c. ), le opposizioni (art. 102- 104 c.c. ) e lo stesso rito di celebrazione (art. 106- 113 c.c.).

In realtà la costituzione delle unioni civili conserva gli elementi essenziali propri della celebrazione del matrimonio: le dichiarazioni rese dalle parti personalmente e contestualmente innanzi all’ufficiale di stato civile (lo stesso che celebra il matrimonio civile), cui segue la formazione dell’atto (pur, se quest’ultimo, è di incerta collocazione nei registri di stato civile). 

L’unione civile deve quindi intendersi costituita con lo scambio delle dichiarazioni di volontà, atti negoziali, in senso ampio, e recettizi, paradossalmente sul modello del matrimonio canonico.

Una volta rese le dichiarazioni, raccolte nel relativo atto, si costituisce (come enunciato dalla stessa legge) quello che è un vero e proprio (nuovo) status personale, dai rilevantissimi effetti giuridici.

Tra le parti si instaura un vincolo ampiamente corrispondente a quello di coniugio.

Vi è quindi la necessità di una disciplina più specifica, che sarà verosimilmente introdotta, a livello subprimario, dal ministero dell’interno.

Il modello di riferimento - e parametro di legittimità (anche come criterio direttivo) di tale normazione di dettaglio - non potrà essere che quello matrimoniale considerata la costruzione e i rimandi della legge, vi è spazio per una ricostruzione in via interpretativa del procedimento costitutivo dell’unione civile, sempre alla stregua delle disposizioni dettate per il matrimonio (il comma 20 di cui si dirà esclude l’applicazione diretta delle norme del codice civile non espressamente richiamate, ma non anche quella analogica: si è del resto detto della  “matrimonalizzazione” del nuovo istituto).

Infine va segnalato che la legge non prevede che gli ufficiali di stato civile possano rifiutare la celebrazione dell’unione civile, invocando l’obiezione di coscienza.

Si tratta di un pubblico ufficiale, che non può sottrarsi all’adempimento del proprio dovere, solo perché non condivide (sia pure per motivi di coscienza) le leggi che è chiamato ad applicare (si pensi al giudice tutelare, per l’autorizzazione all’aborto della minorenne, ex art. 12 l. 1981978, cfr Corte cost., 25 maggio 1987, n. 196, id.., 1988, I, 758).

Ne segue che un eventuale rifiuto di celebrazione dell’unione civile sarebbe ostruzionistico e illegittimo, esponendo l’ufficiale di stato civile a responsabilità penale (art. 328 c.p., Rifiuto di atti di ufficio, omissione) e anche civile, quando ne siano derivati per le parti dei danni (anche di ordine morale).

 

La disciplina dei diritti e dei doveri delle parti dell’unione civile, è contenuto nell’11° e nel 12° comma modellati, ma con modifiche, rispettivamente sugli art. 143 e 144 c.c. (è anche espressamente prevista l’applicazione dell’art. 146 c.c.). 

Al di là di mere differenze lessicali si tratta, sostanzialmente, di disposizioni omogenee.

In altri termini l’impronta familiaristica – ed anzi paramatrimoniale – delle unioni civili resta fortissima anche con riferimento ad un ambito tanto centrale (i bisogni comuni, la residenza comune, di cui alle nuove norme, costituiscono meri sinonimi di bisogni familiari e residenza familiare, di cui al c-c.c. mentre il dovere di collaborazione - non espressamente richiamato per le unioni civili - è insito quasi tautologicamente in quello di assistenza reciproca delle parti).

Si tratta, inoltre, di diritti e doveri sicuramente inderogabili (la cui violazione può portare al risarcimento dei danni, cfr infra), come quelli derivanti dal matrimonio attesa la sicura portata pubblicistica delle disposizioni che li esprimono; cfr anche il comma 13, che ricalca l’art. 160 c.c.(disposizioni, entrambe, di carattere generale).    

La soppressione del dovere di fedeltà

L’11° comma non richiama, come accennato, il dovere di fedeltà, posto per il matrimonio dall’art. 143, 2° comma c.c.

Tanto al di fuori di ogni giustificazione tecnico-giuridica, ed in contrasto con la struttura generale dell'unione civile (ed in una ottica svalutativa delle unioni civili).

Va però ricordato che il dovere di fedeltà matrimoniale, dopo la riscrittura dell’art. 143 cit. dalla novellazione del 1975, è impegno globale di devozione, comprensivo anche (ma non solo) della fedeltà sessuale.

Tale dovere, più precisamente, ha un contenuto negativo (come dovere di astensione da rapporti sessuali, ma anche affettivi, con altre persone), ma è anche diritto dovere reciproco alla fiducia – spirituale e fisica – di ciascuno nell’altro.

Sotto tale profilo la fedeltà è essenzialmente lealtà reciproca, finendo per confinare (ed anzi, a esserne ricompreso come species) con il dovere di assistenza morale, espressamente richiamato dall’art. 143 cpv c.c., ma anche dal co. 11 dell’art. unico in esame.

Tanto anche in un’ottica costituzionalmente orientata: la rilevanza del dovere di fedeltà, per le unioni civili (non essendo prevista la separazione, e quindi l’addebito) può emergere solo nell’ambito dell’illecito endofamiliare (Cass. 1 giugno 2012, n. 8862, Foro It..,  2012, I, 2037); escludere quest’ultimo con riferimento alle parti dell’unione civile, per la non configurabilità del dovere di fedeltà (in una fattispecie in cui si deduce l’adulterio, quale fonte di danno) si risolverebbe in una inammissibile discriminazione. 

 

Gli effetti patrimoniali e la clausola di equivalenza di cui al 20° comma. 

L’equiparazione tra unione civile e matrimonio è pressoché piena quanto ai profili economici e patrimoniali: il principio solidaristico, di cui all’art. 2 Cost., opera qui con pienezza, cfr il comma 13. 

E’ così espressamente previsto che il regime patrimoniale dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, in mancanza di diversa convenzione patrimoniale, è costituito dalla comunione dei beni.

Troveranno quindi integrale applicazione alle unioni civili le disposizioni in tema di fondo patrimoniale, di comunione legale, di comunione convenzionale di separazione dei beni, di impresa familiare, nonché (19° comma) in materia di alimenti, e quelle relative al fondo patrimoniale.

Il regime patrimoniale della famiglia, introdotto nel 1975 e invecchiato male, trova pertanto, con l’estensione alle unioni civili, una imprevista (e forse non meritata) “rivitalizzazione”.

L’equiparazione al matrimonio è piena anche quanto ai profili successori, come disposto (con tipica norma di rinvio) dal 21° comma.

Residuale, ma al contempo centrale nell’economia della legge, è poi la già richiamata disposizione di chiusura del 20° comma: «Al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole «coniuge», «coniugi» o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. La disposizione di cui al periodo precedente non si applica alle norme del codice civile non richiamate espressamente nella presente legge».

E’ la  clausola di equivalenza (o di salvaguardia) non solo terminologica, rivolta tanto ai giudici quanto alla pubblica amministrazione che – svolgendo una funzione palesemente antidiscriminatoria – assicura, almeno tendenzialmente, l’equiparazione nei più svariati ambiti tra matrimonio e UC.

L’inciso iniziale – introdotto in sede parlamentare – verosimilmente dovrebbe avere la funzione di limitare la portata della clausola, ma così non è: quale che sia stata l’intenzione del legislatore, non vi è nulla di giuridicamente rilevante al di fuori della tutela dei diritti e dell’adempimento dei doveri (gli uni e gli altri da intendersi nella più ampia dimensione giuridica), oltretutto nella loro dimensione effettuale.

L’ambito di operatività del 20° comma è quindi amplissimo: si estenderanno così, alle parti delle unioni civili che - lo si ricordi - costituiscono una famiglia, tutte le disposizioni (non solo di rango legislativo), relative ai coniugi,  ad es. quelle processuali civili, ma anche quelle in materia di agevolazioni tributarie, o edilizie, di immigrazione, nonché quelle previdenziali, anche quanto alle pensioni di reversibilità.

L’equiparazione in oggetto è certo scalfita dalla singolare esclusione, dalla operatività della clausola, delle norme del codice civile non richiamate.

Si tratta di una previsione, essa sì, eccezionale, e di stretta interpretazione, dettata da ragioni soprattutto politiche: in ogni caso, e come già detto, non è esclusa la applicazione almeno analogica delle disposizioni non richiamate del codice civile, a fronte di lacune non colmabili altrimenti, e fonti di possibili incostituzionalità. 

 

Lo scioglimento dell’unione civile

La fattispecie tipica (se non naturale) di scioglimento dell’unione civile, è la morte di una delle parti, espressamente prevista dal comma 22 (in termini con l’art. 149, 1° comma c.c.), a conferma della stabilità “matrimoniale” dell’istituto.

Alla morte è equiparata la dichiarazione di morte presunta di una delle parti.

Interessa però soprattutto lo scioglimento “patologico” dell'unione civile, in vita di entrambi i contraenti.

Il decreto legge – e rappresentava il profilo forse di maggiore vicinanza tra unione civile e matrimonio – estendeva tout court alla prima la normativa su separazione e divorzio.

Tale assetto, forse proprio in ragione della fortissima portata simbolica, non è stato però conservato nella versione definitiva della legge.

Il legislatore, in un’ottica di massima semplificazione del regime di scioglimento, ha soppresso ogni riferimento al regime della separazione legale (consensuale o giudiziale che sia).

Le parti dell’unione civile, in caso di crisi irreversibile, non avranno altra scelta che il divorzio; non vi è però un rinvio tout court alla legge 8981970 e successive modifiche, ma solo ad alcune (pur centrali) disposizioni di quest’ultima.

La legge distingue, inopportunamente, due macrofattispecie ricorrendo le quali può chiedersi il divorzio.  

La prima (23° comma), di carattere obiettivo, ricomprende i «casi previsti dall’art. 3 n. 1) e n. 2) lettera a), c), d) ed e)» della legge divorzio 8981970.

Si tratta delle fattispecie, connesse a pronunce penali (ma anche di divorzio conseguito all’estero), e di rara verificazione, di “divorzio immediato”, senza cioè il decorso del periodo di separazione legale, di cui all’art. 3, 1° c., n. 2 b) legge cit.

La seconda macrofattispecie, eminentemente soggettiva, è prevista dal 24° comma, secondo cui l'unione civile si scioglie «quando le parti hanno manifestato anche disgiuntamente la volontà di scioglimento dinanzi all’ufficiale di stato civile. In tal caso la domanda di scioglimento dell’unione civile è proposta decorsi tre mesi dalla data di manifestazione di volontà di scioglimento dell’unione».

La dichiarazione di volontà rilevante ai fini dello scioglimento, quindi, può essere sia congiunta che unilaterale (quindi di carattere potestativo).

Beninteso è sufficiente, ai fini del divorzio, la dichiarazione anche solo di una delle parti: l’avverbio disgiuntamente deve interpretarsi in tale senso, e non in quello che, ai fini del divorzio, sarebbero comunque necessarie le dichiarazioni (quindi il consenso) dell’uno e dell’altro, pur se espresse in momenti diversi (una siffatta lettura renderebbe sostanzialmente indissolubile l’unione civile, in mancanza di accordo, e al di fuori delle residuali e rare fattispecie di cui al 23° comma, il che, ovviamente, non si configura neppure con riferimento al matrimonio).

Non deve sfuggire (a conferma della pessima tecnica legislativa) che l’amplissima fattispecie del 24° comma cit., rende superflua quella di cui al 23° comma.

Oltretutto la previsione del termine di tre mesi (di cui al 24° comma) non integra una condizione di proponibilità o di procedibilità della domanda: ne segue, nel silenzio della legge, che l’omissione della dichiarazione (ovvero la proposizione dell’azione prima del decorso del trimestre) non dovrebbe avere (al di là delle intenzioni del legislatore) alcuna incidenza processuale.

Quanto al rito, vi è  un pressoché integrale rinvio a quello divorzile (si applicano infatti, in forza del comma 25, gli art. 4 e 5, di quest’ultimo i commi 1 e da 5 a 11) della legge div. (trovano anche opportuna applicazione i procedimenti semplificati - anzi, non giurisdizionali - di cui agli artt. 6 e 12 del d.l. 1322014, conv. in l. 1622014, quindi la negoziazione assistita e il divorzio innanzi al sindaco quale ufficiale di stato civile).

Troverà poi integrale applicazione (anche quanto alle garanzie) il fin troppo rigido regime della solidarietà postconiugale, e quindi la parte economicamente più debole, ricorrendo le condizioni di cui all’art. 5 l. div. cit., avrà diritto all’assegno divorzile.

 

Rettifica di attribuzione di sesso, matrimonio, unione civile, divorzio, matrimoni stranieri

Il 27° comma regola la fattispecie, certo rarissima, di “conversione” del matrimonio, sciolto in conseguenza della rettificazione del sesso di uno dei coniugi, in unione civile.

La legge qui assolve a quanto prescritto da Corte Cost. 1702014 cit.

Vi è però anche l’ipotesi opposta, quella della rettificazione di attribuzione di sesso di una delle parti dell’unione civile; in tale ipotesi il 26° comma prevede lo scioglimento automatico dell’unione stessa, e non la conversione in matrimonio.

La legge ancora prevede, non discostandosi dal disegno di legge la delega al Governo per il riordino e l’adeguamento della legislazione vigente, cfr. co. 28-31.

In particolare il 28° comma, b) prevede la delega anche per la modifica ed il riordino delle norme in materia di diritto internazionale privato, prevedendo «l’applicazione della disciplina dell’unione civile tra persone dello stesso sesso regolata dalle leggi italiane alle coppie formate da persone dello stesso sesso che abbiano contratto all’estero matrimonio, unione civile o altro istituto analogo».

L’obiettivo è quello di risolvere autoritativamente la questione del riconoscimento dell’efficacia, nel nostro Paese, degli atti di matrimonio contratti all’estero, dove è consentito, da coppie omosessuali.

La giurisprudenza prevalente esclude tale riconoscimento, cfr in ultimo App. Milano 9 novembre 2015, id., 2016, I, 296; 10 dicembre 2015, ibid., I, 338 (ma contra App. Napoli 8 luglio 2015, ibid., I, 297, nonché Trib. Grosseto 26 febbraio 2015, ibid., I, 297) .

Le parti potrebbero però non accontentarsi della conversione in unione civile del loro matrimonio straniero, insistendo per la trascrizione tout court di tale atto.

La giurisprudenza potrebbe allora affrontare la questione su basi nuove, considerato che è ormai la stessa legge italiana a riconoscere la giuridicità delle unioni omosessuali (sia pure sotto forma di unioni civili), sicché potrà essere difficile continuare a negare qualunque effetto giuridico al matrimonio omosessuale straniero (specie poi quanto ai matrimoni contratti in Paesi dell’Unione europea (importa poco se da italiani o altricittadini dell’Unione).

 

Di Giuseppe Cannella